Put your lips on me_4
Titolo:
Put your lips on me (and I can live underwater)
Autore: My Pride
Fandom: Super Sons, Batman
Tipologia: Long
Fiction
Capitolo quattro: 3192
parole fiumidiparole
Personaggi: Damian Wayne,
Jonathan Samuel Kent, Bruce Wayne, Lois Lane, Clark Kent, Tim Drake,
Dick Grayson, Jason Todd, Talia Al Ghul, Zatanna Zatara, Giovanni
Zatara, Vari ed eventuali
Rating:
Giallo
Genere: Generale,
Slice of life, Fluff, Smut, Light Angst
Avvertimenti: Mermaid!AU,
Accenni slash, Hurt/Comfort
SUPER
SONS © 2016Peter J. Tomasi/DC. All Rights Reserved.
Puntellandosi
sui talloni, Clark affondò la mano nella sabbia, sollevando
il
capo per fissare il mare in tempesta davanti a sé, le cui
onde
che si infrangevano sugli scogli e spumeggiavano rabbiose.
Pioveva a dirotto e aveva i capelli completamente appiccicati al viso,
ma non sembrava importargli.
Da quando aveva trovato Jon su quella
spiaggia in
compagnia di quel ragazzo, Damian, non aveva fatto altro che chiedersi
cosa avesse spinto suo figlio a giungere fin laggiù. Era
notoriamente una zona che veniva evitata da chiunque in
città, a
causa della maledizione che sembrava portarsi dietro. Non che lui ci
credesse, ovviamente, o non si sarebbe mai trovato lì.
Però, da quando nel corso degli anni più di una
persona
era tornata a casa completamente ricoperta di ustioni, nessuno aveva
più provato ad avvicinarsi e quella diceria aveva preso
forma
nella bocca di tutti. Allora perché Jon era andato
laggiù, per di più senza alcuna rete di
sicurezza, e si
era calato in quell’insenatura?
Clark aggrottò la fronte,
afferrando un pugno di sabbia umida
prima di passarsi le dita dell’altra mano fra i capelli
fradici
per ravvivarli all’indietro. Tra tutti i posti, mai avrebbe
pensato di ritornare lì proprio a causa di suo figlio. I
ricordi
del passato gli attanagliavano le viscere, e avrebbe preferito
chiuderli in un forziere e gettarli in quell’oceano che
sembrava
farsi beffe di lui.
«Clark?»
A quella voce, alla quale fece eco il
rombo di un
tuono, Clark sgranò gli occhi. Aveva quasi paura di
essersela
immaginata, di aver sognato ad occhi aperti a causa delle sensazioni
che quella stupida spiaggia stava facendo riaffiorare dentro di lui, e
fu quindi deglutendo che si voltò con attenzione,
preparandosi
mentalmente al fatto che dietro di lui non ci sarebbe stato nessuno. Ma
si sbagliava. In piedi a pochi passi da lui, con la camicia bagnata
completamente aderente al petto e i capelli appiccicati alla fronte,
c’era l’ultimo uomo che avrebbe mai creduto di
poter
incontrare.
«Bruce?»
chiamò incerto, ma il
modo in cui lui irrigidì le spalle non lasciò
spazio a
fraintendimenti. «Oh, Dio, Bruce…
credevo…»
«…che mi fossi
trasformato in schiuma
di mare?» Il tono con cui pronunciò quelle parole
suonò più freddo dell’aria che li
avvolgeva,
persino il suo viso, finora disteso, divenne marmoreo. «Non
funziona come nelle favole, Clark».
Con mille emozioni che lottavano sul suo
volto,
Clark si alzò e fece un passo verso di lui, fermandosi
quando
sentì la sabbia tremare e sollevarsi davanti a lui, creando
degli spuntoni; guardò di nuovo l’uomo, la cui
mascella
serrata malcelava la rabbia che sembrava portarsi dentro.
«Sei
sparito davanti ai miei occhi».
«Me ne sono andato»,
corresse Bruce in tono incolore. Non lo guardò oltre mentre
si
incamminava verso l’oceano, strappandosi letteralmente la
camicia
di dosso sotto lo sguardo stranito di Clark; i bottoni volarono ovunque
mentre lui slacciava anche i pantaloni, senza dar peso alla cosa.
«Avevi reso fin troppo chiare le cose».
«Non è
così, Bruce. Quel giorno non hai voluto ascoltarmi,
io--»
«Zitto», lo
frenò, non avendo
intenzione di sentirlo continuare a parlare oltre. «Non
dovresti
essere qui, piuttosto». Lanciò sulla sabbia anche
i
pantaloni, rivelando di non indossare l’intimo e di non
curarsi
del fatto di essere completamente nudo mentre una tempesta infuriava
intorno a lui. «Nessuno di voi dovrebbe venire fin
qui».
Clark aprì la bocca per
replicare, zittendosi
per un momento. Si era perso ad osservare il corpo di Bruce, quella
bellezza marmorea che mostrava senza alcuna forma di vergogna mentre
parlavano; poi, come se gli avesse letto nel pensiero, Bruce si
voltò per fulminarlo con lo sguardo, arrampicandosi sugli
scogli
scivolosi per lanciarsi direttamente in acqua e sparire fra la schiuma
e le onde rumorose. Risalì solo una manciata di secondi
dopo,
schioccando le dita della mano destra per far sì che
l’acqua ribollisse intorno a lui, e la lunga coda emerse dal
pelo
dell’acqua per sferzare le gocce di pioggia che continuavano
a
cadere.
«Perché sei
tornato, se pensavi che fossi morto?»
La domanda creò un incerto
stato di imbarazzo
al quale nessuno dei due seppe porre fine. Sotto la pioggia battente,
con i lampi che squarciavano il cielo e lo illuminavano a giorno, si
limitavano ognuno a fissare il volto dell’altro come se lo
vedessero per la prima volta. Clark non aveva nemmeno bisogno di
avvicinarsi per sapere che gli occhi di Bruce erano di un azzurro
ghiaccio così chiaro che sarebbero potuti sembrare bianchi,
o
che le creste sulle sue braccia, a dispetto di quanto sembrassero
appuntite, erano morbide e vellutate al tatto, dalle svariate sfumature
violacee come la coda di un pesce combattente. Per quanto fossero
passati anni e fosse ormai andato avanti, in quel momento si sentiva
nuovamente il diciottenne che era stato un tempo. Lo stesso diciottenne
che, uscendo in barca con suo padre, aveva visto il furbo sorriso che
quel tritone gli aveva rivolto al di sotto del pelo
dell’acqua,
facendolo sobbalzare. Erano stati altri tempi, tempi decisamente
più semplici e meno logorati da quello strano odio.
«Volevo capire cosa avesse
spinto mio figlio a
venire fin qui», affermò infine, e non gli
sfuggì
il modo in cui la punta della coda di Bruce si contorse, quasi si fosse
irrigidito.
«Tuo figlio?»
«Jonathan».
Clark non se ne rese conto, ma il mondo
di Bruce in
quel momento si sgretolò. La sua giovinezza corse davanti ai
suoi occhi con la stessa rapidità con cui i fulmini sopra di
loro sfrecciavano nel cielo e fra le nuvole, e per un attimo persino la
pioggia smise di cadere, fermata in un momento di stasi; confuso, Clark
sbatté le palpebre senza capire, lo sguardo puntato sul
volto
incredulo di quel tritone.
«Bruce?» lo richiamò, preoccupato
nonostante tutto.
Qualunque cosa fosse successa tra loro… quel cambiamento
così repentino l’aveva lasciato interdetto.
«Vattene».
«Bruce,
cosa…»
Bruce non gli diede il tempo di
continuare,
sferzando l’aria col braccio destro per lanciare contro di
lui
una raffica di spine, vedendolo sussultare. «Non tornare mai
più qui», sentenziò con un ringhio
guttare dal
fondo della gola, tuffandosi in acqua prima ancora che Clark potesse
rendersi conto di cosa fosse appena successo.
Con un’imprecazione, Bruce
nuotò il
più rapidamente possibile verso il fondo, con la testa colma
di
mille pensieri. Prima di intraprendere quel viaggio nel mondo, aveva
provato una sola volta ad avvicinarsi agli umani senza confondersi fra
loro. Una sola. E
tutto ciò che aveva guadagnato era stato il rischiare di
essere catturato e venduto come un fenomeno da baraccone.
Clark gli era sembrato…
diverso, un giovane
pescatore che non aveva mai cercato di fargli del male, almeno fino al
giorno in cui l’aveva visto su quella stessa spiaggia in
compagnia di pescatori armati di reti e fiocine. Bruce, che era appena
emerso dal pelo dell’acqua, aveva sgranato gli occhi e aveva
provato a scappare, ma quegli uomini gli avevano gettato contro le reti
non appena l’avevano notato; aveva gridato e al suo grido
avevano
fatto eco anche le urla di Clark, mentre veniva trascinato a riva e
tenuto fermo con una fiocina dietro la schiena. Dibattendosi
letteralmente come un pesce fuor d’acqua, aveva visto gli
occhi
sbarrati di Clark, il modo in cui aveva strattonato alcuni degli uomini
lì presenti, e lui aveva sentito il cuore battere
all’impazzata quando si era reso conto che volevano farlo
uscire
dall’acqua.
Ricordava le urla di giubilo alla sua
cattura, le
risate quando le fiocine affondavano nella sua coda, il modo in cui uno
di loro aveva strappato a mani nude la sua pinna dorsale e
l’aveva fatto urlare di dolore, tutto sotto lo sguardo di
Clark
che cercava di farsi lasciare per corrergli incontro e aiutarlo. Ma era
stato proprio a quel punto che le cose erano degenerata. Terrorizzato,
con gli occhi brucianti di lacrime, il dolore che si irradiava nel suo
corpo e il sangue che si diluiva nell’acqua
salata… aveva
sprigionato il suo potere. Le fiocine erano esplose con uno scoppio in
mille schegge di legno e acciaio, le grida di gioia si erano
trasformate in urla spaventate; uno degli uomini era caduto in acqua e
aveva annaspato per raggiungere la riva, ma Bruce ricordava di essersi
alzato letteralmente
in piedi
e di aver stretto la mano lungo il fianco solo per un attimo prima che
il pescatore cominciasse a soffocare dinanzi a lui dopo aver vomitato
acqua ed alghe. Lo avevano seguito poco dopo tutti coloro che lo
avevano attaccato, persino quelli che tenevano stretti Clark.
Col viso in fiamme, il respiro affannato
e il cuore
che batteva all’impazzata per ciò che aveva
fatto…
Bruce aveva guardato Clark, a pochi passi da lui. Quando aveva
incontrato il suo sguardo, aveva visto quegli occhi azzurri ingigantiti
dalla paura e aveva perso un battito; aveva provato a fare un passo
verso di lui, ad aprire la bocca per dirgli che non era stata sua
intenzione, ma quando lo aveva visto ritrarsi, qualcosa dentro Bruce si
era spezzato.
Dritto sui suoi piedi, le gambe
tremolanti e il
corpo nudo e ferito, Bruce aveva chiuso gli occhi solo per un attimo e
se n’era andato. Le lacrime a cui aveva dato vita si erano
confuse con la vastità dell’oceano e le aveva
nascoste
persino a sé stesso, reprimendo dentro di sé il
dolore e
la rabbia. Come il giovane e stupido tritone che era, si era tenuto
tutto dentro e aveva raccontato ad Alfred, il suo tutore, che aveva
avuto uno spiacevole incontro con dei pesci spada… ma, se
Alfred
aveva capito qualcosa, non lo aveva mai detto. Si era solo limitato a
farlo sedere sull’enorme conchiglia dell’infermeria
e aveva
cominciato ad applicargli la pastura di alghe e plancton sulle ferite,
ed era stato proprio a quel punto che Bruce aveva preso la decisione di
partire.
Sapere quindi che suo figlio Damian
aveva cominciato
a frequentare inconsciamente proprio il figlio di Clark…
aveva
riaperto in Bruce quella vecchia ferita che credeva ormai rimarginata
da anni. E a quel pensiero imprecò, nuotando più
velocemente mentre le correnti si impossessavano delle sue membra e
della sua coda, raffreddandogli il viso o scaldandolo a seconda di
quale corrente lo carezzasse. Avrebbe portato via Damian quel giorno
stesso, se solo avesse potuto. A causa della sua natura ibrida,
purtroppo, le cose diventavano ben più complicate e la sua
coda
non sarebbe potuta tornare con un semplice schiocco di dita. Non
sarebbe nemmeno dovuta comparire, a voler essere sincero con se stesso.
A quel pensiero imprecò e un
grido animalesco
gli sfuggì dalle labbra mentre aumentava la
velocità di
nuoto, superando pesci e grossi squali ai quali ringhiò
contro,
ricordando loro qual era il loro posto; si inoltrò nelle
profondità marine che solo i pesci lanterna osavano varcare,
ma
la sua furia era tale da richiedere la sua presenza in luoghi che non
avrebbe mai visitato se non fosse stato necessario. Così,
con le
mani chiuse a pugno e la lunga coda che sembrava emettere
elettricità, batté furente le pinne contro la
roccia che
si ritrovò ben presto davanti, gli occhi letteralmente
fiammeggianti d’ira.
«Zatara!»
gridò con voce
gutturale, facendo tremare le pareti di pietra di quella caverna; un
branco di pesci nuotò fuori e gli sfrecciò ai
lati della
faccia, ma non se ne curò, agitando furente la lunga coda
squamosa per sferzare l’acqua. «Dove diavolo sei,
Zatara!» urlò ancora, con la rabbia che montava
dentro di
lui come un mare in tempesta. E fu quando l’acqua nella
grotta
cominciò a ribollire che Bruce vide finalmente il guizzare
di
una piccola coda dorata, poi il volto di Zatanna, la figlia dello
stregone Zatara, fece capolino oltre uno dei cunicoli.
«Bru-- mio re?» si
corresse accigliata,
sbattendo più volte le palpebre mentre nuotava verso di lui.
I
lunghi capelli neri le fluttuavano intorno al viso, incorniciandolo, e
la piccola lanterna che aveva sul capo rendeva i suoi occhi ancora
più bianchi e luminosi. «Cosa ci fai qui? Mio
padre… al momento non c’è».
«Dov’è
andato?»
domandò nervoso, e Zatanna poté benissimo sentire
l’acqua scaldarsi come non mai. Erano anni che non lo
vedeva così arrabbiato.
«Cos’è
successo?»
«Non ho tempo da perdere, Zee.
Si tratta di Damian».
Stavolta la donna si fece attenta e
parve persino
spaventata, fissandolo in viso con estrema attenzione. «Sta
bene?» chiese, scrutando la sua espressione.
Lei e suo padre, oltre alla grande
famiglia di
Bruce, erano gli unici a conoscere la vera natura del potere di Damian.
Erano stati loro stessi a porre un sigillo su di lui quando era solo
poco meno di un avanotto, così da bloccare i poteri che
avrebbe
potuto sviluppare a causa della sua natura ibrida; per quanto riuscisse
a manipolare l’acqua intorno a sé, quando era
appena nato
aveva dato un tale sfoggio di potenziale che Bruce stesso era stato
costretto a contenerlo per evitare che potesse fare del male a
sé stesso e a qualcun altro. Ed era anche uno dei motivi per
cui
lo aveva strappato dalle grinfie di sua madre, la quale aveva visto
un’opportunità non indifferente per sfruttarlo per
i suoi
scopi.
«Il contatto con la terra
ferma gli ha fatto
spuntare le gambe, Zee. Esattamente come sarebbe accaduto a chiunque
altro della nostra razza». La sentenza di Bruce la
freddò
seduta stante. «Tu e tuo padre mi avevate assicurato che non
sarebbe successo».
Zatanna sbatté le palpebre. «Io… non mi
spiego come sia possibile», ammise sconcertata.
«Farete meglio a capire in
fretta cosa
è andato storto, perché mio figlio è
in superficie
e non è al sicuro».
«Menti sapendo di
mentirci». La voce
improvvisa di Zatara rimbombò fra tutte le pareti di roccia,
come se il potente mago fosse ovunque e da nessuna parte in
particolare, e ci volle un momento di troppo per vederlo comparire
davanti a loro in una nube di denso fumo liquido, lo sguardo nascosto
dal pesante elmo della conoscenza che spesso indossava. «Ho
scrutato gli anfratti e letto le perle, conosco bene il luogo in cui
riposa tuo figlio».
Zatanna rimase interdetta, facendo
scorrere lo
sguardo su entrambi gli uomini prima di soffermarsi su suo padre.
«Che significa, papà?» le venne
spontaneo chiedere,
ma Zatara indugiò, gli occhi al di sotto dell’elmo
fissi
sulla figura di Bruce, il loro re.
«Il nostro principe
è nelle mani fidate del nipote di Jonathan Kent».
«Quel Jonathan
Kent?» replicò immediatamente Zatanna, sgranando i
grandi
occhi bianchi. La lampada sulla sua testa divenne più
luminosa,
quasi a voler riflettere la sua incredulità mentre
l’acqua
tornava a ribollire intorno a loro.
«Ragione in più per
riportarlo sott'acqua,
Zatara». La voce di Bruce suonava tesa e nervosa, la sua coda
non
aveva smesso di muoversi avanti e indietro e a colpire
l’acqua.
«La tua magia aveva una falla. Esigo che tu faccia tornare
Damian
esattamente come prima».
«Non mi è
possibile»,
sentenziò l’anziano mago, ignorando le occhiate
incredule
che gli vennero rivolte da entrambi.
«Cosa diavolo
significa che non ti è possibile?»
berciò Bruce nel
far esplodere una roccia alla sua destra con l’energia
scaturita
dal suo corpo, ma il mago non ne parve impressionato.
«Significa, mio re»,
cominciò, enfatizzando soprattutto sull’ultima
parola,
«che qualcosa ha interferito con la mia magia e ha permesso
al
principe di spezzare il sigillo che non consentiva alla sua coda di
scindersi. Qualunque cosa fosse, è risultata più
potente
persino della mia stessa magia».
Il silenzio che susseguì fu
più
terrificante della furia stessa del re. Nessuno dei tre
proferì
ulteriormente parola, osservandosi con attenzione come se il solo
pensiero che la magia di Zatara, il mago più potente del
fondale
marino da quando era entrato in possesso dell’elmo del Dottor
Fate, fosse stata infranta fosse oltremodo inverosimile. E, qualunque
cosa stesse pensando Bruce in quel momento, non era sicuramente
qualcosa di piacevole.
«…cosa possiamo
fare?» chiese
infine Bruce, con la voce ridotta ad un lieve sussurro. La sua rabbia
era ancora presente, ma sembrava essersi in parte sgonfiata al pensiero
che persino uno stregone come Zatara non aveva idea di cosa fosse
accaduto.
Nuotando verso di lui con la lunga coda
nera, Zatara
osò sfiorargli la fronte con la punta delle dita, premendo
l’indice contro il centro di essa. «Controllarlo e
assicurarci che stia bene, mio re», replicò
Zatara.
«Riponga fiducia nei Kent come l’aveva riposta in
loro
vostro padre».
«I Kent mi hanno
già tradito una volta, Zatara».
«Apra il suo cuore e
capirà che le cose
non sono sempre come sembrano, sire», affermò nel
nuotare
all’indietro qualche momento dopo, il tutto sotto lo sguardo
stranito della figlia che non aveva proferito parola. «Ora
vada.
Non cerchi qui risposte che non ci sono, il tempo stringe. Protegga il
ragazzo».
La sua voce divenne un’eco
lontana, uno strano
strato di polvere e sabbia si innalzò fra loro e, mulinando
nell'acqua, avvolse completamente Bruce, il quale cercò di
muovere le braccia per scacciare quei granelli che gli si infilavano in
bocca e nel naso, facendolo tossire mentre cercava di urlare il nome di
Zatara; quando tutto finì, Bruce si rese conto di trovarsi
nel
grande salone del palazzo, riverso sul pavimento ricoperto di
conchiglie levigate e con delle voci che gli riempivano le orecchie.
Gli ci volle un po’ per mettere a fuoco le figure che
torreggiavano su di lui, e una di esse trasse un lungo sospiro nel
vederlo sveglio.
«Accidenti, vecchio, ci hai
fatto prendere un
colpo», grugnì quella che registrò come
la voce di
Jason. «Si può sapere che diavolo ti è
preso?»
«Co…
cosa?» riuscì a dire
nel deglutire rumorosamente, sentendo la gola secca e ferita. Era come
se quei granelli di sabbia gli avessero perforato la trachea.
«Ti abbiamo trovato qui
disteso mentre
urlavi», spiegò la voce di Tim, e Bruce lo
sentì
aiutarlo a tirarsi su e a nuotare verso il trono con attenzione.
«La tua coda era così arricciata che Alfred
è stato
costretto a mantenerla».
Bruce si prese un momento, accasciandosi
sul trono e
accettando di buon grado la coppa che gli venne porta da Dick prima di
cominciare a bere avidamente, senza azzardarsi a proferire una sola
parola finché non ebbe finito tutto fino
all’ultima
goccia. «Ho parlato con Zatara». Un brusio
sconnesso si
agitò intorno a lui come un’onda, ma
sollevò subito
la mano per fermare ogni replica che i figli avrebbero potuto fare.
«Non può aiutarci con Damian».
Dick digrignò i denti, le
pinne sul suo dorso
fremettero come se avessero una vita a sé stante.
«Allora
cosa possiamo fare?» chiese, sentendo su di sé lo
sguardo
degli altri fratelli. Erano tutti preoccupati, ma come si faceva a dar
loro torto? Il minore di loro era praticamente bloccato in superficie.
«Non lo so», ammise
Bruce nello
stringere una mano sul bracciolo del trono. «Ma, qualunque
cosa
sia, è magia che nemmeno il più grande mago tra
noi
può infrangere», sentenziò.
E proprio in quel momento, in
superficie, gli occhi di Damian si spalancarono.
_Note inconcludenti dell'autrice
Ed
ecco che qualche nodo sta cominciando a venire al pettine, ma tanti
altri se ne stanno creando e stanno lasciando qualche dubbio che
sembrava essersi dissipato... oltre al apssato di Bruce, che non
è stato esattamente facile (aveva un'nfatuazione per Clark e
quello che è successo ha irrigidito in parte il suo cuore),
che
cosa sanno tutti che Damian non sa? E
che cosa succederà la prossima volta?
Stanno cercando di tenerlo all'oscuro per proteggerlo da sua madre,
certo... ma non tutte le cose stanno andando come avevano sperato,
quindi come avrà fatto Damian a sciogliere in parte
l'incantesimo di Zatara?
Anche questa è una domanda alla quale non si avrà
presto
risposta, ma spero che la storia fino a questo momento vi abbia
interessati e che vi abbia fatto venir voglia di continuare a leggere
Commenti
e critiche, ovviamente, son sempre accetti
A presto! ♥
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scrittori.
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