How to make it perfect
Titolo:
How to make a (perfect) proposal
Autore: My Pride
Fandom: Super Sons
Tipologia: One-shot
[ 3394 parole fiumidiparole
]
Personaggi: Damian
Bruce Wayne, Jonathan Samuel Kent
Rating:
Giallo
Genere: Generale,
Slice of life, Fluff
Avvertimenti: What
if?, Slash
Solo i fiori sanno: 34.
Rosa rossa: amore e passione
Just stop for a minute and smile:
33. "Che tempismo!"
Writeptember: 2.
Opera contenente una scena vista in un film || 3. X cura Y in un luogo
ostico
SUPER SONS © 2016Peter J. Tomasi/DC. All Rights Reserved.
Aveva
pensato praticamente a
tutto.
Ed era per quel motivo che Jon sorrideva raggiante avanti allo specchio
del bagno, sistemandosi al meglio i ciuffi di capelli ribelli mentre
raddrizzava la montatura degli occhiali.
Quello sarebbe stato un giorno speciale,
il giorno della cosiddetta resa
dei conti.
Era da due giorni che cercava di prenotare un tavolo
all’unico
ristorante di cucina araba presente a Metropolis, conscio che quel tipo
di sapori non fossero più quelli che Damian consumava di
consuetudine da quando si trovava in America. Per quanto il signor
Pennyworth cercasse di accontentarlo di tanto in tanto, da quando
Damian aveva cominciato a vivere da solo - e in seguito con lui - si
accontentava di consumare qualcosa che preparava al volo o il cibo
cinese che condividevano dopo una pesante ronda, quindi Jon aveva
pensato che potesse essere un’idea carina portarlo
lì con
la scusa di voler assaggiare qualcosa di nuovo.
A quei pensieri, Jon rimirò
un’ultima
volta la sua immagine riflessa nello specchio. In realtà
doveva
ammettere a sé stesso che aveva pensato di portare Damian
direttamente a Dubai in volo, ma sarebbe stato molto più
difficile spiegare la sua scelta di fare un viaggio del genere solo per
mangiare un po’ di babaganoush, tanto per dirne una. Quindi,
per
quanto meno romantica, la scelta del Nagar era stata la più
ovvia.
«J?»
La voce di Damian lo distolse dai suoi
pensieri e si
riscosse un po’, aggiustando un’ultima volta la
cravatta
prima di lanciare uno sguardo all’orologio che aveva al
polso.
Aveva perso la cognizione del tempo. «Eccomi!»,
rassicurò, andando ad aprire la porta. Era una fortuna che
avessero due bagni, o non avrebbe potuto godere della visione di Damian
già preparato di tutto punto. Aveva ravvivato i capelli
all’indietro e indossato un completo nero che gli fasciava
perfettamente il corpo e metteva in risalto i punti giusti,
più
una cravatta verde scuro che si intonava benissimo con il colore dei
suoi occhi. Non era la prima volta che lo vedeva così tirato
a
lucido - aveva partecipato a molte serate di famiglia,
nonché ad
eventi delle Wayne Enterprises - , ma era la prima volta che lo faceva
per andare in un ristorante insieme a lui, con un completo nuovo di
zecca che gli calzava a pennello. E Jon sorrise trasognante.
«Sei bellissimo». Le
parole gli uscirono
dalle labbra prima ancora che potesse pensarle, e Damian
sogghignò.
«Lo dici come se fosse una
novità», replicò con il suo solito tono
saccente,
seppur divertito, allungandosi verso di lui in punta di piedi per
sistemargli la cravatta. Jonathan solitamente indossava abiti casual,
come felpe, camicie o jeans, quindi era piacevole vederlo
più
elegante nonostante non disprezzasse il suo solito outfit.
«Stai
bene anche tu. Ora che ne diresti se...» avrebbe anche
aggiunto
altro se non si fosse accorto che Jon stava sì osservando le
sue
labbra, ma non sembrava esattamente essere lì con la testa,
visto il suo sguardo fisso. «Terra chiama Kent».
Jon ci mise un attimo di troppo per
ridestarsi,
sbattendo le palpebre come un idiota nel sentire lo sguardo di Damian
su di sé. «Oh. Oh, scusa, io...
andiamo?»
cambiò discorso nel prendergli la mano per stringerla nella
sua,
sentendo un piccolo sbuffo ilare da parte dell’altro che,
senza
fare tante storie almeno per quella sera - e Jon ringraziò
Rao
per le piccole cose -, si lasciò trascinare fuori
dall’appartamento dopo aver preso le giacche e le chiavi
dell’auto.
Volare avrebbe sicuramente risparmiato
loro un sacco
di tempo, ma erano in abiti civili e non sarebbe stato facile spiegare
perché Jonathan Samuel Kent, stagista al Daily Planet,
stesse
svolazzando in giro con il CEO della sede delle Wayne Industries di
Metropolis. Per quanto la loro relazione fosse sotto i riflettori da
più di un anno - nessun Wayne riusciva a fuggire
dall’occhio vigile di Vicki Vale del Gotham Gazette -, non lo
erano di certo i suoi poteri. Evitare di dare nell’occhio
anche
in quel senso era la priorità.
Optando quindi per l’auto, la
Lamborghini
rossa di Damian sfrecciò ben presto fra le strade di
Metropolis,
macinando asfalto mentre il suo possessore osservava fuori dal
finestrino tra una chiacchiera e l’altra. Difficilmente
lasciava
che qualcun altro mettesse le mani sulla “sua
bambina”, ma
di tanto in tanto, come quella sera, Jon riusciva a guidarla e si
sentiva un po’ come James Bond in “La morte
può
attendere”. Una volta l’aveva anche detto a Damian,
e lui
aveva sghignazzato divertito al pensiero del figlio di Superman nelle
vesti di 007.
Per quanto avessero trovato un
po’ di
traffico, il viaggio fu tutt’altro che noioso o silenzioso:
se
non scherzavano tra loro, Damian cercava qualche canzone alla radio che
poteva rallegrare l’atmosfera nell’abitacolo, ed
era
curioso come riuscisse a beccare ogni volta una stazione che
trasmettesse “Highway to hell”, divenuta
praticamente la
sua canzone preferita. Jon non aveva faticato a capire
perché,
ma non aveva mai fatto domande, esattamente come quella sera in cui,
per l’ennesima volta, si era ritrovato ad ascoltarla. Si era
solo
concentrato sulla voce di Damian che intonava ogni strofa con
sicurezza, senza imitare la tonalità del cantante ma usando
la
propria, mettendoci più enfasi soprattutto quando arrivava
al
ritornello; Jon a volte gli scoccava un’occhiata e lo beccava
a
suonare una chitarra immaginaria, e a volte invece si univa al suo
canto, ridendo come due idioti.
Arrivarono al ristorante quasi senza
rendersene
conto, affidando le chiavi dell’auto al parcheggiatore
–
con tanto di ammonimento da parte di Damian se avesse trovato un solo
graffio, prima che gli consegnasse un biglietto da cento dollari
– per entrare e farsi accompagnare al tavolo a loro riservato.
«Devo ammetterlo,
Jon», cominciò
Damian mentre si accomodava, nascondendo un vago sorriso, «mi
ha
stupito che tu sia riuscito ad avere un tavolo. Questo posto ha
più prenotazioni del Golden Dragon».
Jon ridacchiò, sedendosi a
sua volta. Era
raro riuscire a stupire uno come Damian, quindi si tenne stretto il
complimento. «Che posso dire, anch’io ho degli
agganci».
«Usali più
spesso»,
rimbeccò nel fargli un occhiolino, e Jon non poté
evitare
che un sorriso gli si stampasse sulle labbra. Forse in quel momento
sembrava un idiota, ma Damian era abituato al fatto che sorridesse in
continuazione – proprio figlio di suo padre, gli aveva detto
– e non diede quindi peso alla cosa, limitandosi a guardare
curiosamente il menù per vedere quali piatti avevano da
offrire.
Fu Damian stesso che finì col
consigliarne
alcuni a Jon e a dirgli quali avrebbe dovuto evitare per non mangiare
troppo speziato, e parecchi piatti, due bottiglie e un dolce dopo,
poterono finalmente dirsi soddisfatti, tanto che persino il volto di
Damian apparve rilassato come non lo era stato nelle ultime due
settimane. Avevano avuto così tanto da fare, tra il lavoro e
le
loro missioni da eroi, che passare del tempo come
“coppia”
era stato davvero l’ultimo dei loro pensieri. Quindi avevano
davvero avuto bisogno di staccare un po’ la spina.
«Grazie, Jon», se ne
uscì
d’un tratto Damian. «È stata una bella
serata», ammise. Non era tipo da appuntamenti o cose del
genere,
ancor meno elargiva complimenti, quindi Jon apprezzò ancora
di
più quelle parole.
«Sono contento che ti sia
piaciuta»,
replicò un po’ imbarazzato, sistemandosi gli
occhiali sul
naso. Era più un gesto nervoso che altro, e Damian se ne
rese
conto, arcuando un sopracciglio.
«Tutto bene,
Jonathan?» chiese a quel punto, vedendolo annuire di getto
prima di sorridere.
«Sì, è
solo che... prima di
andare, c’è una cosa che devo... no, che voglio
dirti», si corresse, ricevendo un’occhiata curiosa.
Si
aspettò che Damian replicasse qualcosa come suo solito,
invece
stranamente lo lasciò continuare. E lui prese maggior
coraggio,
allungando una mano verso la sua sul tavolo. «Ricordi... la
nostra prima sera?»
A quella domanda, Damian lo
fissò.
Capì di quale “prima sera” stesse
parlando senza
nemmeno doverlo chiedere, e l’ombra di un ghignetto si
dipinse
sulle sue labbra mentre allungava a propria volta la mano.
«Strano che lo domandi ma, sì, lo ricordo. Come
potrei
dimenticarlo, Jonny-boy?» prese bonariamente in giro.
«E
ricordo anche che non volevi venire con me».
«Avevo dieci anni, non puoi
biasimarmi se non volevo sgattaiolare via di casa senza
permesso».
«Però alla fine
l’hai fatto e ci hai preso gusto».
«Già». Il
sorriso sul suo viso
divenne ancora più radioso. «E da quella notte
abbiamo
condiviso tutto: i momenti belli e quelli brutti, avventure che non mi
sarei mai sognato di vivere se non ti fossi presentato alla mia
finestra quella sera ad Hamilton, abbiamo attraversato l'intero spazio
e abbiamo affrontato imprese che persino i nostri padri non si
sarebbero mai sognati di vivere, e l'abbiamo sempre fatto fidandoci
l'uno dell'altro». Si umettò le labbra nel vedere
Damian
ricominciare a fissarlo con estrema attenzione, quasi volesse capire
dove volesse andare a parare. «Sei diventato un partner, il
mio
migliore amico, l'amore della mia vita. E quando penso al futuro, penso
che non c'è nessun altro con cui desidero passare il resto
della
mia vita». Deglutì impercettibilmente, sentendo il
suo
cuore battere ad un ritmo sempre più veloce e costante. Poi
riprese. «Vorresti sp...»
Non fece in tempo a finire e a tirar
fuori la
scatola che un boato fendette l'aria, inghiottendo le sue parole e
facendo tremare il pavimento sottostante prima che grida disarticolate
si levassero tutto intorno e fuori dall'edificio; lui e Damian si
gettarono un'occhiata stranita e, con gli occhi ingigantiti dalla
confusione, si precipitarono a guardare fuori dalla grande vetrata,
dove quelli che avevano tutta l'aria di essere due robot giganti
stavano distruggendo la parte est di Metropolis.
Jon si lasciò sfuggire
un’imprecazione
soffocata. Di tutte le sere in cui potevano succedere casini a
Metropolis… doveva essere proprio quella dopo un mese di
tranquillità? Sul serio? Che razza di tempismo! Per Rao,
qualcuno lo odiava davvero.
«Spero che tu abbia
“tu sai cosa”
sotto quel bel vestito», replicò Damian,
afferrandogli un
polso per trascinarlo fuori insieme al resto dei clienti e del
personale, che avevano cominciato a sparpagliarsi per allontanarsi il
più possibile da lì.
Non seppe nemmeno quando si ritrovarono
nel vicolo
dietro al ristorante, ma mentre si toglieva la giacca vide che Damian
si stava già sistemando i guanti e la cintura multiuso alla
vita. «Non capirò mai come fai ad essere
più veloce
di me», affermò nel levarsi anche camicia e
pantaloni per
restare in uniforme, e Damian gli regalò un sorrisetto
sardonico.
«Anni di pratica,
Sups»,
rimbeccò, sistemandosi la maschera. Da quando si era
liberato
del mantello e aveva apportato modifiche al suo costume, optando per
tonalità di grigio scuro e rosso, il nome di Robin non
sembrava
più calzargli così tanto a pennello e aveva
deciso di
riportare in auge il vecchio Redbird solo come alias, dato che della
vecchia uniforme non aveva salvato praticamente niente. «Ora
datti una mossa, quei robot non ci aspetteranno di certo», lo
riscosse,tirando fuori il rampino per spararlo verso l'alto e
arrampicarsi sul tetto, correndo verso quei robot con salti aggraziati.
Non lo aveva nemmeno aspettato, ma Jon
sapeva
già come andavano le dinamiche, così si diede un
piccolo
slancio con i piedi e spiccò il volo, tenendo il passo con
Redbird. I robot continuavano la loro distruzione ed erano praticamente
ad un isolato di distanza quando Superboy allungò una mano
nel
vuoto, prima ancora che alle sue orecchie echeggiasse un «Manovra n°4!»
e vedesse il rampino sparato verso l'alto; lo afferrò alla
svelta e non ebbe bisogno di guardare in basso per vedere il ghigno
sulle labbra dell'altro, lanciandolo letteralmente sulle spalle di uno
dei robot per vederlo atterrare su di esso in perfetto equilibro. Lui
si concentrò sul secondo, afferrandolo per un braccio
d'acciaio
per sollevarlo da terra giusto un secondo prima che schiacciasse
un'auto in cui c'erano ancora delle persone.
«Dobbiamo portarli lontano da
qui, J!»
la voce di Redbird era un’eco lontana sotto il rumore
assordante
di quella ferraglia, ma lo sentì distintamente e
sollevò
l’altro braccio a dimostrazione di aver capito, afferrando il
piede dell’altro robot; lo issò da terra nello
stesso
istante in cui l’altro conficcò un birdrang nella
sua
corteccia metallica, aggrappandosi ad esso mentre cercava di farsi
strada nei suoi circuiti.
Si allontanarono dalla città
con le urla
spaventate della gente che echeggiavano nelle sue orecchie, atterrando
nei pressi di un magazzino abbandonato in periferia. Avrebbe potuto
distruggerli con la vista calorifica o facendoli a pezzi, ma negli anni
avevano imparato a loro spese che quei maledetti robot potevano avere
violente reazioni ai poteri kryptoniani, in particolar modo se si
trovavano in città come Metropolis. Un attacco alle loro
sinapsi
robotiche era il modo più efficace per abbatterli, anche se
Superman poteva almeno menomarli se necessario.
«Il portellone alla tua
destra!»
esclamò Damian, e nel sollevare lo sguardo Jon lo vide
saltare
sulla spalla destra del robot per evitare che la grossa mano lo
schiacciasse seduta stante.
Senza perdere ulteriore tempo, si
lanciò in
volo in quella direzione e usò la sua vista calorifica per
mirare al portellone, prima di affondare le dita nell'acciaio come se
fosse burro; lo tirò via con un sordo rumore metallico e lo
lanciò lontano da sé, soffiando sui circuiti per
congelarli seduta stante. Il robot barcollò per un momento e
provò a colpirlo con un ultimo sforzo, ma Jon
afferrò il
braccio e lo gettò lontano, controllando il compagno con la
coda
dell'occhio. Non lo vide subito, ma ben presto una serie di piccole
esplosioni catturò la sua attenzione e capì che
Redbird
aveva appena fatto saltare il portellone del suo robot, e non ci
avrebbe messo molto a metterlo K.O. Con un ghignetto, si
riconcentrò sul proprio avversario, schivando i suoi colpi
mentre si spostavano sempre più.
Non seppero quanto tempo
passò ma, quando la
battaglia finì, poterono finalmente trarre un sospiro di
sollievo. Intorno a loro c'era solo la distruzione causata dall'attacco
simultaneo di quei robot e una delle braccia che Jon aveva strappato
era piombata sull'edificio, abbattendolo; nell'aria persisteva un
polverone che si era mescolato con la nebbiolina che si era innalzata,
e Jon tossicchiò, cercando il compagno con lo sguardo per
trovarlo non molto distante da lui. Seduto sulla spalla di uno dei
robot, si teneva il braccio destro con una mano, il volto contratto in
una piccola smorfia.
Jon si librò in volo verso di
lui, poggiando
la punta dei piedi su quell'ammasso di ferraglia. «Stai
bene?» chiese, vedendo Damian fare un breve cenno col
capo.
«Gh... niente che una bella
dormita non possa aggiustare».
«Raccontala ad un altro,
D»,
rimbeccò nello scrutarlo meglio e vedere il sangue scorrere
attraverso la fessura delle dita; si inginocchiò quindi al
suo
fianco qualche momento dopo per controllare il braccio con la sua vita
a raggi X e valutare i danni, ignorando i borbottii a cui l'altro diede
vita. «Okay, niente di terribile. Ci penso io»,
affermò, guadagnandoci un'occhiata piuttosto scettica.
«Credo di voler tornare a casa
con il braccio ancora attaccato al corpo».
«Non sei affatto spiritoso. Lo
sai,
vero?» replicò Jon, e Damian sollevò un
angolo
della bocca, gli occhi sorridenti al di sotto della maschera che
indossava. Poi, in silenzio, allontanò la mano dalla ferita
e
premette un pulsante sulla sua cintura, passando a Jon il kit di primo
soccorso che si portava sempre dietro.
Prendendolo, Jon si scusò e
ruppe quel che
restava dell'uniforme per poter avere il braccio completamente esposto,
sentendo la ferita pulsare come se avesse poggiato un orecchio sopra di
essa: era profonda, ma non molto, per quanto il sangue continuasse a
scorrere pigramente su quella pelle scura, rendendola quasi traslucida;
cominciò a tamponarla e vide Damian mordersi giusto un po'
il
labbro inferiore prima di liberarsi della maschera, passandosi il dorso
dell'altra mano sulla fronte per detergerla dal sudore.
Cercò di
fargli male il meno possibile, pur sapendo che l'altro avrebbe comunque
sopportato il dolore, disifettando la ferita con estrema attenzione
prima di cominciare a suturarla; era una fortuna che Redbird si
portasse sempre dietro quel kit - qualcuno l'avrebbe chiamato
paranoico, ma lui dopotutto era il figlio del più grande
paranoico del mondo -, poiché permetteva loro di
ammortizzare i
danni prima di lasciare al signor Pennyworth il resto del lavoro.
Jon fasciò il braccio solo
quando fu
soddisfatto dei suoi punti, sentendo ancora su di sé lo
sguardo
di Damian. L'aveva osservato in silenzio per tutto il tempo, e
ciò faceva capire come avessero ormai consolidato il loro
rapporto al punto di fidarsi completamente l'uno dell'altro.
«Ecco fatto» esordì infine, stringendo
un po' il
nodo.
Damian valutò la fasciatura
con occhio
critico - Jon sapeva che lo faceva solo per irritarlo, certe volte -,
alzandosi in piedi qualche momento dopo. «Lavoro abbastanza
adeguato».
«Grazie, J, come farei senza di
te? Oh, ma dai, D, avresti fatto lo stesso», lo
scimmiottò Jon con ironia, al che Damian roteò
gli occhi.
«D'accordo... grazie»,
lo accontentò, ignorando lo sbuffo ilare del compagno.
«Adesso vediamo di andarcene prima che arrivi la
po--»
Senza permettergli di terminare la
frase, Jon lo
baciò di slancio e Damian sgranò gli occhi,
poiché
non si erano mai spinti fino a quel punto quando erano in
“servizio”. E, soprattutto, non mentre se ne
stavano
praticamente in cima ad un robot abbattuto nella periferia sud di
Metropolis.
«D... vuoi
sposarmi?» sussurrò
contro le sue labbra, e il giovane eroe dovette allontanare un po' il
viso per osservare il compagno dritto in viso, abbassando lo sguardo
quando sentì il piccolo click della sua cintura e gli vide
in
mano una scatoletta di velluto che non lasciava spazio a
fraintendimenti.
Damian la guardò per attimi
che parvero
interminabili, poi sollevò nuovamente lo sguardo, fissando
l'altro. «Me lo stai davvero chiedendo su un campo di
battaglia?» domandò, e Jon si freddò.
Oh, mer...
«Ehm... ecco, io...
vedi...»
balbettò, perso nelle iridi verdi e ingigantite di Damian.
Aveva
sbagliato. Dopo il fiasco totale al ristorante, si era bruciato
un’altra occasione. Adesso l'avrebbe guardato stranito e...
contro ogni sua aspettativa, Damian rise. Una risata sincera e
liberatoria, di quelle che raramente si lasciava scappare, prima di
fare qualcosa che Jon non si sarebbe mai aspettato: gli
gettò le
braccia al collo, stritolandolo letteralmente in una morsa.
«Sì
che ti sposo, stupido idiota», rimbeccò ad un
soffio dalle
sue labbra, e Jon poté assaporare il sangue e il terriccio
che
le macchiava. Fece scivolare una mano lungo il suo fianco destro e lo
attirò a sé, godendosi quell’istante
come se lo
stesse vivendo per la prima volta. Fu un bacio lento e voglioso, un
brivido di adrenalina che serpeggiò lungo la spina dorsale
fino
a mandare una scarica al cervello, e quando si separarono Damian rise
ancora, lasciando Jon un po’ incredulo.
«P-Perché
ridi...?» gli venne spontaneo chiedere, le labbra rosse e
gonfie per il bacio.
Damian scosse la testa e si
asciugò gli
occhi, inumiditisi per l’aver riso troppo.
«Perché
per una volta sei stato più veloce di me, ragazzo di
campagna», sghignazzò con quel suo solito
cipiglio,
aprendo una delle tasche della sua cintura multiuso per tirar fuori a
sua volta una... piccola scatola di velluto nero. Una maledettissima
scatola di velluto nero.
Jon la osservò stordito,
spostando lo sguardo
sul compagno. «Tu...» boccheggiò, e una
mano
guantata si poggiò sulla sua bocca.
«Ottima deduzione,
Sherlock»,
rimbeccò Damian con quel sorriso sardonico dipinto sulle
labbra.
«Anche se ero piuttosto indeciso, visto che mi hai sempre
detto
di voler sposare i tuoi noodles scadenti», buttò
lì
sarcastico, provocando a Jon una sonora risata.
«Avevo dieci anni!»
«E quella roba ti piace
ancora».
Jon rise di nuovo, la sua risata
cristallina
riecheggiò nella notte in quello spiazzo abbandonato, prima
che
curvasse la schiena per poggiare la fronte contro quella di Damian.
«...sappi che anche il mio è un sì.
E non sto parlando dei noodles», sussurrò,
stringendo
nella sua la mano con cui il compagno sorreggeva la scatola di velluto.
Si sorrisero complici e si strinsero
l'uno
all'altro, con lo sguardo rivolto all'orizzonte che cominciava a
tingersi dei primi colori dell'alba.
_Note inconcludenti dell'autrice
Decimo
giorno del #writeptember
sul
gruppo facebook Hurt/comfort
Italia.
I prompt si adattavano bene a questa storia, così l'ho
terminata
visto che era rimasta ferma in cantiere da un bel pezzo.
Però
l'ho allungata un po' troppo, ne sono consapevole, e la cosa... beh, mi
è sfuggita piuttosto di mano, lo ammetto. Ci sono ben due
scene
ispirate a dei film come richiesto da uno dei prompt: quella con i
robot (Pacific Rim) e quella del bacio (Top Gun)
Jonno ovviamente prova in tutti i modi di fare una proposta decente a
Damian, ma alla fine quella che conta di più è
quella
fatta col cuore nel momento più strano ahah
Commenti
e critiche, ovviamente, son sempre accetti
A presto! ♥
Messaggio
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alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
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