15.
Guscio di noce
Quando
uscii fuori dal parcheggio, lo vidi, ma non mi turbò più di tanto. Proprio come
aveva detto Ash, Ryan sputò fuori due piccole palline, che consegnò a due
ragazzi di fronte a lui. In cambio, ricevette dei soldi.
Quando
si voltò e mi vide, nemmeno lui rimase sorpreso. Si infilò i soldi in tasca e
venne verso di me.
Era
molto diverso dal ragazzo che ricordavo. Il suo viso era scavato, come quello
di Harvey, e gli zigomi risaltavano in maniera innaturale. Aveva occhi grossi e
sporgenti, la pelle stanca, che gli buttava sulle spalle almeno dieci anni di
più. E il naso così arrossato e screpolato. Non c’era più molto del ragazzo che
conoscevo.
Nel
momento in cui lo vidi, capii che quello era un addio. Lui non sarebbe più
tornato in sé, così come io non sarei più tornato a essere il suo compagno di
studi.
«Sapevo
che prima o poi ti avrei trovato qui, Nathan.»
Mi
ero preparato un sacco di frasi, di risposte e anche di ramanzine, ma in quel
momento ero pietrificato. Davanti a me c’era uno sconosciuto e io non sapevo
come iniziare una conversazione con lui. Non ci sarebbero più stati pomeriggi
dietro alla chimica, né chiacchierate sul concerto della settimana prima.
Queste cose, senz’altro, non lo interessavano più. Per un attimo mi sentii il
bambino che ero la prima volta che avevo fumato.
«Che
ti è successo, Ryan?»
Potevano
essere anche le nostre ultime parole, la nostra ultima conversazione. Dovevo
essere pronto a dare un altro addio. L’ennesimo.
«Non
sono affari che ti riguardano, te l’ho già detto.»
Non
sarebbe stato l’unico addio. C’erano delle cose che non sapevo con assoluta
certezza, ma le avevo capite. Avevo sperato fino all’ultimo che non fossero
vere, ma lo erano.
«È
stato Harvey, vero?»
Un’altra
persona che usciva dalla mia vita. Un’altra persona che avevo voluto credere
diversa. L’ennesima delusione, l’ennesima comparsa della commedia che era la
mia esistenza. Ero da solo, sul palco. C’era solo il pubblico pronto ad
applaudirmi e ad andare via una volta finito lo spettacolo; e chi decideva di
restare e unirsi alla compagnia, lo faceva solo per il tempo di un atto, per
poi volarsene subito dopo. Non c’erano repliche con lo stesso gruppo, mai.
«Nathan,
non è né il tempo né il momento.»
Ryan
si guardava intorno, ma a me non importava di non essere sentito. Non mi
importava niente. Volevo solo capire dove avevo sbagliato, anche quella volta.
«Io
lo so, Ryan. Lo so.»
Lui
che diventa strano dopo l’estate, Harvey che ricompare e tira su strisce di
coca come se non ci fosse un domani, per poi scoprire che i due si sono
conosciuti durante le vacanze. Non era stato difficile fare due più due. No, la
parte più difficile non era proprio stata quella.
Lui
mi guardava, ma non rispondeva. Avevo ragione e lo sapevo.
«Dimmi
solo una cosa: perché ti sei infilato in questa merda?»
Il
viso di Ryan si rabbuiò. Le ombre sul suo viso divennero più scure e incavate.
«Non
hai il diritto di saperlo, Nathan. Proprio non ne hai il diritto.»
«Che
significa?»
Fece
due passi verso di me, fino a sovrastarmi.
«Significa
che non puoi venirmelo a chiedere adesso, dopo anni in cui te ne sei
letteralmente fregato di me.»
«Ma
che stai dicendo?»
Avanzò
ancora e mi costrinse a indietreggiare.
«Credi
che non me ne sia accorto? Ho visto che avevi dei problemi, sai? Ma mi hai
sempre tenuto fuori da tutto ciò che ti riguardava. E la chiami amicizia? Per
questo non hai il diritto di chiedermi come sto. È troppo tardi e preferisco
stare in questa merda, come la chiami tu, piuttosto che contare su di te.»
Lo
guardai negli occhi e mi chiesi a quanti anni prima risalisse l’immagine che
avevo di lui. Avevo continuato a vivere col ricordo che avevo della sua
persona, piuttosto che ammettere che la realtà era cambiata. Perché la verità
era che non ci parlavamo più da un bel po’. L’ultimo concerto di cui avevamo
discusso risaliva forse al 1998. Non avrei nemmeno saputo dire se avesse una
fidanzata oppure no.
Io
mi ero eclissato, in tutti quegli anni; e ora mi ritrovavo ad ascoltare il
silenzio del teatro, a osservare i sedili vuoti, qualche pop-corn caduto a
terra. Il sipario era sempre alto, ma nessuno pensava che valesse la pena di
recitare al mio fianco o anche solo di guardarmi. Ero lì in mezzo, solo,
divorato dal mio stesso silenzio.
Ryan
aveva ragione su tutto. Lui era cambiato e nemmeno me ne ero accorto. Non
potevo fare nulla per salvarlo. Forse avrei letto di lui su qualche notizia di
cronaca nera, forse lo avrei rivisto con la faccia emaciata e il cervello
scoppiato.
Mi
diede le spalle e avanzò verso il suo gruppetto.
«Ryan?»
Si
fermò, mani in tasca.
«Che
c’è?»
«Chi
è Waitch?»
Si
girò. Con lui, lo fecero anche gli altri due uomini che erano lì. Uno di loro
si scrocchiò le dita e venne verso di me. Aveva bicipiti portentosi e gli occhi
iniettati di sangue. Avrebbe potuto stendermi letteralmente con un soffio.
«Segui
il consiglio del tuo amico e smamma. Non vorrai mica una mano?»
Si
scrocchiò le dita rimanenti e afferrai il concetto. Indietreggiai quel poco che
bastava per dirgli che avevo capito il messaggio, poi tornai a guardare Ryan,
attorniato da persone che non avevo mai visto, che non credevo facessero per
lui; evidentemente, quelle erano persone sbagliate per il ragazzo che era fino
a qualche anno prima, non per quello che era in quel momento.
Ero
rimasto fermo ai miei diciott’anni, incapace di lasciarmi tutto alle spalle.
Il
mondo era andato avanti e io ero rimasto indietro, forse in attesa che qualcuno
mi tirasse fuori di lì.
Sussultai,
non appena sentii una mano sulla spalla: era Alan.
«Tutto
bene?»
Non
avevo molta voglia di parlare e lui era fin troppo apprensivo. Mi metteva
ansia.
Rimasi
a fissare il prato per molto tempo, lui accanto a me. Cercavo di distinguere i
fili d’erba mossi dal vento, ma non ci riuscivo.
Alan
mi aveva detto spesso che ero un ragazzino. In effetti, sentivo di avere
diciott’anni e non ventuno. Nel momento in cui ero stato cacciato di casa, era
come se il mio tempo si fosse fermato. Rivolevo indietro tutto: la mia
famiglia, la mia camera, il tacchino nel giorno del Ringraziamento. Non ne
potevo più di cassonetti puzzolenti e divani rotti, del silenzio di quella
catapecchia, delle incursioni furtive in quella che un tempo chiamavo casa.
Ormai vivevo una finzione. Quand’è che ero diventato
Nathan-lo-stupido, solo per avere compagnia? E quanti sarebbero rimasti, nel
momento in cui avessi gettato la maschera?
Alan
sarebbe rimasto?
«Ho
voglia di attenzioni.»
Come
mi aspettavo, ridacchiò incredulo.
«Tu?
Ma se le hai di continuo?»
Ero
stato stupido a sperare in una risposta diversa, e ancora più stupido era il
fatto che continuavo a fidarmi di qualcuno che mi aveva raccontato un sacco di
balle. Mi aveva accompagnato quella sera solo per portare avanti chissà quale
indagine, ma di aiutarmi non gliene importava niente.
«Tu
non hai bisogno di attenzioni, Nathan, ne hai già fin troppe. Quello che ti
serve è qualcuno che sia al tuo fianco, che ami ogni tuo difetto e sia pronto a
perdonare quasi tutto a quel faccino da schiaffi che ti ritrovi.»
Mi
diede un buffetto e mi strappò un sorriso. Era strano essere toccato proprio da
lui, con tutto quello che aveva passato, e pensai che dovesse essergli costato
molto. Faceva di tutto per tirarmi su il morale. Non se n’era ancora andato,
come invece avevano fatto gli altri.
«Perché
non dici che vuoi scoparmi, come fanno tutti?»
Gli
scappò un’altra risata incredula.
«Primo:
non ho intenzione di scoparti, come dici tu; secondo: io non sono ‘tutti’.»
Alan
non avrebbe mai tenuto a me nel modo in cui avrei voluto. Era premuroso nei
miei confronti, ma l’impressione era che lo fosse con chiunque; dunque, non
significava nulla.
«Mi
abbracci?»
Sentivo
gli occhi inumidirsi, mentre Alan mi guardava con l’aria di chi l’avrebbe fatto
fin da subito, se solo glielo avessi permesso. Mi cinse con le sue braccia e mi
tirò a sé, lasciando che il calore del suo corpo mi avvolgesse e mi cullasse.
La sua stretta fece scomparire le nubi grigie dalla mia testa, donandomi la
sensazione di aver trovato un sostegno su cui riposare, nel lungo cammino che
era la mia vita.
Non
mi fidavo di Alan, ma in quel momento mi diede tutto ciò di cui avevo bisogno:
l’impressione che qualcuno tenesse a me.
Ormai
era notte fonda, quando Ash arrivò sotto casa mia.
«Grazie
del passaggio.»
Agguantai
la maniglia per aprire la portiera, ma fui costretto a fermarmi.
«Scendo
anch’io, se non ti dispiace.»
Alan
aveva deciso di venire con me, ma perché? Non feci domande e scesi; lui mi
seguì poco dopo. Ash ci salutò e rimanemmo soli.
Così
come aveva fatto nel parcheggio, continuò a seguirmi senza dire niente, finché
non fummo sotto casa. Infilai le chiavi nella serratura, ma mi fermò.
«Aspetta.»
Le
sfilai e mi voltai verso di lui.
«Che
c’è?»
«Mi
dispiace per stasera. Se non sono stato onesto con te, è solo per ragioni
professionali.»
Che
differenza faceva, in fondo? Feci spallucce e annuii.
«Nessun
problema. Ora il copione prevede che tu sparisca per sempre, come fanno tutti.»
«Quando
capirai che non sono ‘tutti’?»
«E
tu quando ti accorgerai che non ho amici? Non lo vedi che non ho nessuno? Forse
ci sarà un motivo.»
Attesi
una risposta che non arrivò; così presi nuovamente le chiavi in mano e le
infilai nella serratura.
«Ti
va di fare una passeggiata?»
Mi
domandai perché mi parlasse quando ormai avevo già le chiavi pronte a girare,
ma le sfilai ancora una volta e mi voltai verso di lui.
«Una
passeggiata? Dove?»
«Non
lo so. Qui nei dintorni.»
Non
mi faceva differenza. Niente lo avrebbe fatto, in quel momento. Però accettai.
Annuii e lui mi rispose con un sorriso abbozzato, illuminato appena dal
lampione davanti a casa.
Io
non dissi nulla.
Non
sorrisi.
Semplicemente,
lo seguii.
Ci
fermammo in un mini-market a comprare un paio di birre e camminammo per diverso
tempo senza dire niente. Mi domandai se fosse questa la sua idea di
passeggiata, ma non volevo sentirmi in dovere di dire qualcosa. Alan non mi
parve turbato, quindi me ne restai nel mio mutismo, più accogliente del solito.
La
birra era buona. Anche Alan doveva pensare lo stesso, visto che la beveva con
gusto.
Quella
sera, c’era la luna piena. Il cielo era abbastanza limpido per poterla ammirare
nella sua interezza e mi fermai un attimo per osservarne le poche irregolarità
che era concesso vedere. La luna piena, in generale, era uno spettacolo che mi
affascinava, ma quella sera mi parve solo un ammasso bucherellato nel cielo.
Riportai
lo sguardo sulla strada e lo stesso fece Alan: si era fermato a guardare con
me. Non fece nessun commento sulla Luna e continuammo a camminare l’uno accanto
all’altro, muti, il silenzio rotto dalle boccate che prendevamo dopo aver
bevuto un po’ dalla lattina.
Alla
fine, mi fermai, e Alan con me.
«Cosa
stiamo facendo, esattamente?»
Lui
mi sorrise. Mi sorrideva sempre, quasi volesse rassicurarmi ogni volta.
«Seguo
il tuo ritmo. Se in questo momento non hai voglia di parlare, va bene.»
«E
allora non potresti lasciarmi solo?»
Alan
ci pensò un attimo.
«Non
credo che tu voglia stare solo.»
La
mia mente era un groviglio di pensieri e di immagini. C’era Ryan che sputava le
palline, c’eravamo io e Alan sotto al parcheggio, e, dal nulla, spuntò fuori
l’immagine di Alan che mi accarezzava le gambe, seduti sul suo divano. Era
stato un gesto molto intimo, forse anche più di un bacio.
Riprendemmo
a camminare, col rumore dei nostri passi sull’asfalto e quello delle ruote che
sfrecciavano veloci sulla strada principale. Se ci capitava di incontrare
qualche coppia, questa si zittiva subito nel momento in cui ci passava accanto.
Eravamo
solo io, lui, la birra e i nostri passi, che ci portarono in un viale alberato.
I platani, imponenti e maestosi, sembravano accoglierci con un inchino.
«Ti
posso fare una domanda?»
Mentre
attendevo una risposta, ci sedemmo su una panchina che costeggiava l’ingresso a
chissà quale parco. Non avevo voglia di stamparmi la mappa della città in
testa. In sottofondo, sentivo il frinire dei grilli, anche se non ne ero
sicuro. Mi piaceva pensare che lo fossero.
«Certo,
dimmi.»
«Mi
sono accorto che ogni tanto mi guardi, sai? Volevo sapere cosa pensi in quei
momenti.»
L’eco
delle mie parole svanì per lasciare spazio al rumore ovattato dei clacson.
Tutto intorno, silenzio.
«Ti
guardo?»
«Sì.»
La
luce della luna si fece meno intensa. Adesso aveva contorni più definiti. Il
parco era silenzioso. Forse c’era qualcuno a sballarsi, ma non lì dove eravamo
noi. Forse c’era anche Ryan.
«Non
ci avevo mai fatto caso. Ti chiedo scusa. Non penso cose cattive su di te, se
era questo che volevi sapere.»
Be’,
non proprio. In quel momento avrei voluto sentirmi
dire tutt’altro. Ma Alan non lo avrebbe mai fatto, troppo preso com’era
dall’aver violato una convenzione sociale: non si fissano le persone. Mi faceva
sorridere che quello potesse essere uno dei suoi pensieri principali. Era un
tipo così per bene.
C’era
un uccello nascosto tra gli alberi. C’era la fontana, in mezzo al prato, che
spruzzava acqua. Nessuna di queste cose riuscì a regalarmi un’emozione.
«Alan.»
«Dimmi.»
Un
cane abbaiò. Due volte. Tre.
«Ti
capita mai di sentirti vuoto?»
Lui
attendeva che continuassi, così feci.
«In
questo momento, mi sento come il guscio di una noce. Però, se lo schiacci,
dentro non c’è niente. Ora come ora, non c’è niente dentro di me. Lo capisci?»
«Lo
capisco.»
«È
come se non fossi capace di provare emozioni. Come se mi si fosse spento tutto,
qua dentro. Davvero lo capisci?»
«Davvero.»
«Anche
adesso, ho provato a guardare la Luna, ma non provo emozioni. La natura non mi
trasmette niente. A me piacciono i parchi, sai? Forse perché mi ricordano la
mia infanzia. Ora, però, non mi ricordano nulla. Mi sento una specie di
bambola.»
«Anche
io sono stato una specie di bambola, per tanti mesi.»
Alan
guardava la Luna, ma quella visione gli aprì un sorriso sulle labbra. Lui non
era più una bambola.
«E
come se ne esce?»
«Devi
trovare una ragione, ma puoi trovarla solo dentro di te. Magari sei lì, che hai
perso ogni speranza, e poi ti capita di incontrare qualcuno che ti fa mettere
in discussione tutto ciò in cui credi.»
«E
questo ti fa tornare a essere vivo?»
Soffiò
un sorriso.
«Ti
fa tornare la curiosità di esplorare il mondo.»
Io
non sapevo se l’avrei mai ritrovata, quella curiosità. Avevo tante ferite, ma
poche cicatrici. Tagli, in ogni zona del mio corpo, che continuavano a
sanguinare, ma non abbastanza da lasciarmi morire.
«Nathan?»
«Mh.»
«Mi
dispiace per Ryan.»
Feci
spallucce.
«Non
ti preoccupare. Lo sapevo già.»
«Sapevi
già che spacciava?»
«No»,
e mi ricordai della lattina che tenevo in mano. Era ancora fresca. «Sapevo già
che mi avrebbe deluso. In realtà so molte cose, ma faccio finta di non vederle.
Nel momento in cui dai il nome a qualcosa, è come ammettere la sua esistenza,
no? Allora provo a non chiamarle, ma sono loro a chiamare me. E alla fine dei
conti, per forza di cose, mi scontro sempre con la realtà e spesso non è
piacevole. Anzi, non lo è mai.»
Alan
aveva un bel viso. Non era una bellezza in senso comune, ma aveva uno sguardo
rassicurante. Come lo guardavi, ti sentivi al sicuro.
«Io
so che con Harvey non funzionerà. So che mio padre non mi perdonerà mai e che
non tornerò a vivere con la mia famiglia. Lo so, ma faccio finta di non
saperlo. Perché se dovessi accettare tutto questo, non so se ne reggerei il
peso.»
Alan
appoggiò la lattina sulla panchina.
«Gli
amici servono proprio a questo. Sono lì nel momento del bisogno, affinché
portino un po’ del tuo peso sulle loro spalle.»
«Ma
io non ho amici.»
«A
me non risulta che tu stia parlando da solo, in questo momento.»
Lo
osservai. Teneva le braccia conserte e si potevano ancora intravedere gli avambracci
scoperti. Non si era ancora rimesso a posto, da quando avevo fatto quel
ritocchino al suo abbigliamento.
«Io
e te siamo amici?»
«Se
vuoi.»
Mi
sembrava una buona cosa. Un soffio di vento fresco mi accarezzò la pelle, ma io
pensai ad Alan, all’amico che mi sedeva accanto, sempre con una risposta per
tutto.
«E
chi mi dice che lo saremo a lungo?»
«Nessuno.
Devi fidarti e basta.»
Lo
guardai ancora. Mi aveva mentito, quella sera, ma era un pretesto e io lo
sapevo bene. Lo sapevo - come tante altre cose - che il suo interesse per me
era sincero, che la sua apprensione niente aveva a che fare con la sua
indagine. Si preoccupava se mi vedeva giù di corda, e questa era la verità, per
quanto io continuassi a negarla.
Alan
c’era sempre.
«Mi
stai chiedendo tanto, lo sai?»
«Lo
so.»
Sorseggiai
un altro po’ di birra. In lontananza, mi sembrò di veder passeggiare una
coppia. Mi parve anche di vedere un paio di uccellini piantare le loro zampette
sul bordo della fontana, per bere un po’. Non ne ero sicuro, ma mi diede
tranquillità.
Anche
Alan guardava la fontana; sembrava rilassato. Non pareva spaventato all’idea di
portare il peso di parte dei miei problemi, oltre ai suoi, che di certo non
erano indifferenti.
In
quel momento, però, capii che Alan aveva ragione: lui non era ‘tutti’.
Lui
era Alan.
Stemmo
in silenzio anche durante il tragitto di ritorno, ma era un silenzio diverso.
Il mio guscio cominciava a tornare pieno. Non sarei diventato una noce matura
in poco tempo, ma non ero nemmeno un involucro vuoto. Ero una bambola che
riusciva a sbattere le palpebre - un bel passo avanti.
Dovevo
infilare di nuovo le chiavi nella serratura, ma non ne avevo voglia. Per quella
sera, non avrei mai voluto lasciare quel ragazzo con le maniche risvoltate e la
camicia fuori dai pantaloni.
«Buonanotte,
Nathan, e chiama se hai bisogno. Io ci sono sempre, capito?»
«Sempre?
Quindi mi assicuri che non sei uno di quelli che se si fidanza poi sparisce?»
Lui
rise e fece ridere anche me.
«Non
penso di essere in vena di fidanzamenti, ma non si sa mai. Comunque no, non
sono uno che sparisce, tranquillo.»
«Grazie.»
Mi
diede un altro buffetto.
«Figurati.
Quando vuoi, mi raccomando.»
Ci
salutammo, rischiarati dalla luce del lampione. Solo quando il portone mi si
chiuse alle spalle, mi chiesi come sarebbe tornato a casa. Forse avrei potuto
invitarlo da me, ma né il mio letto né il divano sembravano invitanti. In
effetti, era stato meglio così.
Salii
le scale ed entrai nel mio appartamento. Gettai le chiavi nel posacenere sul
comodino all’ingresso, poi mi frugai ancora in tasca e le mie dita sfiorarono
un pezzo di carta stretto e lungo. Lo tirai fuori e mi bastò leggere
“California” per ricordarmi dell’annuncio di lavoro che avevo visto.
Cominciai
a pensare che forse non ci ero incappato per caso, che quella fosse realmente
l’occasione di ricominciare che la vita mi stava riservando. Mi ritrovai di
nuovo a immaginarmi sulla costa occidentale, con un po’ di abbronzatura e quel
pizzico di maturità in più che mi sarebbe bastata per tagliare tutti i ponti.
Avrei
abbandonato tutto… e tutti.
Ma
poi ripensai a Ryan, a quello che gli era successo e a ciò che ci eravamo
detti.
Chi
è che lo aveva ridotto così?
Chi
è che aveva ridotto così anche Harvey?
Posai
l’annuncio di lavoro sul comodino, perché non potevo arrendermi in quel modo;
non potevo lasciare che qualche ora di sballo si portasse via due persone a cui
tenevo e che avevano fatto parte della mia vita.
Volevo
scoprire chi ci fosse dietro a tutto quel giro. Non avrei potuto fare niente,
certo, ma almeno potevo dare un nome allo stronzo che li riforniva. E poi,
chissà, avrei potuto anche sporgere denuncia alla polizia.
Dopo
una bella doccia calda me ne andai a letto, carico e determinato.
Sarei
andato fino in fondo.
Angolo autrice
Ed eccoci già arrivati al capitolo
15. Come vola il tempo, mi sembra di aver cominciato a pubblicare solo ieri!
Questo significa che devo spicciarmi a scrivere quello che mi manca, ahahah XD
Ieri sera ho buttato giù una quindicina di righe del capitolo 29 che va
revisionato per metà, non sono molte ma di sicuro sono meglio di zero :D
Comunque ho scritto questo capitolo
quando ero nel mio “periodo Murakami” e infatti lo trovo molto “giapponese”
(con questo non mi sto paragonando a Murakami, ci mancherebbe ahahahah). La
stesura originale di questo capitolo risale più o meno a metà 2015, un periodo
dove purtroppo non sono stata bene (ero in una sorta di leggera depressione) e
penso che questo inevitabilmente si sia riversato anche nella scrittura. Da qui
in poi infatti la storia prende, a mio parere, una piega molto più “angst” o in
ogni caso diciamo che alcuni nodi vengono al pettine e, date le premesse con
alcune situazioni o personaggi, va da sé che non porteranno troppe cose positive.
La buona notizia è che ora sto molto meglio, con qualche alto e basso, ma nel complesso
non mi posso lamentare, quindi… chissà, magari i personaggi potrebbero avere
qualche gioia – ma non troppe, perché le storie senza conflitti non ci piacciono
:P
C’è anche da dire che più o meno da
questo punto in poi ho avuto una scrittura molto discontinua, sempre per via
della situazione che si è venuta a creare dal 2015. Non ho scritto per mesi, in
alcuni casi potrei dire anche anni, ed è stato abbastanza difficile tenere
tutta la trama sotto controllo. Per fortuna avevo già una scaletta molto
dettagliata! Rileggendo i capitoli, comunque, non si nota molto e questa è la
cosa più importante :D
Bene, anche oggi sto scrivendo
commenti più lunghi del capitolo, chiedo venia…
Alla prossima e grazie a tutte le
persone che seguono questa storia <3
holls