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Autore: holls    03/02/2022    6 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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21. Una testa piena di sogni

 

 

 

Quel martedì sera c’era una bella brezza. Il caldo era passato per lasciare spazio a quel frescolino insidioso, che ti fa uscire a maniche corte per poi farsi strada tra gli spifferi di una maglia troppo leggera. Io però ero stato più furbo e mi ero messo a maniche lunghe, ed era stata l’unica scelta intelligente in quell’ultimo periodo. Seduto sui gradini, osservavo lo spiazzo sotto di me che faceva da cornice a una splendida fontana, imponente e abitata da qualche pesce. Questo, almeno, è ciò che mi raccontavano sempre quando ero piccolo; da dove ero seduto, complice anche il buio, non vedevo proprio un accidente.

          Ero arrivato molto presto. Me ne stavo lì, con la testa appoggiata sulle ginocchia, a osservare gruppi di amici seduti ai tavoli intenti a ridere e scherzare insieme a qualche bicchierino. Poi c’era chi, come me, si era messo sui gradini, e parlava del più e del meno, fitto fitto, con qualche occhiata complice. C’erano due che erano palesemente al primo appuntamento: lui le diceva qualcosa e lei ridacchiava di continuo, con gli occhi bassi, imbarazzata. Non appena lui si avvicinava o la avvolgeva con un braccio, lei si irrigidiva un attimo, per poi lasciarsi andare. Erano dolci e facevano tanta tenerezza. Mi domandai se anche io avrei mai vissuto qualcosa del genere o se qualcuno mi avrebbe mai guardato così. Pensai prima ad Harvey, che di certo non era il tipo da romanticherie - e nemmeno il tipo con cui avere una storia, a ripensarci - e poi mi venne in mente Alan, che forse sarebbe stato più adatto, ma preso da Steve e, sotto sotto, da Oliver.

          Io lo conoscevo solo da un mese e, sebbene fosse cambiato molto, ero sicuro che non potesse bastare così poco a fargli dimenticare il suo ex, che era diventato tale contro la sua volontà. Quindi, forse, anche se tra di noi fosse nato qualcosa, ero praticamente certo che avrei dovuto fare i conti con Oliver. Lui forse avrebbe potuto prendersi una semplice sbandata per me, fatto che non consideravo così improbabile, ma non più di questo. Se un giorno gli avessi chiesto di scegliere, avrebbe scelto Oliver, ne ero certo.

          Alzai gli occhi verso la fontana e - parli del diavolo - lo vidi arrivare verso di me. Anche lui era in anticipo, ma non mi meravigliò. Era preciso, inquadrato e con la testa sulle spalle, proprio ciò di cui avrei avuto bisogno in quel momento. Se non ci fossero stati Steve e Oliver di mezzo, forse un tentativo l’avrei fatto; avrei provato a sondare il terreno e probabilmente avrei osato di più di un bacio per gioco, quello che gli avevo dato per sbarazzarci delle due ragazze. Non ne avevamo mai più riparlato, ma non ne era rimasto così turbato come avrei potuto pensare.

          Mi alzai dai gradini e cominciai a scenderli e, quando lo vidi, mi limitai a salutarlo. Non eravamo abbastanza intimi per un abbraccio tra amici, ma nemmeno così sconosciuti per darci un bacetto formale o una stretta di mano.

«Ciao. È da molto che aspetti?»

«Ma no, non preoccuparti.»

Seguì un momento di silenzio, dove ci guardammo negli occhi, con quel pizzico di imbarazzo che striscia tra due persone che avevano il nostro stesso livello di intimità. Lui sorrideva ogni tanto, poi si perdeva a fissare il bar con occhi vacui; furono una manciata di secondi, niente di più, ma mi sembrava strano.

«Andiamo a prenderci qualcosa?», provai a dire, e lui mi rispose con un cenno del capo.

Ci incamminammo verso il bancone, ma Alan sembrava distante e cominciai a ipotizzare che fosse un filo imbarazzato. Forse aveva frainteso il mio invito e non capiva come comportarsi; comunque stessero le cose eravamo soli io e lui, come era successo già altre volte, ma c’era qualcosa di diverso nell’aria.

«Dammi qualcosa di leggero, vai.»

Il barista gli domandò se preferisse un cocktail secco o fruttato, e Alan optò per la seconda scelta. Io feci altrettanto.

Pagai per entrambi e ci allontanammo coi nostri drink in mano, poi prendemmo posto in uno dei tavolini liberi.

Lui, ancora, non diceva niente. Per la verità non sembrava neanche infastidito dal nostro silenzio; forse era perso in qualche suo pensiero, che immaginai riguardasse Steve, o i sensi di colpa nei confronti di Oliver per via di Steve. In ogni caso sembrava che io ai suoi occhi non esistessi, e mi sentii bruciare il petto perché non alzava gli occhi nemmeno in quel momento, che lo stavo fissando con insistenza.

«Va tutto bene?»

Fu solo in quell’istante che staccò i pensieri dal conflitto tra Steve e Oliver e alzò gli occhi verso di me, per poi rivolgermi un timido sorriso.

«Sì, scusa. È stata una settimana molto impegnativa a lavoro, tutto qua.»

«Be’, credo che per te sia impossibile staccare davvero, col lavoro che fai.»

Lui annuì e io mi presi un sorso della bibita che avevo ordinato.

«È così, infatti.»

Si capiva che voleva dire altro, ma si limitò a scuotere il capo di fronte a un interlocutore immaginario, col quale aveva terminato la frase. Chissà, forse immaginava di dirlo a Steve - o a Oliver -, ma questo non cambiava il fatto che quella sera con me sembrava distante. Mi domandai se non volesse tornarsene a casa e per un attimo fui tentato dal chiederglielo.

«Ah! Come procedono le indagini per i volantini? Avete scoperto qualcosa?»

Alan sospirò e incrociò le mani sul tavolo.

«Diciamo che le indagini procedono.»

Non disse altro. Non era un tipo logorroico, ma capii che aveva la testa completamente da un’altra parte. Alzai gli occhi alle coppie sedute agli altri tavolini e invidiai la loro complicità e il semplice piacere del gustarsi la compagnia dell’altro. Ridevano e scherzavano come se si conoscessero da una vita; pure la coppia al primo appuntamento sembrava più affiatata di noi. Cominciai a pensare di aver sbagliato a fargli quell’invito, dove volevo solo chiedergli scusa e forse parlargli dei miei problemi, ma era ormai evidente che forse avevo frainteso le sue premure e le attenzioni che aveva per me. In quel momento, capii che lui semplicemente era fatto così, che Oliver avrebbe sempre occupato un posto nel suo cuore e che, oltre a lui, adesso c’era pure Steve.

Fissai la bibita davanti a me sul tavolo, e desiderai quasi essere in un altro luogo, da solo.

Alan sospirò.

«Scusa. Non sono una grande compagnia stasera, vero?»

Io feci spallucce.

«Non tanto.»

«Mi dispiace. Scusa.»

Alzai gli occhi giusto in tempo per vedergli spuntare un sorriso, forse sincero, forse di circostanza. Lui batté la punta delle dita sul mio bicchiere e, come lo guardai negli occhi, capii che dispiaciuto lo era davvero e che quello era un disperato tentativo di farsi scusare.

«Perdonami, davvero. Ho tanti pensieri per la testa e delle decisioni da prendere e non so bene cosa sia la cosa più giusta da fare.»

«Non ti preoccupare.»

«Invece mi preoccupo eccome. Non voglio vederti così giù di corda, né esserne la causa.»

E io continuavo a stupirmi del perché mi piacesse un tipo come lui. Aveva la straordinaria capacità di farti pensare di essere importante, come se la sua felicità non potesse che dipendere dalla tua, e io per un attimo ci credetti anche. Poi guardai in faccia la realtà: lui era gentile con me così come lo era con Steve e come lo era stato con Oliver; ma sarebbe stato premuroso anche con la nonnina che non ce la fa ad attraversare la strada, e si sarebbe offerto di prenderle le buste della spesa e portarle a casa al posto suo.

La verità era che Alan era un angelo, più o meno tormentato, ma pur sempre un angelo. Io invece ero un miserabile umano, incasinato fino al midollo con la vita di tutti i giorni e in cerca di una visione di insieme che non potevo avere dal basso della mia posizione; ma se per un attimo, anche solo per un attimo, Alan fosse diventato un comune mortale, come tutti, forse mi sarei fatto avanti. Forse gli avrei chiesto un bacio e forse gli avrei detto che quell’uscita sembrava tanto un appuntamento e che a me non dispiaceva affatto. Poi però tornavo con i piedi per terra, perché mi accorgevo che il ramo di quell’albero, quello su cui mi ero accoccolato per guardare il mondo dall’alto, era troppo fragile per sopportare il mio peso senza rompersi; e così si spezzava, e io sbattevo la testa e mi ricordavo che il massimo che potevo meritarmi erano Harvey, mio padre e pure mia madre.

«Grazie.»

Finalmente, trovai la voglia di assaggiare il mio drink fruttato. Sapeva di pesca e non era affatto male. Buttai un’occhiata alla coppietta che sedeva accanto a noi e pensai che forse le cose non stavano andando così male. Sorrisi.

«Immagino che tu mi abbia chiesto di vederci per un motivo, scuse a parte.»

Io sbuffai, ma non ero davvero scocciato.

«Non ti si può proprio nascondere niente, vero?»

Entrambi ridemmo e capii che lui finalmente era lì con me. Lo guardai e mi sentii invaso da un senso di pace mai provato; i miei problemi non mi parvero più così insormontabili e mi sembrava quasi di poter affrontare ogni difficoltà, perché accanto a me c’era lui.

Be’, se si escludevano Oliver e Steve, ovviamente.

«Sì, in realtà ti ho chiesto di vederci perché avevo bisogno di un amico con cui parlare.»

Ricordai quella sera in cui si era offerto di portare un po’ del mio peso e io avevo accettato quasi con riluttanza.

Lui finì il suo sorso di drink e mi sorrise.

«Ti ascolto. Dimmi tutto.»

Lo osservai mentre il suo sguardo veniva catturato da una foglia sospinta dal vento. Aveva uno sguardo maturo ma allo stesso tempo innocente, molto diverso da quelli che avevo conosciuto fino a quel momento, sempre impregnati di malizia o malignità. Avevo imparato a guardarmi le spalle da tutti, ma con lui avevo dovuto rimettere in discussione ogni cosa.

«Vabbè, forse te ne avevo già parlato, più o meno. Si tratta di mio padre.»

Alan annuì. Aveva incrociato le mani sul tavolo, come quando ero andato a fare la denuncia. Immaginai che quella fosse la posa che assumeva quando era concentrato ad ascoltarti.

«Mi ricordo qualcosa, sì.»

«Ecco. L’altra sera sono andato a casa dei miei per mandarli a fanculo. Solo che non so cosa sia successo e sono loro che hanno mandato a fanculo me.»

Parlare rendeva tutto più reale. Non sapevo bene perché mi stessi confidando con Alan, che in fin dei conti non poteva fare niente per cambiare la situazione. Poi ripensai allo sguardo di mia madre e desiderai poter tornare indietro. Mi sentii nuovamente orfano e Alan, per quanto fosse caro nei miei confronti, non avrebbe mai potuto provare per me amore incondizionato, non avrebbe mai potuto perdonare ogni mio sbaglio. Non c’era più nessuno disposto a farlo, e mi sentii improvvisamente solo.

«Nathan? Tutto bene?»

«Sì, scusami. Mio padre è stato zitto tutto il tempo. Ti rendi conto? Non ha detto niente. Se ne stava a braccia incrociate, mentre mia madre mi diceva praticamente che non ero più suo figlio.»

«Ma dai, sono sicuro che non lo pensava veramente. Forse l’ha detto in un momento di rabbia.»

Mi uscì un sorriso amaro.

«Se tu fossi stato lì, la penseresti come me.»

Nessun abbraccio mi avrebbe convinto del contrario. Nessuna parola di conforto sarebbe riuscita a dare vita all’aridità che sentivo intorno. Mettendomi al mondo, i miei genitori avevano scommesso su di me, ma avevano perso tutto.

Alan spostò la sedia per avvicinarsi a me. In un raptus di egoismo, desiderai che Oliver non fosse mai esistito e avrei volentieri cancellato Steve dalla faccia della Terra.

«Hai provato a chiederle scusa?»

«Non funzionerebbe, davvero.»

Che cosa avrei dato per avere un pizzico del suo affetto? Che cosa avrei dato perché quegli occhi non avessero smesso mai di guardarmi in quel modo? Una volta tornati a casa ognuno sarebbe tornato alla propria vita, e i miei problemi, per lui, sarebbero stati solo un ricordo lontano. La verità era che nessuno poteva farsi carico di quello che portavo in spalla, nemmeno se lo avesse voluto.

La mano di Alan cominciò ad accarezzarmi il braccio, in segno di conforto.

A vederlo si sarebbe detto un gesto intimo; tuttavia, tra me e il mondo c’era una barriera, una bolla di gelida solitudine che nessuno, se non io, sarebbe stato in grado di rompere. Un brivido mi percorse tutto il corpo, mentre osservavo l’immagine oblunga proiettata sull’asfalto dal lampione.

Ancora una volta, era l’ombra dei miei sbagli.

«Nathan, non ti abbattere. Lei è tua madre, non può mandarti via così.»

«Mio padre l’ha fatto.»

Lui non trovò nessuna frase per ribattere. Mi sentii quasi un verme per averlo ghiacciato così, per avergli fatto capire che il suo conforto non avrebbe cambiato un bel niente. Sembrava ferito e amareggiato all’idea di non potermi aiutare, lui che ci stava provando in tutti i modi.

«Grazie per essere il mio supereroe, Alan, ma ci sono delle cose che non si possono aggiustare. Ti ringrazio lo stesso per averci provato.»

Lui ridacchiò alla mia battuta e desiderai averlo accanto a me più di ogni altra cosa. Lo vidi perdersi con lo sguardo dentro il bicchiere, mentre quel sorriso continuava a rimanergli sul viso.

«A che pensi?»

Alan incrociò ancora le mani, ma stavolta guardava il cielo, a caccia di qualche ricordo.

«È la stessa cosa che mi diceva mia madre da piccolo: “Non puoi pensare di aggiustare tutto”.»

Pensare ad Alan da piccolo mi intenerì talmente tanto che scoppiai a ridere, e lui con me. Era un’immagine tenera, che mi ricordava la mia, di infanzia, i momenti felici e tutti i baci e gli abbracci che i miei genitori mi riservavano. Non ci sarebbe stato più niente del genere e dovevo imparare a camminare sui cocci rotti della mia vita.

«Già da bambino volevi portare ordine nella vita delle persone, insomma.»

«Sì, ma, come dici tu, mi mancano i superpoteri.»

Eppure io stavo sorridendo. Quel suo tono confidenziale e caldo mi fece sentire come avvolto in una patina protettiva, cullato.

«Mh. Forse.»

Cominciai a giocherellare con un angolo della tovaglietta di carta. Ne strappai una parte e la schiacciai, fino a farne una pallina. Poi continuai a schiacciarla sempre più.

Un’altra pallina, uguale alla mia, mi finì tra le gambe. Alzai gli occhi e li abbassai sulla sua tovaglietta, alla quale mancava un angolo, come alla mia.

Gli lanciai la mia pallina addosso e lo colpii in pieno. Lui mi sorrise e lo sguardo che ci scambiammo fu più confortevole di qualunque abbraccio. Poi piegò la schiena in avanti e poggiò i gomiti sul tavolo, avvicinandosi a me ancora di più.

Lo scrutai con la coda dell’occhio e mi domandai cosa potessi fare per essere oggetto delle sue attenzioni. Era la prima volta che desideravo così tanto essere notato da qualcuno. Avevo avuto decine di ragazzi ai miei piedi, tutte persone che non avrei degnato neanche di uno sguardo; e poi era arrivato lui, chiuso e silenzioso, che aveva il cuore più grande di tutti gli altri organi - mica come quelli là - e un trauma enorme che gli impediva di vivere a pieno la sua vita. Chi l’avrebbe mai detto che uno così mi avrebbe sedotto?

 E invece era successo, e io stavo lì, a ripensare alla folle idea di cui mi aveva parlato Nelly, quell’idea a cui avevo ripensato, in quei giorni. Se avessi detto ad Alan di una mia ipotetica partenza, come avrebbe reagito? Eppure, forse non era più tempo di aspettare; era giunto il momento di tastare il terreno.

«C’è un’altra cosa che ti vorrei dire, Alan.»

Lui annuì.

«Ti ascolto.»

Feci un bel respiro. Da una parte pensai che, se la notizia non gli avesse fatto né caldo né freddo, forse me ne sarei andato davvero. Cominciai realmente a credere che era meglio essere trapiantati altrove che vivere con delle radici strappate. Se quella serata non fosse andata come volevo, forse era il caso di pensarci davvero.

Lasciare tutto, andare via.

Un altro sospiro secco.

«Mollo il seminario. Tornerò per l’inizio delle lezioni, se mi andrà.»

«Che stai dicendo?»

Feci spallucce. Notai la preoccupazione sul suo viso, che partiva da quelle sopracciglia corrugate e poi si espandeva su ogni ruga d’espressione disegnata sulla fronte. Pensai che Oliver era un avversario imbattibile, ma che Steve potevo ancora metterlo fuori gioco.

Se solo avessi osato un po’...

«Mi sono iscritto a questa università solo per mio padre. Lui è architetto, sai? Poi, vabbè, si è ritrovato a fare tutt’altro, ma lui sa quanto sia dura questa facoltà e io volevo colpirlo. Lo so, è una cretinata, non c’è bisogno che mi guardi così.»

«Non ti sto guardando “così”. In parte lo avevo immaginato.»

«Già, giusto. Avrei dovuto capirlo.»

Gli rivolsi un’occhiata complice e lui ricambiò. In quel momento, mi illusi di piacergli, anche solo un pochino. Cosa avrei potuto fare?

«Non so se sia la scelta giusta, mollare tutto adesso. Ora che hai cominciato, forse ti converrebbe arrivare in fondo, a meno che tu non sia fortemente convinto di voler fare altro.»

Mi scappò un risolino.

«In realtà, tutto quello che vorrei fare adesso è prendere e andarmene via, lontano. Mi piacerebbe trasferirmi da qualche parte, magari sull’altra costa e mandare a fanculo tutti i problemi che ho qui.»

Alan bevve un sorso del suo cocktail e pensò un attimo.

«Non lo so, sai. Anche io sono scappato nella mia vita, ma non ho risolto un bel niente. Credevo che attraversare un oceano fosse sufficiente per liberarmi di Brighton, e invece mi sono ritrovato qui con la stessa diffidenza. Poi, certo, New York è certamente più cosmopolita, ma sono stato stupido a pensare che qui fosse diverso.»

Ascoltavo ogni sua parola con quella fiducia che solo un amico può dare. Era la prima volta che provavo quella sensazione, quella di essere capito e sentire dei consigli dati solo per il mio bene, senza un secondo fine. Lui parlava del suo passato e la mia testa non osava contraddirlo. Alan continuò e io ripresi ad ascoltarlo composto, quasi affascinato.

«Poi, be’, so già che non mi darai retta e che preferirai sbatterci contro da solo. Hai la testa piena di sogni, tu, e figuriamoci se ti fai frenare da me. Poi, comunque, potresti sempre prenderti un mese di pausa, magari in coincidenza con qualche festività.»

«A dire il vero...», e me lo lasciai scappar detto, col cuore che mi batteva a mille, «… non pensavo di tornare. Cioè, non lo so. È una cosa che ho buttato lì, non ci ho ancora pensato seriamente.»

Il volto di Alan non tradì alcuna emozione, ma non riuscii a capire perché. Mi fissava ed emetteva grossi sospiri, ma non proferì parola per almeno cinque o sei secondi. Ogni battito del mio cuore mi convinse sempre del più del fatto che non fosse stata una buona idea.

«Ah. Be’, allora è una cosa diversa. Molto diversa, sì. E quando vorresti partire?»

«Non so, pensavo dopo la fine dell’indagine. Per ora non posso allontanarmi, giusto?»

Alan annuì. Si mise a fissare il suo cocktail e mi sembrò di sentirlo nuovamente distante. Tirò fuori la cannuccia e la aspirò dal fondo, poi la rimise dentro il bicchiere.

«Comunque non è una cosa definitiva, eh. Ci sto solo pensando. Magari faccio tutti questi discorsi e poi torno dopo un mese perché scopro che la spiaggia non mi piace e che gli affitti non sono poi così a buon mercato. Ho solo bisogno di prendere un po’ d’aria, capisci? A meno che non abbia una buona ragione per restare, s’intende.»

Aspettai una sua reazione, ma non arrivò. Si limitò a fare un cenno d’assenso con le sopracciglia, ma non disse altro.

La mia buona ragione saresti tu, avrei voluto dirgli, ma non aveva senso forzare le cose. Alan avrebbe preferito buttare tutto all’aria piuttosto che stravolgere il suo delicato equilibrio.

«Guarda che mi mancheresti, eh!»

Si sforzò di sorridere, ma non gli veniva bene. Avevo combinato l’ennesimo casino, dandogli la notizia in modo così brutale. Io per lui sarei rimasto, ma dopo quanto tempo me ne sarei pentito?

«Anche tu mi mancheresti.»

Forse avevo osato troppo poco. Dovevo cercare di sondare il terreno, per capire se avevo anche solo la minima speranza. Poi avrei dovuto convincerlo che ne sarebbe valsa la pena, ma quello era un altro discorso.

«Ah, se ti sentisse Steve…!»

Lui aggrottò le sopracciglia per un attimo.

«Che c’entra?»

In quell’istante, provai quel guizzo di speranza, quello di quando speri che le cose siano esattamente in un certo modo, ma il momento dopo capisci che è impossibile; poi però ci rimugini e ti dici che forse sì, quella speranza non è frutto della pazzia…

«Non uscite insieme?»

«Chi ti ha messo in testa un’idea simile?»

… e poi quella speranza germoglia e diventa certezza, il mondo si spalanca davanti a te e ti senti come se tu avessi vissuto in una bolla d’ansia per tutto quel tempo. La realtà appare finalmente bella, ogni giornata ha il suo sole e tu il tuo sorriso perenne.

«Be’, Steve mi ha fatto vedere un messaggio dove diceva che si sarebbe incontrato con te, e quindi...»

Alan si strusciò le mani sul viso.

«Ah, quello! Ma figurati, mi aveva solo scritto per chiedermi se poteva venire in centrale a denunciare il furto del suo portafogli. Che poi, tra l’altro, non è mai venuto.»

Rimandai indietro il nastro almeno una decina di volte. Alan e Steve non uscivano insieme. Quel piccolo bastardo aveva approfittato di un messaggio scritto ad hoc per farmi credere di avere una sorta di relazione con Alan!

Mi sentii più leggero, più carico.

Potevo osare, o forse dovevo. Ma come?

«In effetti, mi pareva strano che a un tipo come te potesse interessare uno come Steve, ma non si sa mai.»

Entrambi scoppiammo a ridere e per un attimo dimenticai la faccia tetra che aveva avuto quando gli avevo annunciato la mia intenzione di partire. Già mi immaginavo sulle spiagge della California, a servire cocktail ai bagnanti, mentre mi godevo il sole di fine estate, ma senza rendermi davvero conto che sarei stato solo. Solo, senza Alan… Dovevo capire cos’era più importante, tra tentare di averlo al mio fianco e sopportare quella città che troppo mi ricordava i miei problemi. In California non avrei avuto nessun professore stronzo, nessun esame di materie plastiche e nessuna famiglia a cui rendere conto. Ci saremmo stati solo io e il bar, e forse qualche bel ragazzo di passaggio.

«Ah! Ti ho portato una cosa.»

Si sollevò appena dalla sedia e infilò la mano nella tasca posteriore, per poi estrarne una forma fin troppo conosciuta. Alan mi porse un pacchetto di sigarette che aveva solo due Marlboro.

«Ricordi la sera in cui te le ho sequestrate? Poi sono rimaste a casa mia e ho pensato di portartele. Sia mai che ti prenda una crisi di astinenza improvvisa.»

Gli feci una linguaccia di rimando.

«Spiritoso.»

Osservai quelle due sigarette e pensai che, in fondo, somigliavano a me e lui. Due persone così diverse, ma in fondo così uguali, che si incontrano per caso e cominciano a condividere un pezzo della loro vita. Proprio come due Marlboro, finite nello stesso pacchetto per una semplice casualità e destinate a stare per sempre insieme, a meno che qualcuno non le avesse tirate via di lì.

«Ti va di fare due passi?»

Osservai le nuvole minacciose sopra le nostre teste, ma accettai entusiasta.

Ci alzammo da lì e cominciammo a camminare vicini, lui con la testa tra le nuvole e io che non riuscivo a smettere di osservarlo.

 

Ci inoltrammo verso una stradina acciottolata, costeggiata da siepi e, dietro queste, imponenti querce a farla da padrona. Il vialetto del parco era tranquillo e isolato, l’aria riempita solo dal rumore delle nostre scarpe sui ciottoli o dei sassolini che rotolavano, sospinti da un calcio involontario. Si sentiva il rumore della brezza, che ci accarezzava per poi passare oltre, e ogni tanto si sentiva anche il ruggito delle nuvole, che preannunciavano pioggia.

«Hai l’ombrello?», mi chiese lui.

«Macché, l’ho lasciato a casa. Tu ce l’hai?»

Alan scosse il capo.

Una goccia mi picchiò sul viso, per poi rigarlo fino al mento. Un’altra goccia si aggiunse alla prima, poi una seconda, fino a che cominciai a perdere il conto.

Alan alzò gli occhi al cielo.

«Ecco, lo sapevo. Perché non ci ripariamo sotto a un albero? Magari smette tra poco.»

Incrociai le braccia davanti a lui e assunsi una finta aria da professore.

«Non sai che è pericoloso stare sotto a un albero durante un temporale?»

«Bah, chiamalo temporale. Sono due gocce!»

Gli feci un’altra smorfia, ma lui non perse tempo e mi spinse verso un buco presente nella siepe. Camminammo sull’erba e lui mi accompagnò sotto l’albero con una mano dietro la schiena.

«Almeno qui saremo riparati. Aspettiamo un po’ e vediamo se aumenta.»

«Non sarebbe meglio andare a casa?», domandai.

Alan cominciò a fissare le gocce che cadevano e che, a poco a poco, bagnavano il vialetto. Sorrise e lasciò che il suo sguardo cadesse nel vuoto per un attimo, poi si voltò verso di me.

«Be’, mi pare di capire che non avremo molte altre occasioni per stare insieme, no?»

Fino a quel momento, ero abbastanza convinto che nella parte sinistra del mio petto battesse un cuore pulsante; bastò quella frase a stroncarlo, a fargli perdere un battito o forse due, prima di ridursi in mille pezzi.

Lui tornò a tenere gli occhi sulle gocce e io mi sentii morire. Ero stato stupido a parlargli di quella che era solo un’idea e cominciai a domandarmi perché l’avesse presa così tanto sul serio. C’era qualcosa, nel suo ragionamento, che mi sfuggiva.

Nessuno dei due disse niente. Lasciammo che il picchiettio della pioggia sull’erba riempisse il nostro silenzio. Poi, dal nulla, Alan parlò.

«Sono felice di averti conosciuto, Nathan.»

«Guarda che non parto mica domani! Non preoccuparti.»

Nel buio di quella serata, intravidi un sorriso tirato, come quello che mi aveva rivolto quando gli avevo detto della mia probabile partenza.

«Hai ragione. Ma non tutti i momenti sono adatti per dire una cosa come questa, e volevo essere sicuro che tu lo sapessi.»

Non seppi cosa dire. Non volevo rimanere in silenzio, ma non trovavo nemmeno le parole. Mi avvicinai a lui, abbastanza per notare come muoveva impercettibilmente le labbra. Le stringeva appena e, in quei momenti, abbassava lo sguardo. Poi le rilasciava e tirava il sorriso.

Alla fine, si voltò verso di me. Lessi tanta malinconia nei suoi occhi, forse certo che non mi avrebbe più rivisto per tutta la vita. Io non ero veramente sicuro di volermene andare, era più un’idea che mi frullava nella testa piuttosto che una reale intenzione, ma lui sembrava non capirlo.

Cinsi il suo corpo con le mie braccia e lui, rigido in un primo momento, poi si lasciò andare e ricambiò il mio abbraccio. Mi avvolse completamente nella sua stretta, sempre più forte, ed eravamo così vicini che potevo sentire i suoi sospiri e il suo petto ingrossarsi e abbassarsi.

Una goccia mi cadde sulla testa e sobbalzai appena, ma lui mi teneva così stretto a sé che a malapena riuscii a muovermi.

All’improvviso schiuse le labbra e pensai che volesse dirmi qualcosa. E non una cosa qualunque, ma quella cosa, il mio motivo per restare senza se e senza ma. Il cuore prese a martellare più forte, in attesa di sentirsi dire quelle parole, e il battito accelerò quando lo sentii schiudere le labbra un’altra volta, come a voler cercare il coraggio che non aveva avuto un attimo prima. Chiusi gli occhi e aspettai, aspettai che la voce gli uscisse fuori e che mi parlasse, aspettai che mi rendesse felice e che mi dicesse che qualcosa per me lo provava…

… I secondi passavano e ogni attimo diminuiva la speranza e cresceva la consapevolezza. Passarono ancora altri secondi di silenzio e dalla sua bocca non uscì niente, nemmeno il rumore delle sue labbra che si aprivano per dire qualcosa. Divenne muto e io sempre più conscio che, anche quella volta, mi ero illuso.

Sciolsi l’abbraccio con una punta di delusione, ma non potevo biasimarlo. Lui non era pronto, ma lo sarebbe mai stato? E avrebbe voluto ricominciare proprio con me?

Ma per quante domande io potessi farmi in quel momento, la verità era una sola: io non gli interessavo. Se anche così non fosse stato, era troppo spaventato per ammetterlo.

Lui era la mia ragione, ma io non ero la sua.

Custodii ciò che mi aveva detto poco prima e chiusi quelle parole sottochiave, in qualche zona di me stesso. Non ci volevo più pensare. Arriva sempre il momento di rinunciare e io avevo trovato il mio. I suoi occhi mi fissavano, sì, ma erano gli occhi di un amico. Non mi avrebbe mai guardato diversamente.

«Anche io sono felice di averti conosciuto.»

Alan mi sorrise.

«Puoi fumarti una sigaretta, se vuoi. Non mi dà fastidio.»

«Ma qui si può?»

Lui fece spallucce.

«Non c’è nessuno qui intorno e io farò finta di non aver visto niente.»

Quella frase mi scatenò una risata. Sembrava quasi che volesse compiacermi, forse perché pensava che sarebbe stata una delle ultime volte. Tornai a guardare il cielo buio e grigio davanti a me, poi pensai alle due Marlboro e capii che no, non potevo fumarmene una.

Sarebbe stata la sigaretta più solitaria di tutta la mia vita.

 

Dopo poco smise di piovere. Mi sembrò quasi che quelle gocce fossero state un’opportunità dal cielo, che aveva voluto darci l’occasione di stare davvero insieme, da soli. Mi domandai cosa sarebbe accaduto se non avessi messo in testa ad Alan l’idea della partenza, sotto quell’albero che ci aveva posto al riparo da occhi indiscreti. Forse avremmo riso e scherzato, o forse non ci saremmo neanche andati e avremmo preferito tornarcene ognuno a casa propria. Immaginai che non l’avrei mai saputo e forse era meglio così.

Camminavamo sopra l’asfalto bagnato, con le macchine che ci sfrecciavano accanto, in quella che era la città che non dorme mai.

C’era troppo silenzio, tra noi. E, in un certo senso, cominciai a pensare che ci fossero anche tante cose non dette.

«Alan.»

«Mh?»

«Guarda che non è mica detto che parta. È solo una cosa che ho pensato, come ti dicevo. Non c’è niente di definito, ecco.»

«Lo so.»

Lo sapeva, certo. Eppure continuava a comportarsi in quel modo che non capivo.

Mentre camminavamo, con i nostri piedi che scalpicciavano sull’asfalto bagnato, cominciai a pensare anch’io che quella potesse essere una delle ultime volte che facevamo una cosa del genere. Io e Alan avevamo condiviso tanti bei momenti, molti dei quali a ripensarci mi erano sembrati molto più simili a un sogno, per quanto erano stati magici; lui con me si era aperto e lo stesso avevo fatto io, e a volte avevo pensato che sarebbe bastato uno sguardo per capire cosa frullasse nella testa dell’altro.

Così alzai gli occhi su di lui, che camminava con le mani in tasca e - solo in quel momento lo notai - le maniche risvoltate a scoprirgli un po’ di pelle. Teneva lo sguardo fisso davanti a sé e aveva un’espressione ferma, che nel suo caso nascondeva la bufera che gli si agitava dentro.

Allungai una mano verso di lui e la richiusi sulla pelle scoperta dalle maniche. Lui si fermò e si voltò verso di me, negli occhi una punta di sorpresa. La sua pelle era fresca.

Mi bastò guardarlo per notare l’infinità delle parole che ci scorrevano davanti agli occhi, ma che non avevamo il coraggio di afferrare e di dirci. Mi avvicinai a lui, senza staccare il mio sguardo dal suo, e lo fissai con un’intensità pari alle parole che volevo dirgli. Le sue pupille scorrevano veloci sui miei occhi e le sue labbra si stringevano sempre più frequentemente. Il suo profilo era rischiarato dalla luce del lampione dall’altro lato della strada e dai fari delle macchine che ci passavano accanto.

Quella fu la seconda occasione in cui pensavo che sarebbe successo. A separarci era solo la probabilità che non ci saremmo più rivisti, ma non c’era nient’altro che avrebbe potuto dividere le nostre labbra. Io forse l’avrei fatto, lo avrei baciato, ma cosa sarebbe rimasto di noi, dopo? Se mi avesse rifiutato, con che coraggio avrei potuto guardarlo ancora negli occhi? Eppure quel suo sguardo arreso, quasi sfinito dalla battaglia che combatteva ogni giorno, mi suggerì quasi che potevo provare.

C’erano tante cose che avrei voluto dirgli: che per lui sarei rimasto, che doveva darmi una possibilità e che morivo dalla voglia di baciarlo da almeno un paio di settimane. Se prima era stato solo uno sfizio che volevo togliermi, in quel momento era quasi una necessità.

Tuttavia, sapevo che c’era qualcosa di sbagliato. La notizia della mia probabile partenza lo aveva sconvolto ed ebbi quasi il sentore che, anche se fossi rimasto, lui avrebbe continuato a tenermi ai margini della sua vita. Se la sua fosse una scusa o meno, forse non l’avrei mai scoperto.

Guardai ancora i suoi occhi tremare, la sua bocca stringersi con l’incertezza di non dire la cosa giusta; ma fu proprio in quell’istante che capii che lui non l’avrebbe mai fatto. Era troppo spaventato per riprendersi in mano la sua vita, stravolgerla e mettere da parte Oliver. Io per lui ero qualcosa, ma non ero abbastanza.

Forse l’avrei rimpianta come la più grande occasione persa della mia vita, ma andava bene così. Tirai un sorriso, ma lui non fece altrettanto; deglutì come se avesse avuto un macigno in gola e distolse un attimo lo sguardo da me, per poi tornare a guardarmi l’istante dopo. Era tutto ciò che sapeva fare: piantare i suoi occhi nei miei e scusarsi, facendo uscire le parole dalla sua testa e sperando che io le catturassi.

Sospirò, poi si girò e riprese a camminare. Si fermò dopo pochi passi per voltarsi indietro, e mi fece cenno di seguirlo. Io non me lo feci ripetere due volte e cominciai a camminare dietro di lui, mentre la pioggia riprese a picchiettare sopra le nostre teste, un po’ più forte di prima.

Davanti a noi spuntò un gruppo di ragazzi.

Alan alzò la testa e un attimo dopo spuntarono un paio di mazze. Io mi fermai, ma Alan mi precedette e si mise davanti a me, come scudo. Spostai lo sguardo da lui a quei ragazzi e cominciai ad avere paura, quando uno di loro cominciò a battere la mazza sul palmo della mano.

«Bene, bene, ma chi abbiamo qui?»

A parlare era stato il ragazzo al centro, a cui avrei dato sì e no una ventina d’anni e che sembrava il capo del gruppetto. Loro erano in sei. Noi in due.

Quei tipi cominciarono a sghignazzare e vennero avanti.

Uno di loro sferrò un gancio ad Alan, che schivò e rese il favore, affondando il colpo. Un altro si avvicinò dietro di lui.

«Attento!»

Un paio di braccia mi afferrarono senza che avessi nemmeno il tempo di vederlo; due ragazzi immobilizzarono Alan e lo stesso fecero con me. Lui gridava e cercava di liberarsi tirando calci, ma veniva prontamente punito.

Gli altri due ragazzi erano di fronte a me. La mazza era davanti ai miei occhi. Le braccia di quegli energumeni stringevano troppo perché io potessi fare qualcosa. Cercavo di divincolarmi, ma cavolo se erano forti! Il cuore voleva uscirmi dal petto, guardai Alan e nei suoi occhi lessi il terrore. Non stava succedendo davvero. Non aveva alcun senso. Che cosa mi avrebbero fatto? E cosa sarebbe successo ad Alan? Tentai ancora di liberarmi da quella presa con le lacrime agli occhi. Poi uno dei due ragazzi si avvicinò, con un ghigno, e mi piantò un calcio nello stomaco.

Sputai saliva. Il fiato mi si spezzò e il dolore tentò di piegarmi in due.

«Che femminuccia!»

Un altro calcio. Bocca spalancata. La saliva che mi colava. Io, tenuto immobile da quei due.

Poi, mi lasciarono. Portai le mani sull’addome, ma non provai sollievo.

Un destro mi fece volare sull’asfalto, faccia a terra; il naso faceva male e provai a toccarlo. Un calcio allo stomaco e quasi non respirai; ne arrivò un altro sull’altro fianco e urlai.

Alzai gli occhi per guardarli in faccia, ma il terrore mi gelò il sangue quando la mazza si alzò. Si abbassò sulla mia schiena.

Crac, e il mondo divenne opaco.

«Lasciatelo stare!»

Calci, ancora. Tanti, insieme, le grida di Alan in sottofondo, le lacrime sul viso e la terra che mangiavo. Le gambe che tentavano di sollevarmi, ma ero sempre lì, senza fiato, a osservare il buio, un lampione e le lacrime.

I piedi di Alan si dimenavano, ed erano così rossi, e un altro calcio, e il dolore mi stava mangiando, - BASTA! - e le risate di quelli là, e la saliva che mi colava, e nessuno che si fosse fermato ad aiutare, e ancora un calcio, e le grida di Alan, e la paura che non ne sarei uscito vivo, - BASTA! - e la mazza che si abbatteva ancora su di me, e mi spezzava in due e...

 

 

 

Angolo autrice

Salve a tutti!

Eh, ve l’avevo detto che saremmo precipitati nell’angst, scusate! +scansa i pomodori+ <.<

Quindi insomma, un’altra occasione mancata per i nostri due protagonisti e un epilogo che ci lascia con tante domande sulla sorte di Nathan.

Ma almeno una buona notizia c’è: ho scritto infatti già dieci pagine del capitolo 31! Mi sono data fino al 10 febbraio per finirlo, fate il tifo per me, ce la posso fare (anche se Sanremo non aiuta, visto che scrivo principalmente la sera XD) :D

 

Giovedì prossimo scopriremo le sorti di Nathan… e anche quelle di Alan, visto che questo episodio romperà il suo già fragile equilibrio emotivo.

 

A presto,

holls

   
 
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