21.
Una testa piena di sogni
Quel
martedì sera c’era una bella brezza. Il caldo era passato per lasciare spazio a
quel frescolino insidioso, che ti fa uscire a maniche corte per poi farsi
strada tra gli spifferi di una maglia troppo leggera. Io però ero stato più
furbo e mi ero messo a maniche lunghe, ed era stata l’unica scelta intelligente
in quell’ultimo periodo. Seduto sui gradini, osservavo lo spiazzo sotto di me
che faceva da cornice a una splendida fontana, imponente e abitata da qualche
pesce. Questo, almeno, è ciò che mi raccontavano sempre quando ero piccolo; da
dove ero seduto, complice anche il buio, non vedevo proprio un accidente.
Ero
arrivato molto presto. Me ne stavo lì, con la testa appoggiata sulle ginocchia,
a osservare gruppi di amici seduti ai tavoli intenti a ridere e scherzare
insieme a qualche bicchierino. Poi c’era chi, come me, si era messo sui
gradini, e parlava del più e del meno, fitto fitto, con qualche occhiata
complice. C’erano due che erano palesemente al primo appuntamento: lui le
diceva qualcosa e lei ridacchiava di continuo, con gli occhi bassi,
imbarazzata. Non appena lui si avvicinava o la avvolgeva con un braccio, lei si
irrigidiva un attimo, per poi lasciarsi andare. Erano dolci e facevano tanta
tenerezza. Mi domandai se anche io avrei mai vissuto qualcosa del genere o se
qualcuno mi avrebbe mai guardato così. Pensai prima ad Harvey, che di certo non
era il tipo da romanticherie - e nemmeno il tipo con cui avere una storia, a
ripensarci - e poi mi venne in mente Alan, che forse sarebbe stato più adatto,
ma preso da Steve e, sotto sotto, da Oliver.
Io
lo conoscevo solo da un mese e, sebbene fosse cambiato molto, ero sicuro che
non potesse bastare così poco a fargli dimenticare il suo ex, che era diventato
tale contro la sua volontà. Quindi, forse, anche se tra di noi fosse nato
qualcosa, ero praticamente certo che avrei dovuto fare i conti con Oliver. Lui
forse avrebbe potuto prendersi una semplice sbandata per me, fatto che non
consideravo così improbabile, ma non più di questo. Se un giorno gli avessi
chiesto di scegliere, avrebbe scelto Oliver, ne ero certo.
Alzai
gli occhi verso la fontana e - parli del diavolo - lo vidi arrivare verso di
me. Anche lui era in anticipo, ma non mi meravigliò. Era preciso, inquadrato e
con la testa sulle spalle, proprio ciò di cui avrei avuto bisogno in quel
momento. Se non ci fossero stati Steve e Oliver di mezzo, forse un tentativo
l’avrei fatto; avrei provato a sondare il terreno e probabilmente avrei osato
di più di un bacio per gioco, quello che gli avevo dato per sbarazzarci delle
due ragazze. Non ne avevamo mai più riparlato, ma non ne era rimasto così
turbato come avrei potuto pensare.
Mi
alzai dai gradini e cominciai a scenderli e, quando lo vidi, mi limitai a
salutarlo. Non eravamo abbastanza intimi per un abbraccio tra amici, ma nemmeno
così sconosciuti per darci un bacetto formale o una stretta di mano.
«Ciao.
È da molto che aspetti?»
«Ma
no, non preoccuparti.»
Seguì
un momento di silenzio, dove ci guardammo negli occhi, con quel pizzico di
imbarazzo che striscia tra due persone che avevano il nostro stesso livello di
intimità. Lui sorrideva ogni tanto, poi si perdeva a fissare il bar con occhi
vacui; furono una manciata di secondi, niente di più, ma mi sembrava strano.
«Andiamo
a prenderci qualcosa?», provai a dire, e lui mi rispose con un cenno del capo.
Ci
incamminammo verso il bancone, ma Alan sembrava distante e cominciai a
ipotizzare che fosse un filo imbarazzato. Forse aveva frainteso il mio invito e
non capiva come comportarsi; comunque stessero le cose eravamo soli io e lui,
come era successo già altre volte, ma c’era qualcosa di diverso nell’aria.
«Dammi
qualcosa di leggero, vai.»
Il
barista gli domandò se preferisse un cocktail secco o fruttato, e Alan optò per
la seconda scelta. Io feci altrettanto.
Pagai
per entrambi e ci allontanammo coi nostri drink in mano, poi prendemmo posto in
uno dei tavolini liberi.
Lui,
ancora, non diceva niente. Per la verità non sembrava neanche infastidito dal
nostro silenzio; forse era perso in qualche suo pensiero, che immaginai
riguardasse Steve, o i sensi di colpa nei confronti di Oliver per via di Steve.
In ogni caso sembrava che io ai suoi occhi non esistessi, e mi sentii bruciare
il petto perché non alzava gli occhi nemmeno in quel momento, che lo stavo
fissando con insistenza.
«Va
tutto bene?»
Fu
solo in quell’istante che staccò i pensieri dal conflitto tra Steve e Oliver e
alzò gli occhi verso di me, per poi rivolgermi un timido sorriso.
«Sì,
scusa. È stata una settimana molto impegnativa a lavoro, tutto qua.»
«Be’,
credo che per te sia impossibile staccare davvero, col lavoro che fai.»
Lui
annuì e io mi presi un sorso della bibita che avevo ordinato.
«È
così, infatti.»
Si
capiva che voleva dire altro, ma si limitò a scuotere il capo di fronte a un
interlocutore immaginario, col quale aveva terminato la frase. Chissà, forse
immaginava di dirlo a Steve - o a Oliver -, ma questo non cambiava il fatto che
quella sera con me sembrava distante. Mi domandai se non volesse tornarsene a
casa e per un attimo fui tentato dal chiederglielo.
«Ah!
Come procedono le indagini per i volantini? Avete scoperto qualcosa?»
Alan
sospirò e incrociò le mani sul tavolo.
«Diciamo
che le indagini procedono.»
Non
disse altro. Non era un tipo logorroico, ma capii che aveva la testa
completamente da un’altra parte. Alzai gli occhi alle coppie sedute agli altri
tavolini e invidiai la loro complicità e il semplice piacere del gustarsi la
compagnia dell’altro. Ridevano e scherzavano come se si conoscessero da una
vita; pure la coppia al primo appuntamento sembrava più affiatata di noi.
Cominciai a pensare di aver sbagliato a fargli quell’invito, dove volevo solo
chiedergli scusa e forse parlargli dei miei problemi, ma era ormai evidente che
forse avevo frainteso le sue premure e le attenzioni che aveva per me. In quel
momento, capii che lui semplicemente era fatto così, che Oliver avrebbe sempre
occupato un posto nel suo cuore e che, oltre a lui, adesso c’era pure Steve.
Fissai
la bibita davanti a me sul tavolo, e desiderai quasi essere in un altro luogo,
da solo.
Alan
sospirò.
«Scusa.
Non sono una grande compagnia stasera, vero?»
Io
feci spallucce.
«Non
tanto.»
«Mi
dispiace. Scusa.»
Alzai
gli occhi giusto in tempo per vedergli spuntare un sorriso, forse sincero,
forse di circostanza. Lui batté la punta delle dita sul mio bicchiere e, come
lo guardai negli occhi, capii che dispiaciuto lo era davvero e che quello era
un disperato tentativo di farsi scusare.
«Perdonami,
davvero. Ho tanti pensieri per la testa e delle decisioni da prendere e non so
bene cosa sia la cosa più giusta da fare.»
«Non
ti preoccupare.»
«Invece
mi preoccupo eccome. Non voglio vederti così giù di corda, né esserne la
causa.»
E
io continuavo a stupirmi del perché mi piacesse un tipo come lui. Aveva la
straordinaria capacità di farti pensare di essere importante, come se la sua
felicità non potesse che dipendere dalla tua, e io per un attimo ci credetti
anche. Poi guardai in faccia la realtà: lui era gentile con me così come lo era
con Steve e come lo era stato con Oliver; ma sarebbe stato premuroso anche con
la nonnina che non ce la fa ad attraversare la strada, e si sarebbe offerto di
prenderle le buste della spesa e portarle a casa al posto suo.
La
verità era che Alan era un angelo, più o meno tormentato, ma pur sempre un
angelo. Io invece ero un miserabile umano, incasinato fino al midollo con la
vita di tutti i giorni e in cerca di una visione di insieme che non potevo
avere dal basso della mia posizione; ma se per un attimo, anche solo per un
attimo, Alan fosse diventato un comune mortale, come tutti, forse mi sarei
fatto avanti. Forse gli avrei chiesto un bacio e forse gli avrei detto che
quell’uscita sembrava tanto un appuntamento e che a me non dispiaceva affatto.
Poi però tornavo con i piedi per terra, perché mi accorgevo che il ramo di
quell’albero, quello su cui mi ero accoccolato per guardare il mondo dall’alto,
era troppo fragile per sopportare il mio peso senza rompersi; e così si
spezzava, e io sbattevo la testa e mi ricordavo che il massimo che potevo
meritarmi erano Harvey, mio padre e pure mia madre.
«Grazie.»
Finalmente,
trovai la voglia di assaggiare il mio drink fruttato. Sapeva di pesca e non era
affatto male. Buttai un’occhiata alla coppietta che sedeva accanto a noi e
pensai che forse le cose non stavano andando così male. Sorrisi.
«Immagino
che tu mi abbia chiesto di vederci per un motivo, scuse a parte.»
Io
sbuffai, ma non ero davvero scocciato.
«Non
ti si può proprio nascondere niente, vero?»
Entrambi
ridemmo e capii che lui finalmente era lì con me. Lo guardai e mi sentii invaso
da un senso di pace mai provato; i miei problemi non mi parvero più così
insormontabili e mi sembrava quasi di poter affrontare ogni difficoltà, perché
accanto a me c’era lui.
Be’,
se si escludevano Oliver e Steve, ovviamente.
«Sì,
in realtà ti ho chiesto di vederci perché avevo bisogno di un amico con cui
parlare.»
Ricordai
quella sera in cui si era offerto di portare un po’ del mio peso e io avevo
accettato quasi con riluttanza.
Lui
finì il suo sorso di drink e mi sorrise.
«Ti
ascolto. Dimmi tutto.»
Lo
osservai mentre il suo sguardo veniva catturato da una foglia sospinta dal
vento. Aveva uno sguardo maturo ma allo stesso tempo innocente, molto diverso
da quelli che avevo conosciuto fino a quel momento, sempre impregnati di
malizia o malignità. Avevo imparato a guardarmi le spalle da tutti, ma con lui
avevo dovuto rimettere in discussione ogni cosa.
«Vabbè,
forse te ne avevo già parlato, più o meno. Si tratta di mio padre.»
Alan
annuì. Aveva incrociato le mani sul tavolo, come quando ero andato a fare la
denuncia. Immaginai che quella fosse la posa che assumeva quando era
concentrato ad ascoltarti.
«Mi
ricordo qualcosa, sì.»
«Ecco.
L’altra sera sono andato a casa dei miei per mandarli a fanculo. Solo che non
so cosa sia successo e sono loro che hanno mandato a fanculo me.»
Parlare
rendeva tutto più reale. Non sapevo bene perché mi stessi confidando con Alan,
che in fin dei conti non poteva fare niente per cambiare la situazione. Poi
ripensai allo sguardo di mia madre e desiderai poter tornare indietro. Mi
sentii nuovamente orfano e Alan, per quanto fosse caro nei miei confronti, non
avrebbe mai potuto provare per me amore incondizionato, non avrebbe mai potuto
perdonare ogni mio sbaglio. Non c’era più nessuno disposto a farlo, e mi sentii
improvvisamente solo.
«Nathan?
Tutto bene?»
«Sì,
scusami. Mio padre è stato zitto tutto il tempo. Ti rendi conto? Non ha detto
niente. Se ne stava a braccia incrociate, mentre mia madre mi diceva
praticamente che non ero più suo figlio.»
«Ma
dai, sono sicuro che non lo pensava veramente. Forse l’ha detto in un momento
di rabbia.»
Mi
uscì un sorriso amaro.
«Se
tu fossi stato lì, la penseresti come me.»
Nessun
abbraccio mi avrebbe convinto del contrario. Nessuna parola di conforto sarebbe
riuscita a dare vita all’aridità che sentivo intorno. Mettendomi al mondo, i
miei genitori avevano scommesso su di me, ma avevano perso tutto.
Alan
spostò la sedia per avvicinarsi a me. In un raptus di egoismo, desiderai che
Oliver non fosse mai esistito e avrei volentieri cancellato Steve dalla faccia
della Terra.
«Hai
provato a chiederle scusa?»
«Non
funzionerebbe, davvero.»
Che
cosa avrei dato per avere un pizzico del suo affetto? Che cosa avrei dato
perché quegli occhi non avessero smesso mai di guardarmi in quel modo? Una
volta tornati a casa ognuno sarebbe tornato alla propria vita, e i miei
problemi, per lui, sarebbero stati solo un ricordo lontano. La verità era che
nessuno poteva farsi carico di quello che portavo in spalla, nemmeno se lo
avesse voluto.
La
mano di Alan cominciò ad accarezzarmi il braccio, in segno di conforto.
A
vederlo si sarebbe detto un gesto intimo; tuttavia, tra me e il mondo c’era una
barriera, una bolla di gelida solitudine che nessuno, se non io, sarebbe stato
in grado di rompere. Un brivido mi percorse tutto il corpo, mentre osservavo
l’immagine oblunga proiettata sull’asfalto dal lampione.
Ancora
una volta, era l’ombra dei miei sbagli.
«Nathan,
non ti abbattere. Lei è tua madre, non può mandarti via così.»
«Mio
padre l’ha fatto.»
Lui
non trovò nessuna frase per ribattere. Mi sentii quasi un verme per averlo
ghiacciato così, per avergli fatto capire che il suo conforto non avrebbe
cambiato un bel niente. Sembrava ferito e amareggiato all’idea di non potermi
aiutare, lui che ci stava provando in tutti i modi.
«Grazie
per essere il mio supereroe, Alan, ma ci sono delle cose che non si possono
aggiustare. Ti ringrazio lo stesso per averci provato.»
Lui
ridacchiò alla mia battuta e desiderai averlo accanto a me più di ogni altra
cosa. Lo vidi perdersi con lo sguardo dentro il bicchiere, mentre quel sorriso
continuava a rimanergli sul viso.
«A
che pensi?»
Alan
incrociò ancora le mani, ma stavolta guardava il cielo, a caccia di qualche
ricordo.
«È
la stessa cosa che mi diceva mia madre da piccolo: “Non puoi pensare di
aggiustare tutto”.»
Pensare
ad Alan da piccolo mi intenerì talmente tanto che scoppiai a ridere, e lui con
me. Era un’immagine tenera, che mi ricordava la mia, di infanzia, i momenti
felici e tutti i baci e gli abbracci che i miei genitori mi riservavano. Non ci
sarebbe stato più niente del genere e dovevo imparare a camminare sui cocci
rotti della mia vita.
«Già
da bambino volevi portare ordine nella vita delle persone, insomma.»
«Sì,
ma, come dici tu, mi mancano i superpoteri.»
Eppure
io stavo sorridendo. Quel suo tono confidenziale e caldo mi fece sentire come
avvolto in una patina protettiva, cullato.
«Mh.
Forse.»
Cominciai
a giocherellare con un angolo della tovaglietta di carta. Ne strappai una parte
e la schiacciai, fino a farne una pallina. Poi continuai a schiacciarla sempre
più.
Un’altra
pallina, uguale alla mia, mi finì tra le gambe. Alzai gli occhi e li abbassai
sulla sua tovaglietta, alla quale mancava un angolo, come alla mia.
Gli
lanciai la mia pallina addosso e lo colpii in pieno. Lui mi sorrise e lo
sguardo che ci scambiammo fu più confortevole di qualunque abbraccio. Poi piegò
la schiena in avanti e poggiò i gomiti sul tavolo, avvicinandosi a me ancora di
più.
Lo
scrutai con la coda dell’occhio e mi domandai cosa potessi fare per essere
oggetto delle sue attenzioni. Era la prima volta che desideravo così tanto
essere notato da qualcuno. Avevo avuto decine di ragazzi ai miei piedi, tutte
persone che non avrei degnato neanche di uno sguardo; e poi era arrivato lui, chiuso
e silenzioso, che aveva il cuore più grande di tutti gli altri organi - mica
come quelli là - e un trauma enorme che gli impediva di vivere a pieno la sua
vita. Chi l’avrebbe mai detto che uno così mi avrebbe sedotto?
E
invece era successo, e io stavo lì, a ripensare alla folle idea di cui mi aveva
parlato Nelly, quell’idea a cui avevo ripensato, in quei giorni. Se avessi
detto ad Alan di una mia ipotetica partenza, come avrebbe reagito? Eppure,
forse non era più tempo di aspettare; era giunto il momento di tastare il
terreno.
«C’è
un’altra cosa che ti vorrei dire, Alan.»
Lui
annuì.
«Ti
ascolto.»
Feci
un bel respiro. Da una parte pensai che, se la notizia non gli avesse fatto né
caldo né freddo, forse me ne sarei andato davvero. Cominciai realmente a credere
che era meglio essere trapiantati altrove che vivere con delle radici
strappate. Se quella serata non fosse andata come volevo, forse era il caso di
pensarci davvero.
Lasciare
tutto, andare via.
Un
altro sospiro secco.
«Mollo
il seminario. Tornerò per l’inizio delle lezioni, se mi andrà.»
«Che
stai dicendo?»
Feci
spallucce. Notai la preoccupazione sul suo viso, che partiva da quelle
sopracciglia corrugate e poi si espandeva su ogni ruga d’espressione disegnata
sulla fronte. Pensai che Oliver era un avversario imbattibile, ma che Steve
potevo ancora metterlo fuori gioco.
Se
solo avessi osato un po’...
«Mi
sono iscritto a questa università solo per mio padre. Lui è architetto, sai?
Poi, vabbè, si è ritrovato a fare tutt’altro, ma lui sa quanto sia dura questa
facoltà e io volevo colpirlo. Lo so, è una cretinata, non c’è bisogno che mi
guardi così.»
«Non
ti sto guardando “così”. In parte lo avevo immaginato.»
«Già,
giusto. Avrei dovuto capirlo.»
Gli
rivolsi un’occhiata complice e lui ricambiò. In quel momento, mi illusi di
piacergli, anche solo un pochino. Cosa avrei potuto fare?
«Non
so se sia la scelta giusta, mollare tutto adesso. Ora che hai cominciato, forse
ti converrebbe arrivare in fondo, a meno che tu non sia fortemente convinto di
voler fare altro.»
Mi
scappò un risolino.
«In
realtà, tutto quello che vorrei fare adesso è prendere e andarmene via,
lontano. Mi piacerebbe trasferirmi da qualche parte, magari sull’altra costa e
mandare a fanculo tutti i problemi che ho qui.»
Alan
bevve un sorso del suo cocktail e pensò un attimo.
«Non
lo so, sai. Anche io sono scappato nella mia vita, ma non ho risolto un bel
niente. Credevo che attraversare un oceano fosse sufficiente per liberarmi di
Brighton, e invece mi sono ritrovato qui con la stessa diffidenza. Poi, certo,
New York è certamente più cosmopolita, ma sono stato stupido a pensare che qui
fosse diverso.»
Ascoltavo
ogni sua parola con quella fiducia che solo un amico può dare. Era la prima volta
che provavo quella sensazione, quella di essere capito e sentire dei consigli
dati solo per il mio bene, senza un secondo fine. Lui parlava del suo passato e
la mia testa non osava contraddirlo. Alan continuò e io ripresi ad ascoltarlo
composto, quasi affascinato.
«Poi,
be’, so già che non mi darai retta e che preferirai sbatterci contro da solo.
Hai la testa piena di sogni, tu, e figuriamoci se ti fai frenare da me. Poi,
comunque, potresti sempre prenderti un mese di pausa, magari in coincidenza con
qualche festività.»
«A
dire il vero...», e me lo lasciai scappar detto, col cuore che mi batteva a
mille, «… non pensavo di tornare. Cioè, non lo so. È una cosa che ho buttato
lì, non ci ho ancora pensato seriamente.»
Il
volto di Alan non tradì alcuna emozione, ma non riuscii a capire perché. Mi
fissava ed emetteva grossi sospiri, ma non proferì parola per almeno cinque o
sei secondi. Ogni battito del mio cuore mi convinse sempre del più del fatto
che non fosse stata una buona idea.
«Ah.
Be’, allora è una cosa diversa. Molto diversa, sì. E quando vorresti partire?»
«Non
so, pensavo dopo la fine dell’indagine. Per ora non posso allontanarmi,
giusto?»
Alan
annuì. Si mise a fissare il suo cocktail e mi sembrò di sentirlo nuovamente
distante. Tirò fuori la cannuccia e la aspirò dal fondo, poi la rimise dentro
il bicchiere.
«Comunque
non è una cosa definitiva, eh. Ci sto solo pensando. Magari faccio tutti questi
discorsi e poi torno dopo un mese perché scopro che la spiaggia non mi piace e
che gli affitti non sono poi così a buon mercato. Ho solo bisogno di prendere
un po’ d’aria, capisci? A meno che non abbia una buona ragione per restare,
s’intende.»
Aspettai
una sua reazione, ma non arrivò. Si limitò a fare un cenno d’assenso con le
sopracciglia, ma non disse altro.
La
mia buona ragione saresti tu, avrei voluto dirgli, ma
non aveva senso forzare le cose. Alan avrebbe preferito buttare tutto all’aria
piuttosto che stravolgere il suo delicato equilibrio.
«Guarda
che mi mancheresti, eh!»
Si
sforzò di sorridere, ma non gli veniva bene. Avevo combinato l’ennesimo casino,
dandogli la notizia in modo così brutale. Io per lui sarei rimasto, ma dopo
quanto tempo me ne sarei pentito?
«Anche
tu mi mancheresti.»
Forse
avevo osato troppo poco. Dovevo cercare di sondare il terreno, per capire se
avevo anche solo la minima speranza. Poi avrei dovuto convincerlo che ne
sarebbe valsa la pena, ma quello era un altro discorso.
«Ah,
se ti sentisse Steve…!»
Lui
aggrottò le sopracciglia per un attimo.
«Che
c’entra?»
In
quell’istante, provai quel guizzo di speranza, quello di quando speri che le
cose siano esattamente in un certo modo, ma il momento dopo capisci che è
impossibile; poi però ci rimugini e ti dici che forse sì, quella speranza non è
frutto della pazzia…
«Non
uscite insieme?»
«Chi
ti ha messo in testa un’idea simile?»
…
e poi quella speranza germoglia e diventa certezza, il mondo si spalanca
davanti a te e ti senti come se tu avessi vissuto in una bolla d’ansia per
tutto quel tempo. La realtà appare finalmente bella, ogni giornata ha il suo
sole e tu il tuo sorriso perenne.
«Be’,
Steve mi ha fatto vedere un messaggio dove diceva che si sarebbe incontrato con
te, e quindi...»
Alan
si strusciò le mani sul viso.
«Ah,
quello! Ma figurati, mi aveva solo scritto per chiedermi se poteva venire in
centrale a denunciare il furto del suo portafogli. Che poi, tra l’altro, non è
mai venuto.»
Rimandai
indietro il nastro almeno una decina di volte. Alan e Steve non uscivano
insieme. Quel piccolo bastardo aveva approfittato di un messaggio scritto ad
hoc per farmi credere di avere una sorta di relazione con Alan!
Mi
sentii più leggero, più carico.
Potevo
osare, o forse dovevo. Ma come?
«In
effetti, mi pareva strano che a un tipo come te potesse interessare uno come
Steve, ma non si sa mai.»
Entrambi
scoppiammo a ridere e per un attimo dimenticai la faccia tetra che aveva avuto
quando gli avevo annunciato la mia intenzione di partire. Già mi immaginavo
sulle spiagge della California, a servire cocktail ai bagnanti, mentre mi godevo
il sole di fine estate, ma senza rendermi davvero conto che sarei stato solo.
Solo, senza Alan… Dovevo capire cos’era più importante, tra tentare di averlo
al mio fianco e sopportare quella città che troppo mi ricordava i miei
problemi. In California non avrei avuto nessun professore stronzo, nessun esame
di materie plastiche e nessuna famiglia a cui rendere conto. Ci saremmo stati
solo io e il bar, e forse qualche bel ragazzo di passaggio.
«Ah!
Ti ho portato una cosa.»
Si
sollevò appena dalla sedia e infilò la mano nella tasca posteriore, per poi
estrarne una forma fin troppo conosciuta. Alan mi porse un pacchetto di
sigarette che aveva solo due Marlboro.
«Ricordi
la sera in cui te le ho sequestrate? Poi sono rimaste a casa mia e ho pensato
di portartele. Sia mai che ti prenda una crisi di astinenza improvvisa.»
Gli
feci una linguaccia di rimando.
«Spiritoso.»
Osservai
quelle due sigarette e pensai che, in fondo, somigliavano a me e lui. Due
persone così diverse, ma in fondo così uguali, che si incontrano per caso e
cominciano a condividere un pezzo della loro vita. Proprio come due Marlboro,
finite nello stesso pacchetto per una semplice casualità e destinate a stare
per sempre insieme, a meno che qualcuno non le avesse tirate via di lì.
«Ti
va di fare due passi?»
Osservai
le nuvole minacciose sopra le nostre teste, ma accettai entusiasta.
Ci
alzammo da lì e cominciammo a camminare vicini, lui con la testa tra le nuvole
e io che non riuscivo a smettere di osservarlo.
Ci
inoltrammo verso una stradina acciottolata, costeggiata da siepi e, dietro
queste, imponenti querce a farla da padrona. Il vialetto del parco era
tranquillo e isolato, l’aria riempita solo dal rumore delle nostre scarpe sui
ciottoli o dei sassolini che rotolavano, sospinti da un calcio involontario. Si
sentiva il rumore della brezza, che ci accarezzava per poi passare oltre, e
ogni tanto si sentiva anche il ruggito delle nuvole, che preannunciavano
pioggia.
«Hai
l’ombrello?», mi chiese lui.
«Macché,
l’ho lasciato a casa. Tu ce l’hai?»
Alan
scosse il capo.
Una
goccia mi picchiò sul viso, per poi rigarlo fino al mento. Un’altra goccia si
aggiunse alla prima, poi una seconda, fino a che cominciai a perdere il conto.
Alan
alzò gli occhi al cielo.
«Ecco,
lo sapevo. Perché non ci ripariamo sotto a un albero? Magari smette tra poco.»
Incrociai
le braccia davanti a lui e assunsi una finta aria da professore.
«Non
sai che è pericoloso stare sotto a un albero durante un temporale?»
«Bah,
chiamalo temporale. Sono due gocce!»
Gli
feci un’altra smorfia, ma lui non perse tempo e mi spinse verso un buco
presente nella siepe. Camminammo sull’erba e lui mi accompagnò sotto l’albero
con una mano dietro la schiena.
«Almeno
qui saremo riparati. Aspettiamo un po’ e vediamo se aumenta.»
«Non
sarebbe meglio andare a casa?», domandai.
Alan
cominciò a fissare le gocce che cadevano e che, a poco a poco, bagnavano il
vialetto. Sorrise e lasciò che il suo sguardo cadesse nel vuoto per un attimo,
poi si voltò verso di me.
«Be’,
mi pare di capire che non avremo molte altre occasioni per stare insieme, no?»
Fino
a quel momento, ero abbastanza convinto che nella parte sinistra del mio petto
battesse un cuore pulsante; bastò quella frase a stroncarlo, a fargli perdere
un battito o forse due, prima di ridursi in mille pezzi.
Lui
tornò a tenere gli occhi sulle gocce e io mi sentii morire. Ero stato stupido a
parlargli di quella che era solo un’idea e cominciai a domandarmi perché
l’avesse presa così tanto sul serio. C’era qualcosa, nel suo ragionamento, che
mi sfuggiva.
Nessuno
dei due disse niente. Lasciammo che il picchiettio della pioggia sull’erba
riempisse il nostro silenzio. Poi, dal nulla, Alan parlò.
«Sono
felice di averti conosciuto, Nathan.»
«Guarda
che non parto mica domani! Non preoccuparti.»
Nel
buio di quella serata, intravidi un sorriso tirato, come quello che mi aveva
rivolto quando gli avevo detto della mia probabile partenza.
«Hai
ragione. Ma non tutti i momenti sono adatti per dire una cosa come questa, e
volevo essere sicuro che tu lo sapessi.»
Non
seppi cosa dire. Non volevo rimanere in silenzio, ma non trovavo nemmeno le
parole. Mi avvicinai a lui, abbastanza per notare come muoveva
impercettibilmente le labbra. Le stringeva appena e, in quei momenti, abbassava
lo sguardo. Poi le rilasciava e tirava il sorriso.
Alla
fine, si voltò verso di me. Lessi tanta malinconia nei suoi occhi, forse certo
che non mi avrebbe più rivisto per tutta la vita. Io non ero veramente sicuro
di volermene andare, era più un’idea che mi frullava nella testa piuttosto che
una reale intenzione, ma lui sembrava non capirlo.
Cinsi
il suo corpo con le mie braccia e lui, rigido in un primo momento, poi si
lasciò andare e ricambiò il mio abbraccio. Mi avvolse completamente nella sua
stretta, sempre più forte, ed eravamo così vicini che potevo sentire i suoi
sospiri e il suo petto ingrossarsi e abbassarsi.
Una
goccia mi cadde sulla testa e sobbalzai appena, ma lui mi teneva così stretto a
sé che a malapena riuscii a muovermi.
All’improvviso
schiuse le labbra e pensai che volesse dirmi qualcosa. E non una cosa
qualunque, ma quella cosa, il mio motivo per restare senza se e senza
ma. Il cuore prese a martellare più forte, in attesa di sentirsi dire quelle
parole, e il battito accelerò quando lo sentii schiudere le labbra un’altra
volta, come a voler cercare il coraggio che non aveva avuto un attimo prima.
Chiusi gli occhi e aspettai, aspettai che la voce gli uscisse fuori e che mi
parlasse, aspettai che mi rendesse felice e che mi dicesse che qualcosa per me
lo provava…
…
I secondi passavano e ogni attimo diminuiva la speranza e cresceva la
consapevolezza. Passarono ancora altri secondi di silenzio e dalla sua bocca
non uscì niente, nemmeno il rumore delle sue labbra che si aprivano per dire
qualcosa. Divenne muto e io sempre più conscio che, anche quella volta, mi ero
illuso.
Sciolsi
l’abbraccio con una punta di delusione, ma non potevo biasimarlo. Lui non era
pronto, ma lo sarebbe mai stato? E avrebbe voluto ricominciare proprio con me?
Ma
per quante domande io potessi farmi in quel momento, la verità era una sola: io
non gli interessavo. Se anche così non fosse stato, era troppo spaventato per
ammetterlo.
Lui
era la mia ragione, ma io non ero la sua.
Custodii
ciò che mi aveva detto poco prima e chiusi quelle parole sottochiave, in
qualche zona di me stesso. Non ci volevo più pensare. Arriva sempre il momento
di rinunciare e io avevo trovato il mio. I suoi occhi mi fissavano, sì, ma
erano gli occhi di un amico. Non mi avrebbe mai guardato diversamente.
«Anche
io sono felice di averti conosciuto.»
Alan
mi sorrise.
«Puoi
fumarti una sigaretta, se vuoi. Non mi dà fastidio.»
«Ma
qui si può?»
Lui
fece spallucce.
«Non
c’è nessuno qui intorno e io farò finta di non aver visto niente.»
Quella
frase mi scatenò una risata. Sembrava quasi che volesse compiacermi, forse
perché pensava che sarebbe stata una delle ultime volte. Tornai a guardare il
cielo buio e grigio davanti a me, poi pensai alle due Marlboro e capii che no,
non potevo fumarmene una.
Sarebbe
stata la sigaretta più solitaria di tutta la mia vita.
Dopo
poco smise di piovere. Mi sembrò quasi che quelle gocce fossero state
un’opportunità dal cielo, che aveva voluto darci l’occasione di stare davvero
insieme, da soli. Mi domandai cosa sarebbe accaduto se non avessi messo in
testa ad Alan l’idea della partenza, sotto quell’albero che ci aveva posto al
riparo da occhi indiscreti. Forse avremmo riso e scherzato, o forse non ci
saremmo neanche andati e avremmo preferito tornarcene ognuno a casa propria.
Immaginai che non l’avrei mai saputo e forse era meglio così.
Camminavamo
sopra l’asfalto bagnato, con le macchine che ci sfrecciavano accanto, in quella
che era la città che non dorme mai.
C’era
troppo silenzio, tra noi. E, in un certo senso, cominciai a pensare che ci
fossero anche tante cose non dette.
«Alan.»
«Mh?»
«Guarda
che non è mica detto che parta. È solo una cosa che ho pensato, come ti dicevo.
Non c’è niente di definito, ecco.»
«Lo
so.»
Lo
sapeva, certo. Eppure continuava a comportarsi in quel modo che non capivo.
Mentre
camminavamo, con i nostri piedi che scalpicciavano sull’asfalto bagnato,
cominciai a pensare anch’io che quella potesse essere una delle ultime volte
che facevamo una cosa del genere. Io e Alan avevamo condiviso tanti bei
momenti, molti dei quali a ripensarci mi erano sembrati molto più simili a un
sogno, per quanto erano stati magici; lui con me si era aperto e lo stesso
avevo fatto io, e a volte avevo pensato che sarebbe bastato uno sguardo per
capire cosa frullasse nella testa dell’altro.
Così
alzai gli occhi su di lui, che camminava con le mani in tasca e - solo in quel
momento lo notai - le maniche risvoltate a scoprirgli un po’ di pelle. Teneva
lo sguardo fisso davanti a sé e aveva un’espressione ferma, che nel suo caso
nascondeva la bufera che gli si agitava dentro.
Allungai
una mano verso di lui e la richiusi sulla pelle scoperta dalle maniche. Lui si
fermò e si voltò verso di me, negli occhi una punta di sorpresa. La sua pelle
era fresca.
Mi
bastò guardarlo per notare l’infinità delle parole che ci scorrevano davanti
agli occhi, ma che non avevamo il coraggio di afferrare e di dirci. Mi
avvicinai a lui, senza staccare il mio sguardo dal suo, e lo fissai con
un’intensità pari alle parole che volevo dirgli. Le sue pupille scorrevano
veloci sui miei occhi e le sue labbra si stringevano sempre più frequentemente.
Il suo profilo era rischiarato dalla luce del lampione dall’altro lato della
strada e dai fari delle macchine che ci passavano accanto.
Quella
fu la seconda occasione in cui pensavo che sarebbe successo. A separarci era
solo la probabilità che non ci saremmo più rivisti, ma non c’era nient’altro
che avrebbe potuto dividere le nostre labbra. Io forse l’avrei fatto, lo avrei
baciato, ma cosa sarebbe rimasto di noi, dopo? Se mi avesse rifiutato, con che
coraggio avrei potuto guardarlo ancora negli occhi? Eppure quel suo sguardo
arreso, quasi sfinito dalla battaglia che combatteva ogni giorno, mi suggerì
quasi che potevo provare.
C’erano
tante cose che avrei voluto dirgli: che per lui sarei rimasto, che doveva darmi
una possibilità e che morivo dalla voglia di baciarlo da almeno un paio di
settimane. Se prima era stato solo uno sfizio che volevo togliermi, in quel
momento era quasi una necessità.
Tuttavia,
sapevo che c’era qualcosa di sbagliato. La notizia della mia probabile partenza
lo aveva sconvolto ed ebbi quasi il sentore che, anche se fossi rimasto, lui
avrebbe continuato a tenermi ai margini della sua vita. Se la sua fosse una
scusa o meno, forse non l’avrei mai scoperto.
Guardai
ancora i suoi occhi tremare, la sua bocca stringersi con l’incertezza di non
dire la cosa giusta; ma fu proprio in quell’istante che capii che lui non
l’avrebbe mai fatto. Era troppo spaventato per riprendersi in mano la sua vita,
stravolgerla e mettere da parte Oliver. Io per lui ero qualcosa, ma non ero
abbastanza.
Forse
l’avrei rimpianta come la più grande occasione persa della mia vita, ma andava
bene così. Tirai un sorriso, ma lui non fece altrettanto; deglutì come se
avesse avuto un macigno in gola e distolse un attimo lo sguardo da me, per poi
tornare a guardarmi l’istante dopo. Era tutto ciò che sapeva fare: piantare i
suoi occhi nei miei e scusarsi, facendo uscire le parole dalla sua testa e sperando
che io le catturassi.
Sospirò,
poi si girò e riprese a camminare. Si fermò dopo pochi passi per voltarsi
indietro, e mi fece cenno di seguirlo. Io non me lo feci ripetere due volte e
cominciai a camminare dietro di lui, mentre la pioggia riprese a picchiettare
sopra le nostre teste, un po’ più forte di prima.
Davanti
a noi spuntò un gruppo di ragazzi.
Alan
alzò la testa e un attimo dopo spuntarono un paio di mazze. Io mi fermai, ma
Alan mi precedette e si mise davanti a me, come scudo. Spostai lo sguardo da
lui a quei ragazzi e cominciai ad avere paura, quando uno di loro cominciò a
battere la mazza sul palmo della mano.
«Bene,
bene, ma chi abbiamo qui?»
A
parlare era stato il ragazzo al centro, a cui avrei dato sì e no una ventina
d’anni e che sembrava il capo del gruppetto. Loro erano in sei. Noi in due.
Quei
tipi cominciarono a sghignazzare e vennero avanti.
Uno
di loro sferrò un gancio ad Alan, che schivò e rese il favore, affondando il
colpo. Un altro si avvicinò dietro di lui.
«Attento!»
Un
paio di braccia mi afferrarono senza che avessi nemmeno il tempo di vederlo;
due ragazzi immobilizzarono Alan e lo stesso fecero con me. Lui gridava e
cercava di liberarsi tirando calci, ma veniva prontamente punito.
Gli
altri due ragazzi erano di fronte a me. La mazza era davanti ai miei occhi. Le
braccia di quegli energumeni stringevano troppo perché io potessi fare
qualcosa. Cercavo di divincolarmi, ma cavolo se erano forti! Il cuore voleva
uscirmi dal petto, guardai Alan e nei suoi occhi lessi il terrore. Non stava
succedendo davvero. Non aveva alcun senso. Che cosa mi avrebbero fatto? E cosa
sarebbe successo ad Alan? Tentai ancora di liberarmi da quella presa con le
lacrime agli occhi. Poi uno dei due ragazzi si avvicinò, con un ghigno, e mi
piantò un calcio nello stomaco.
Sputai
saliva. Il fiato mi si spezzò e il dolore tentò di piegarmi in due.
«Che
femminuccia!»
Un
altro calcio. Bocca spalancata. La saliva che mi colava. Io, tenuto immobile da
quei due.
Poi,
mi lasciarono. Portai le mani sull’addome, ma non provai sollievo.
Un
destro mi fece volare sull’asfalto, faccia a terra; il naso faceva male e
provai a toccarlo. Un calcio allo stomaco e quasi non respirai; ne arrivò un
altro sull’altro fianco e urlai.
Alzai
gli occhi per guardarli in faccia, ma il terrore mi gelò il sangue quando la
mazza si alzò. Si abbassò sulla mia schiena.
Crac,
e il mondo divenne opaco.
«Lasciatelo
stare!»
Calci,
ancora. Tanti, insieme, le grida di Alan in sottofondo, le lacrime sul viso e
la terra che mangiavo. Le gambe che tentavano di sollevarmi, ma ero sempre lì,
senza fiato, a osservare il buio, un lampione e le lacrime.
I
piedi di Alan si dimenavano, ed erano così rossi, e un altro calcio, e il
dolore mi stava mangiando, - BASTA! - e le risate di quelli là, e la saliva che
mi colava, e nessuno che si fosse fermato ad aiutare, e ancora un calcio, e le
grida di Alan, e la paura che non ne sarei uscito vivo, - BASTA! - e la mazza
che si abbatteva ancora su di me, e mi spezzava in due e...
Angolo
autrice
Salve
a tutti!
Eh,
ve l’avevo detto che saremmo precipitati nell’angst, scusate! +scansa i pomodori+
<.<
Quindi
insomma, un’altra occasione mancata per i nostri due protagonisti e un epilogo
che ci lascia con tante domande sulla sorte di Nathan.
Ma
almeno una buona notizia c’è: ho scritto infatti già dieci pagine del capitolo
31! Mi sono data fino al 10 febbraio per finirlo, fate il tifo per me, ce la
posso fare (anche se Sanremo non aiuta, visto che scrivo principalmente la sera
XD) :D
Giovedì
prossimo scopriremo le sorti di Nathan… e anche quelle di Alan, visto che
questo episodio romperà il suo già fragile equilibrio emotivo.
A
presto,
holls