I tramonti sono albe in potenza – riflessi

di blackjessamine
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La nostalgia ha strane forme – arriva a mezzogiorno, la scaccia il tramonto
 
 
 
 
Mi muovo in corridoi sconosciuti, mi perdo a ogni svolta della strada e non me ne importa niente. Perdersi è solo un’occasione come un’altra di imparare nuove prospettive, di scombinare le carte e di scoppiare a ridere, ché tanto i miei obiettivi non sono mai stati cerchi fatti con l’evidenziatore sulla mappa di una scuola[1].
 
Rido quando per una settimana di fila mi presento alla lezione del mattino con un toast nascosto fra i libri di testo, perché trovare la strada per il refettorio non mi riesce proprio – Landmann, togli le briciole da quei compiti, prima di consegnarmeli. Sorridono anche i professori, me ne accorgo anche quando cercano di nasconderlo dietro un rimprovero che proprio non riesce loro.
Rido quando parlo e parlo e parlo e il ragazzo che non parla mai si perde assieme a me – mi hai fatto distrarre, accidenti, dovevamo salire le scale e invece siamo scesi. Perdermi assieme a lui è ancora più divertente che perdermi da solo.
Rido quando usciamo in giardino e il cielo è limpido come una giornata estiva, e chissenefrega del freddo che ci paralizza i polmoni. Mi piace la luce che c’è nel parco attorno alla scuola: è una luce perfetta per dipingere, e a me piace restare fermo con il sole negli occhi a immaginare quello che mia madre disegnerebbe, se fosse qui.
 
La nostalgia ha strane forme.
Penso spesso ai miei genitori – è inevitabile, suppongo, perché è la prima volta che mi allontano così tanto da loro – ma non mi mancano quasi mai. Penso a loro e ho voglia di raccontare dei libri che leggo e di come la pioggia qui trasformi il parco in un fiume di fango, e doverlo raccontare a una cornetta del telefono una volta alla settimana non fa male.
 
La nostalgia qualche volta arriva all’ora di pranzo, quando le ombre si fanno sottilissime e io mi sento felice, ma non abbastanza. Quando la luce è così bella che vorrei trasformarla in una coperta e nascodermici dentro, e vorrei tenermela stretta nei pugni e non lasciarla mai andare. Vorrei accompagnarla fino all’ultimo istante possibile, e allora avere una stanza dove il sole scompare troppo presto mi sembra insopportabile, perché è come se con quella manciata di minuti di luce mi strappassero un pezzetto di casa.
 
La stanza di Ole è nell’altra ala della scuola.
La stanza di Ole è un bel posto dove rubare qualche minuto di luce e poi scacciare la nostalgia con chiacchiere sempre più fitte che il tramonto sembrano farlo durare fino a notte fonda.
Non c’è spazio per il buio in quella stanza, nemmeno quando è notte fonda e ormai è troppo tardi per attraversare troppi corridoi, e allora se russo tirami una gomitata, Ole, non mi offendo mica.
 
 
 
 
 
 
 
 
Casa è un sapore che non conosco – lo assaggio la notte – silenzio
 
 
 
 
Ole serra gli occhi, si tira la coperta fin sopra la testa e mastica con rassegnazione un’imprecazione.
La stanza è ancora avvolta nella penombra grigia che precede l’alba, ma è una penombra provvisoria, e la precarietà di quel tepore di inizio inverno gli pungola gli occhi come una minaccia beffarda.
Ole vorrebbe silenzio, vorrebbe il buio della notte in cui è solo e la sua stanza è un bozzolo[2] scuro che lo tiene al riparo dal fragore di quelle giornate piene di troppe persone e troppi sguardi e troppi respiri che non sanno trovare il proprio posto.
 
Ole cammina a testa bassa per i corridoi di una scuola che non conosce il suono dei suoi passi, nonostante gli anni trascorsi ai margini di ogni lezione, di ogni capannello di compagni, di ogni risata e di ogni burrasca adolescenziale.
La luce del sole è un monito costante di quanto Ole sotto quella luce non ci sappia stare, è una minaccia ai brandelli di serenità che si è costruito in una scuola che non ha mai avuto il sapore di casa – ma nemmeno casa ha mai avuto il sapore di casa – e lui vorrebbe solamente fuggire. Quattro pareti di una stanza costituiscono un ottimo punto di fuga, soprattutto quando il sole è uno specchio di fuoco pronto ad infrangersi sul davanzale della finestra.
 
Ole ha sempre detestato l’ostinazione con cui il tramonto si insinua nella sua stanza, quasi ogni giorno volesse essere un tormento esasperato sino all’inverosimile. Quasi fosse l’ennesima beffa di un destino dal bizzarro senso dell’umorismo: lui vorrebbe solamente sentire la giornata scivolargli via dalle dita, e invece c’è sempre una nuova scheggia di luce a ferirgli lo sguardo.
 
Ole vacilla, perché ogni giorno gli è sempre più difficile detestare quella luce che poi è tutto quello che lo tiene unito al ragazzo che parla troppo.
Ole vacilla, perché qualche volta Homer il tramonto non lo guarda nemmeno, impegnato com’è a disegnare con la voce sogni bellissimi.
Ole vacilla, e si sente tremare, perché il tramonto è sempre troppo breve, e la notte è una coperta grande abbastanza per starci sotto in due.
 
 
 
 
 
 
I tramonti sono albe in potenza




 
 
Ti sembra bello, quel mondo che attraverso le palpebre socchiuse ti si presenta alla vista come un fitto intreccio di lame di luce.
Lame di luce a giocare con l’ombra, ciglia e palpebre a fare da scudo e da ponte – hai perso i confini.
Hai mani e dita che sembrano fatte solo per coprire tutte le distanze del mondo – “E se poi a mille milioni di miglia[3] da qui i tramonti ti piacciono di più?” – silenzio come fiato trattenuto, sei solo spalle che scuotono via le preoccupazioni – “I tramonti mi piacciono solo se hanno la tua finestra attorno, credevo lo avessi capito”.
 
Ti sembra bello il tepore di un tramonto che da tempo ha ceduto il passo alla notte, sorprendendoti intento a contare respiri e a respirare risate e a ridere dei pensieri che si sollevano come polvere a ogni battito di cuore.
Hai un cuore che batte nel petto di chi ti è disteso accanto, e se lui batte tu tremi, e se tremi lui ha nei polsi il tuo stesso tremore. Sei specchio e riflesso, i confini li hai persi in una notte fatta di dita intrecciate e gelato sciolto a disegnare sentieri precoci – "Mi piace leccarti via l'estate" – silenzio come baci soffocati – "Mi piace aspettare l'autunno con te" – tremori.
 
Casa è il posto dove le tue gambe si intrecciano alle sue quando tu hai quindici anni e poi trenta e poi tutti quelli che ti restano.
Casa è la quiete dell'alba che ti trova con il respiro sereno di chi sa che tutte le miglia del mondo sono solo polvere.
 
Perché poi, se ci pensi, sei luce.
Sei luce quando dici di preferire il tramonto anche se ogni angolo del tuo sorriso urla il tepore dell'alba.
Sei luce quando la notte trovi il senso del tuo respiro in una mappa fatta di silenzi e lettere spezzate.
Sei luce, e lo sei perché con le tue ombre hai costruito finestre[4] da cui osservare il tragitto del sole.
 
Casa per te è l’aver riempito ogni distanza.
 
Insieme, siete.
 
 
 
 
 
 

Note:
Temo di avere diverse cose da dire, qui.
Innanzitutto, quindi, comincio dando i crediti necessari: innanzitutto, il prompt di Sia che ho estratto nell’iniziativa “Tre tiri di dado”: “La finestra della camera da letto di persona A è rivolta a ovest e ogni sera persona B corre nella stanza di persona A per guardare il sole che tramonta”. Questo prompt gridava Homer da ogni singola lettera, e l’universo ha fatto sì che Homer fosse il prescelto dal tiro di dado, yay!
Poi c’è la sfida “Questione di voci e stile” di Rosmary: la sfida consisteva nello scrivere tre flash, dedicando la prima “alla voce” di un personaggio, la seconda a quella di un secondo personaggio, e la terza alla loro “voce” come coppia. Inoltre era necessario utilizzare una persona narrante diversa per ogni storia, e Maqry mi ha ulteriormente sfidata ad utilizzare per la flash di coppia la seconda persona singolare narrante.
Ecco, a questo proposito, non sono molto sicura del risultato complessivo, ma ho provato a fare un piccolo esperimento, provando a recuperare anche tutti gli stilemi che nel tempo ho cercato di utilizzare scrivendo su di loro (se le prime due flash ricalcano le atmosfere delle mie storie in prosa, con la terza ho cercato di riprendere ritmi e scelte stilistiche della raccolta di poesie).
Insomma, non lo so, temo che il risultato sia molto confuso, ma per me è stato molto stimolante provare a sperimentare al di là del mio consueto approccio a una storia.
 

[1] Qual è esattamente il contesto di questa storia? Non ne ho idea. Un contesto babbano, e quindi originale, perché mi è sembrato giusto così. Un contesto in cui a prescindere da tutto Homer è sempre lo studente nuovo e poco avvezzo al mondo scolastico, ma onestamente i dettagli sono molto fumosi, e credo vada bene così: il punto del racconto non è definire un contesto preciso, ma “solo” provare a dare forma e spazio alle voci dei personaggi, che tanto in qualsiasi contesto si ritrovano legati dallo stesso tipo di equilibri.
[2] Smetterò mai di insistere su questo bozzolo? Probabilmente no.
[3] Ho ripreso un dialogo presente nel quarto capitolo di "Surya Namaskara", perché Ole ha voluto ribadire ancora una volta quanto abbia odiato ogni singolo miglio che l'ha separato da Homer.
[4] Da qualche parte, Richard Yates e il suo racconto “Costruttori” ci ha messo lo zampino.




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