23.
Nuovo Nathan, vecchio Nathan
Mio
padre mi era sempre sembrato grande e grosso. Il suo peso era nella media, ma
io ero sempre stato così mingherlino che mi era parso un gigante per tutta la
mia infanzia e adolescenza. Nel corso degli anni ero cresciuto, anche in
altezza, ma lui aveva continuato a sembrarmi un gigante, che però di buono non
aveva niente. Per tutto quel tempo aveva solo saputo sbraitare e alzare le
mani, per poi guardarmi con quello sguardo colpevole, perché io gli avevo
rovinato la vita e aveva sempre dovuto sopportare il peso della mia esistenza.
In
quel momento, però, seduto su quella sedia troppo piccola per lui, riuscii a
vederlo per ciò che era. Mi resi conto, in tutte le volte che lo avevo
fronteggiato, che eravamo diventati alti uguali; lui rimaneva comunque un po’
più grosso di me, ma con un cuore piccolo piccolo, lo stesso che vedevo davanti
ai miei occhi, mentre se ne stava lì a guardare la stanza con uno strano
interesse.
Mi
fece un po’ pena. Aveva speso buona parte della sua esistenza a prendersela con
me, col figlio che non era quello che lui aveva desiderato, come del resto
avevo fatto io, perché non ero mai stato ciò che lui avrebbe voluto. Mi aveva
sputato addosso tanto di quel veleno che alla fine ci avevo fatto l’abitudine e
un po’ ero diventato velenoso anch’io, distaccato, e probabilmente era per
quello che nessuno aveva mai voluto rimanermi accanto. Io da quel veleno ero
stato infettato, e lo sputavo spesso con frecciatine infuocate e facendo capire
al poveretto di turno che il giorno prima poteva essere la persona più
importante su questo pianeta, per poi diventare una nullità il giorno dopo.
Esattamente come mio padre aveva fatto con me.
Io
un po’ gli somigliavo. Somigliavo a quell’uomo che ora mi guardava negli occhi,
con lo stesso tono di sfida che aveva avuto ogni volta, ma a me non importava
più. Avrebbe potuto dirmi le cose più disparate, offendermi, anche
pubblicamente, ma io non gli avrei dato peso. Non ero più sotto la sua tutela,
non dovevo più sottostare alle sue leggi. Aveva scelto di lasciarmi andare e
con quel gesto aveva anche rinunciato a educarmi e a impormi il suo modo di
pensare. Io in quel momento ero libero, di fare e sbagliare, e lui avrebbe
potuto criticarmi quanto voleva, ma non ero più sotto il suo controllo. In un
certo senso, mi sentivo quasi un nuovo Nathan.
Era
per quel motivo che non temevo niente di quello che avrebbe detto. Aspettavo
solo che aprisse bocca per parlare, ma mi resi conto che avevo aspettato fin
troppo tempo, con lui.
«Hai
intenzione di dire qualcosa, prima che il tempo finisca?»
La
sua espressione non cambiò minimamente. Non sapevo dire se fosse vuota o
indecifrabile. Strinse appena le labbra, ma fu l’unico movimento che gli uscì.
«Mi
ha chiamato l’ospedale.»
Il
vecchio Nathan gli avrebbe forse risposto stizzito, ma quella vita non mi
apparteneva più, perché avevo deciso di ricominciare. Se avessi smesso di
accogliere il suo veleno e la sua indifferenza, forse me ne sarei liberato
anch’io.
«Bene.»
«Mi
hanno detto che ti avevano conciato per le feste e sono venuto a vedere come
stavi.»
«Grazie.»
Il
vecchio Nathan avrebbe chiesto cosa aveva fatto per meritarsi una simile
attenzione, perché non aveva mandato la mamma. Poi mi ricordai del litigio e a
quell’ultima domanda trovai subito una risposta. Lo stomaco mi si strinse un
po’ e il cuore perse un battito. Sarebbe venuta a trovarmi, prima o poi? O aver
mandato mio padre era il segno che non avrebbe mai sotterrato l’ascia di
guerra?
No,
non poteva essere così. Non volevo crederlo.
Mio
padre era venuto di sua iniziativa, anche se non mi era ancora chiaro cosa lo
avesse spinto fino all’ospedale - ma in fondo tutto ciò che ruotava intorno a
lui era una questione che non mi riguardava più, no?
C’era
un pizzico di curiosità, ovviamente, ma era qualcosa che avrebbe provato il
vecchio Nathan, non io. E anche se la curiosità era forse più di un pizzico, io
non l’avrei chiesto. Mi ero liberato dalle sue catene e non ci sarei cascato
un’altra volta. Anzi, mi sarebbe bastato aspettare la fine delle indagini per
partire e ricominciare, lasciandomi dietro tutti quei casini, padre compreso.
Però…
«L’assicurazione
dovrebbe coprirti.»
Perché
lo aveva detto? Era forse un modo per dirmi che ci avrebbe pensato lui?
Impossibile, ma non gli avrei chiesto niente. Quella era una domanda da vecchio
Nathan, e io ero diverso. Ero cambiato, ormai.
Risposi
facendo spallucce.
«A
tua madre non ho detto nulla. Vuoi che lo faccia?»
Cos’era
quel tono paterno che usava con me? Che rabbia! Era stato una merda in tutti
quegli anni e in quel momento era così… così… padre! “Ho saputo che ti avevano
conciato bene e sono venuto.”, “Vuoi che lo dica a tua madre?”, “Ti bastano i
soldi dell’assicurazione? Sennò pago io”. Che andasse a farsi fottere! Cos’era
tutta quella preoccupazione? Cosa cavolo era?
«Fai
come ti pare! Non me ne importa niente.»
Ero
riuscito a contenermi solo un pochino. La fiammata si esaurì quasi subito,
anche perché sentii una fitta al torace che mi costrinse a tornare calmo. Perché
faceva così? Cosa voleva da me? Non si era mai comportato in quel modo da
quella famosa sera. Mai.
Mi
accorsi solo in quel momento di ciò che aveva detto su mia madre. Non sapeva
nulla. Percepii qualcosa di simile al sollievo perché aveva smentito le mie
congetture, ma fu seguito subito dopo da un pizzico di delusione, perché il
fatto che fosse all’oscuro di quanto mi era successo le avrebbe impedito,
nell’eventualità, di preoccuparsi per me.
Emisi
un sospiro strozzato. Preoccuparsi per me era qualcosa che non avrebbe più
fatto, giusto?
Strinsi
il lenzuolo e quella domanda mi sfrecciò ancora una volta per la mente. Una
domanda che avrei potuto fare a mio padre, perché era lì accanto a me, ma il
solo pensiero mi provocò disagio perché avrebbe significato cercare il suo
aiuto, il suo conforto, e non era qualcosa che il nuovo Nathan, la persona che
volevo diventare, avrebbe fatto. Se gli avessi mostrato il fianco lui ne
avrebbe approfittato, e io non potevo permettermi altre ferite di guerra.
Tra
me e mio padre, neanche a dirlo, era calato il silenzio. Io cominciai a fissare
la finestra e mi accorsi solo in quel momento che non lo avevo mai guardato
negli occhi. Da quando avevamo cominciato a parlare, avevo fissato solo il
lenzuolo che mi copriva e osservato i movimenti delle dita dei miei piedi che
si muovevano. Con la coda dell’occhio, avevo notato che lui non mi aveva
staccato gli occhi di dosso per un secondo.
«Non
credevo che ti saresti comportato così con tua madre.»
Lanciai
un’occhiata al televisore davanti a me. Era quello il massimo che sapevo fare?
Quella era una cosa che avrebbe fatto il vecchio Nathan… quello vecchio, non
io. Io lo avrei guardato negli occhi e avrei sostenuto quello che una volta era
stato mio padre.
Il
mio sguardo abbandonò la televisione per passare al mobiletto accanto, poi si
soffermò sugli strumenti medici posati lì sopra; passò poi ai piedi dell’altro
letto, seguì le forme del lenzuolo bianco del mio compagno di stanza, fino a
che non incrociò una fantasia a quadri rossa e blu: la sua camicia. In un unico
scatto, osservai mio padre con la stessa ferocia con cui sapevo che mi avrebbe
fissato anche lui; ma finì che io sembrai un leone e lui una timida gazzella.
Non c’era traccia di veleno nei suoi occhi, sicuramente non quanta ce n’era nei
miei.
Tornai
a fissarmi le mani, accoccolate sul grembo. Mio padre non era arrabbiato e
nemmeno inviperito. Sembrava quasi una persona normale. C’era una comprensione
che non avevo mai visto nel suo sguardo, da quella fatidica sera. C’era
qualcosa di strano, qualcosa che non mi tornava, e soprattutto che non riuscivo
a capire. Ma il nuovo Nathan non si sarebbe interessato più a suo padre. Avevo
detto che era un capitolo chiuso, no?
«Alla
mamma ho detto solo la verità. Se poi se l’è presa, è un problema suo.»
Una
risposta al veleno, grazie. Un piatto perfetto nel
“menù Nathan”. Ci potrebbe aggiungere un po’ di olio di stronzaggine? Ecco,
sì. La ciliegina sulla torta per il vecchio Nathan. O era per quello nuovo?
«Ci
è rimasta molto male per quello che le hai detto. Ma non credevo che l’avresti
mai fatto. Mi sei piaciuto.»
È
una truffa, nuovo Nathan. Non ci cascare. Il
vecchio Nathan la sapeva lunga su mio padre, ma ne sapeva poco o niente sulla
sua ruffianeria. Lui non avrebbe mai detto quelle cose. “Mi sei piaciuto”? Ma
che roba era? Cosa voleva dire?
Sbirciai
appena l’orologio e notai che l’orario di visita era finito. Mio padre aveva
perso un sacco di tempo stando zitto, un tempo che forse avrebbe potuto usare
diversamente.
«Guarda
che ora devi andare via. Sennò passa l’infermiera e ti cazzia.»
E
di certo mio padre non si sarebbe fatto sgridare da un’infermiera. Lui si alzò
quasi subito, senza necessità di ripetergli il concetto. Afferrò la sedia e la
sollevò per portarla insieme alle altre, in un punto dove non avrebbero dato
noia e per un attimo credetti che se ne sarebbe andato senza salutare.
«Ciao,
Nathan.»
«Ciao»,
mi sforzai di rispondere, quasi sollevato.
Come
lo vidi varcare la soglia e andare via, pensai che il vecchio Nathan avrebbe
sperato tanto in un suo ritorno nei giorni successivi.
Pensandoci
meglio, forse lo sperava un po’ anche il nuovo Nathan.
Alan
doveva già essere tornato a casa. Mi ritrovai a pensarlo dopo una ventina di
minuti che mio padre se ne fu andato. Non ricordavo come ci ero arrivato, ma
forse stavo solo pensando a qualcuno con cui potessi scaricare tutta la rabbia
e l’incredulità che avevo. Ero stato tutto quel tempo a rimuginare, a cercare
di capire perché fosse cambiato così, ma non avevo trovato risposta. Mi
frullavano in testa le sue domande, quel suo sguardo apprensivo, quello che non
aveva mai avuto in tutti quegli anni. E allora mi ero domandato se Alan potesse
avere una risposta, lui che sembrava sempre così sicuro su tutto.
Spostai
gli occhi verso il mobiletto accanto al mio letto, in cerca del cellulare,
quando notai dei vestiti che non riconoscevo. Allungai una mano per tastarli e
notai che erano morbidi, proprio come un pigiama, ma che non ricordavo di
avere. Lo afferrai e me lo portai sulle gambe, per avere la conferma che sì,
quello era proprio un pigiama. Lo aprii - per poi pentirmene l’attimo dopo - e
andai alla ricerca di un cartellino, un biglietto o qualunque cosa che mi
facesse capire chi lo avesse messo lì. Niente, non c’era niente, eppure non
sembrava usato. Era un pigiama per me, ma non sapevo chi l’avesse portato; non
ci avevo proprio fatto caso. Tentai di ripiegarlo e, senza sorpresa, il
risultato finale fu molto diverso da quello iniziale: coi pantaloni non era
andata male, ma il sopra sembrava dovesse essere indossato da un alieno
deforme. Lo rimisi a posto e afferrai il cellulare.
Scavai
tra i numeri, fino a che non arrivai a quello di Alan, ma proprio mentre stavo
per premere il pulsante verde mi fermai. Non c’era un reale motivo per quel
gesto, ma cominciai a essere assalito dai sensi di colpa, e mi chiesi se fosse
giusto che io corressi ancora da lui. Era l’unico amico che avevo e l’unico che
avevo voglia di sentire in un’occasione del genere, ma era giusto nei suoi
confronti? Lui non mi aveva detto niente riguardo a quello che era successo tra
noi e, anche se di concreto non era accaduto nulla, sapevamo che le cose
sarebbero potute andare diversamente e che da parte di tutti e due c’era
qualcosa.
Ah,
sembrava così strano dirlo. “Da parte di tutti e due c’era qualcosa”. Era la
verità: ci sarebbe bastato un pizzico di coraggio in più e ci saremmo baciati,
senza girarci troppo attorno. Quindi in quel momento saremmo stati fidanzati? O
non sarebbe stato così ovvio, nel nostro caso? Forse quella era un’equazione
che andava bene tra adolescenti, ma tra due giovani adulti con un sacco di
casini alle spalle, che significato avrebbe avuto un bacio? Forse avrebbe
significato solo la cosa più ovvia, cioè che lo volevamo. O meglio, io lo
volevo, lui no. C’era mancato poco così perché succedesse, ma non era successo.
E questo voleva dire automaticamente che non voleva stare con me? E anche
questa era un’equazione così ovvia oppure no?
Con
Alan non c’era niente di scontato; e se da una parte quel fatto mi faceva
venire il mal di testa, dall’altra mi affascinava.
Quindi
che avrei dovuto fare? Lo potevo chiamare o rischiavo di giocarmi le mie carte?
Bah,
stavo pensando troppo. Alla fine, il nuovo Nathan schiacciò il pulsante verde
senza che nemmeno me ne accorgessi.
La
linea era libera. Cominciò a squillare e sentii nascere il desiderio che
rispondesse il prima possibile, perché provavo proprio una specie di
impazienza, come se ascoltare la sua voce fosse un fatto di primaria
importanza. Non avevo solo voglia di sentirlo, ne avevo proprio bisogno.
La
linea continuò a squillare. Squillava e poi si zittiva, e io speravo sempre che
in quel momento lui rispondesse. Forse stava guidando, ma ormai doveva essere a
casa. Era con i suoi genitori? Probabile, ma uno come lui doveva per forza
tenere sempre il telefono con sé e pensai che lo stesse facendo anche in quel
momento. Era in bagno a fare le sue cose in santa pace? Possibile anche questo.
La
chiamata scadde e allontanai il telefono dall’orecchio, per poi fissarlo
sconsolato. Fuori cominciava già a fare buio e io sentivo il mostro della
solitudine mangiarmi sempre di più. Il tizio nel letto accanto aveva chiamato
un infermiere per fare una passeggiata, quindi ero rimasto solo.
Riprovai
a comporre il numero e cercai di vedere il bello nel panorama che si
intravedeva dalla mia finestra: un palazzone grigio con l’intonaco scrostato,
più qualche fronda di chissà quale albero a colorare il paesaggio. Se abbassavo
la testa, riuscivo pure a vedere un bel fumo grigio chiaro uscire dal solito
palazzone.
«Pronto.»
Mi
prese di sorpresa.
«Alan?
Sei tu?»
Ci
fu un attimo di silenzio e per un momento pensai che fosse caduta la linea.
Passò un altro secondo di silenzio. Non c’era rumore dall’altro capo del
telefono.
«Sì.»
La
sua voce era diversa dal solito. Sembrava quasi che parlasse sotto l’effetto
dell’erba, ma sapevo che era impossibile. Era una voce lenta, quasi stralunata,
come se la sua mente fosse su un altro pianeta.
«Tutto
bene?»
Lo
chiesi pensando che non si poteva mai sapere. Dall'altro capo del telefono mi
arrivò soltanto un sospiro. Notai solo in quel momento che in un angolo della
stanza c'era un vaso da fiori, lontano da qualunque letto. Il neon sopra la mia
testa ne proiettava sul muro un'ombra quasi mostruosa, facendo apparire quei
poveri fiori più simili a un orco sul punto di mangiarti.
«Diciamo
di sì.»
A
momenti mi ero dimenticato la domanda. Aveva risposto dopo un bel po' e con un
tono di voce che non mi piaceva. I suoi respiri erano grossi e irregolari. Ebbi
il sentore che avesse pianto e il solo pensiero mi ghiacciò. Io lo avevo
chiamato per parlare di mio padre e di quanto non me ne importasse più, ma,
anche se non potevo vederlo, avevo capito che Alan aveva bisogno di me molto
più di quanto io avessi bisogno di lui. Entrai in agitazione, perché non sapevo
bene cosa dire per consolarlo, io che un amico vero non ce l'avevo mai avuto,
né qualcuno da amare.
Be',
sì. Immaginai che fossimo arrivati già a questo punto.
Tanti
dicevano che bastava solo seguire l'istinto, ma il mio era assolutamente
pessimo e mi aveva portato solo un'infinità di guai. Dovevano esserci per forza
delle istruzioni, e immaginai che il primo passo fosse decidere se far finta di
nulla o provare a scavare.
«Sicuro?»
«Non
ti preoccupare.»
La
sua voce era più bassa del solito, quasi calma. Sembrava quasi un vecchio che
parla al nipote, guardando il mare, come se in quelle acque riuscisse a vedere
ciò che era stato e che stava quasi per giungere al termine. Alan, però, aveva
solo venticinque anni ed era presto perché parlasse come un vecchio arrivato al
capolinea.
A
meno che...
«Non
è che stavi per fare qualcosa di stupido, vero?»
Suicidio.
Mi girò la testa al solo pensarci, come se quel pensiero non mi appartenesse,
come se non facesse parte della mia vita.
Avevo
le mani fredde. Guardando quella che non teneva il telefono, potevo vederla
mentre tremava leggermente. Ogni secondo di silenzio faceva crescere la mia
agitazione. Io lo avevo chiamato per parlargli di mio padre. Se non fosse
venuto qui, se io lo avessi mandato via come volevo fare, non avrei mai
chiamato Alan. Se avessi aspettato un secondo in più, se avessi dato un'altra
occhiata al panorama dalla mia finestra, forse Alan non avrebbe mai risposto al
telefono. E non lo avrebbe fatto nemmeno se non ci fosse stato il pestaggio,
nemmeno se...
Ogni
cosa che era successa, ogni gesto, ogni parola...
Se
non avessi vissuto la mia vita esattamente come avevo fatto, la mia telefonata
non sarebbe mai partita e lui, forse, non avrebbe mai risposto.
«Alan?»
Be',
un colpo di pistola l'avrei sentito, anche col silenziatore, ma ero abbastanza
sicuro che in realtà non silenziasse davvero lo sparo. Insomma, sì, non era
possibile che l'avesse fatto in quel momento. Staccai il telefono dall'orecchio
e guardai lo schermo: la chiamata era ancora in corso.
Forse
aveva messo il muto. Forse in quel momento non stavo parlando con Alan, ma col
cervello spappolato che rimaneva di lui.
Non
poteva essere morto, era stupido. Insomma, i suicidi erano cose di cui sentivi
parlare al telegiornale e basta, niente che potesse accaderti davvero… no? La
rapina, però, era stata reale, e quel silenzio dall’altro capo del telefono lo
era altrettanto. Non sentivo più il suo respiro, né il rumore di sottofondo
della linea disturbata: c’era silenzio e basta, niente che mi dicesse che Alan
era ancora vivo. Cominciai a immaginare davvero la sua vita distrutta in mille
pezzi, tutto ciò che Alan Scottfield era stato mi pareva di vederlo colare dal
muro, sulla carta da parati e sul letto.
Cominciai
a pregare un dio in cui non credevo, e mi dicevo solo: "Fa' che non sia
morto, fa' che non sia morto, se esisti, ti prego, fa' che non sia morto".
«Alan?!
Per favore, rispondimi.»
Fa'
che non sia morto, fa' che non sia morto.
Era
colpa mia? Non volevo darmi troppa importanza, ma c'entrava forse qualcosa la
mia improvvisa partenza? No, era quasi sicuramente per Oliver, perché era morto
e Alan era rimasto solo, poi arrivavano gli stronzi come me a cui veniva la
bella idea di dirgli che se ne andavano, che sì, era un'idea figa, ma lo sapevo
che lo avrebbe fatto star male, e io che lo avevo fatto pure di proposito - che
stronzo!
«Alan?!»
Lo
sapevo, lo sapevo che il cervello gli era saltato in aria per la stanza, io
avevo finito di distruggere quel poco che rimaneva della sua vita, perché me
l’ero tirata troppo e quello era stato il risultato.
Ero
stato stronzissimo, cazzo, stava per spararsi (o lo aveva già fatto?) e un po'
era colpa mia, non meritavo di pregare nessun dio, meritavo forse di essere
stroncato per bene da quei pezzi di merda, se fosse servito - ah, ma quanto ero
sboccato - cazzo, Alan, rispondi!
«Posa
quella cazzo di pistola e rispondimi!»
Aveva
messo il muto, oddio era colpa mia, si era sparato per colpa mia, perché avevo
passato il tempo a fargli domande stupide tipo: "Come stai?" - ma
come volevo che stesse, si sentiva lontano un chilometro che stava male, avevo
aspettato troppo, mentre stavo lì a cercare il manualino su "Come
consolare Alan", e no, non potevo piangere, ma lui era stato così buono con
me, pure negli ultimi istanti della sua vita, aveva messo il muto cosicché non
potessi sentirlo, quanto avrei voluto tornare indietro, rimangiarmi tutto
quello che avevo detto e dargli quel cazzo di bacio che lo aspettava da una
vita, cosa mi sarebbe costato? Niente, ero stato un codardo, perché io un
ragazzo vero non ce l'avevo mai avuto e alla prima occasione, puf!, ero
scappato.
Ma
cosa stavo pensando?
«Alan,
guarda che se non mi rispondi chiamo la...» suonava ridicolo ma dovevo dirlo,
«guarda che chiamo la polizia!»
Ma
per chiamare la polizia avrei dovuto riattaccare, e magari lui era ancora lì,
ad ascoltare e a farmi cacare in mano - dio (qualunque fosse), non ce la facevo
più, non avrei potuto sopportarlo, no...
Vedevo
di nuovo il suo cervello sparso in mille pezzi sul letto, e i muri col sangue
che colava, il suo sguardo perso nel vuoto - era morto, cazzo, era morto -
oddio era morto sul serio, ero stato l'ultimo a sentire le sue parole, e tutte
le cose che avevamo condiviso e quel suo sorriso sempre un po' depresso - no,
no!
Non
era vero, non era vero niente, era solo la mia fantasia che si era spinta un
po’ in là, e intanto continuavo a chiamare il suo nome, senza potermi spostare
dal letto - sarei corso da lui, se avessi potuto -, perché Alan non poteva
averlo fatto davvero, io avevo bisogno di lui, ne avevo davvero bisogno, e non
solo per ripetizioni o quello che era…
Io
quegli occhi non li avrei più rivisti da nessuna parte, quel sorriso che non
era mai un sorriso vero, perché c’era sempre Oliver a oscurarlo… Lui era
infelice, così infelice e io non avevo mai avuto un attimo per capirlo, per
stargli vicino, ma che stavo dicendo?
Potevo
solo pregare: fa' che non sia morto, fa' che non sia morto.
Cominciavo
ad avere paura, ma di quella vera. Era bastato un mese perché mi affezionassi
così tanto a lui e non ero più sicuro che la nostra fosse solo amicizia,
eravamo stati a un passo così dal baciarci, ma perché non lo avevo fatto? Se
avessi potuto tornare indietro avrei fatto una scelta diversa, ma in fondo lui
non era morto davvero, non potevo credere a una cosa del genere. Alan non era
un codardo, non si sarebbe mai ammazzato al telefono con me, sapendo che mi
sarei sentito in colpa tutta la vita e...
«...
Nathan?»
Fa'
che non sia--
«Vaffanculo,
cazzo!»
Mi
uscì spontaneo. Avevo il fiatone e me ne accorsi solo in quel momento. Mi
portai una mano sul petto e respirai - ci provai, insomma, ma non riuscivo a
farlo in modo normale.
Fan-culo.
Mi
resi conto anche che le costole mi facevano male da morire. La testa mi
scoppiava come se avessi studiato per otto ore filate. Ma Alan era vivo.
Dio, ovunque fosse stato, aveva ascoltato le mie preghiere. Mi asciugai quelle
lacrime che erano cadute da sole, senza che nemmeno me ne accorgessi.
Alan
aveva parlato. Era vivo. Non c'era nessun cervello spappolato nella sua stanza.
Chiusi gli occhi, come se tutta quella luce e tutte quelle ombre (orco
compreso) fossero troppo per me, in quel momento.
«Scusami.»
La
voce di Alan non mi era mai sembrata così bella. Sentirla era quasi come
sentire la voce di una divinità, perché per me era una benedizione allo stesso
modo.
E
sì, caro Alan, potevi scusarti quanto volevi, ma il mio "Vaffanculo"
non l'avrei ritirato per niente al mondo.
«Non
farlo mai più o, se proprio devi, non quando sei al telefono con me, grazie!»
Mi
lasciai affondare sul cuscino e mi resi conto di essere stato un po' scortese -
ok, parecchio scortese. Ma io ancora non riuscivo a crederci, non riuscivo a
pensare che quello che avevo vissuto era stato reale. Niente di quella giornata
lo era sembrato, in realtà.
«Anche
perché io stavo per morire di infarto, quindi sarei venuto a cercarti, sai? E
credimi, ti saresti pentito subito di aver preferito l'Inferno a questa vita.»
«Quindi
tu mi manderesti all'Inferno, invece che in Paradiso?»
«Dopo
questa non ho più alcun dubbio.»
Ero
sicuro, la sua era stata una risatina. Io però non ho riso per niente,
avrei voluto dirgli. Ma lo sapeva di già, ne ero certo.
Dall'altro
capo del telefono cadde di nuovo il silenzio. Dentro di me, però, sapevo che
non avevo nulla da temere, che il momentaccio di Alan era ormai passato. Mandò
un paio di sospiri forti e pensai che per quella sera non avrebbe detto altro,
ma mi sbagliavo.
«Cosa
volevi dirmi?»
«In
che senso?»
La
sua voce era diversa. Sembrava tornata quella dell'Alan di sempre, con quel
pizzico di premura che ti faceva sentire coccolato. Guardai fuori dalla
finestra ancora una volta, ma non si vedeva più granché: il Sole era già
tramontato da un pezzo e l'edificio e l'albero erano adombrati da qualche
palazzo più alto.
«Immagino
che tu mi avessi telefonato per qualche motivo, no?»
Sì,
be', in teoria era così. In pratica cominciai a credere che quella non fosse
stata una coincidenza e che l'uomo non godesse totalmente del libero arbitrio
come pensava. Se qualcuno mi avesse chiesto perché lo avevo chiamato proprio
nel momento in cui l'avevo fatto, non me la sarei sentita di rispondere dicendo
che era stato un caso.
«Sì,
volevo aggiornarti su mio padre, ma non ha importanza. Sai che non me ne frega
più così tanto? Non so, ho passato tutti questi anni a pensare a lui, a cercare
di riconquistare la sua fiducia, e invece ora scopro che non me ne frega più
nulla. In realtà, non mi frega più nulla di molte altre cose.»
Alan
lanciò un sospiro secco. L'attimo dopo mi resi conto che, senza volerlo, tra
quelle "altre cose" sembrava che ci avessi infilato pure lui. Per un
attimo fui tentato dal correggere il tiro, ma poi, allo stesso modo, mi ronzò
in testa il pensiero che fosse inutile. Forse in quel momento stava pensando
che di lui non me ne importava così tanto o forse non nel senso che avrebbe
voluto.
«Però
stiamo qui a parlarne.»
«Te
ne parlo perché volevo dirti che non me ne importa niente. Sennò non lo avresti
capito, no? Ah, ma perché mi fai fare questi discorsi intortanti a
quest'ora di sera?»
«Intortanti?»
«Sì,
vabbè,» e mi scappò una risatina, «volevo dire che mi mandi in pappa il
cervello.»
«Ah,
grazie. Lo aggiungo alle traduzioni dal Nathanese.»
Io
gli feci una pernacchia.
«Spiritoso.»
Il
siparietto si chiuse lì. Se Alan fosse stato accanto al mio letto,
probabilmente mi avrebbe riservato una delle sue occhiate, con cui avrebbe
voluto comunicarmi una marea di cose. Lui, però, lì accanto a me non c’era e
sentivo che, piano piano, si stava allontanando anche dalla parte più intima di
me. Non era qualcosa che avrei voluto, né che stavo portando avanti in modo
volontario; semplicemente, qualcosa tra di noi si era spezzato, forse per via
della mia notizia, forse perché si sentiva in colpa per quello che era successo
o forse perché le cose tra noi si stavano evolvendo a un ritmo che non riuscivamo
a sostenere. A me faceva strano pensare a me e lui come coppia, perché eravamo
così diversi che una nostra storia forse avrebbe retto un paio di mesi,
esattamente come tutte le altre.
In
quel momento, pensai che così come la telefonata non era stata una coincidenza,
forse non lo era stato nemmeno il nostro incontro. Forse c’erano amori
destinati a non sbocciare, a restare nel limbo dell’ipotetico, a lasciarti col
dubbio tutta la vita. Cominciai a credere che Alan facesse parte di quella
categoria, perché io l’avevo conosciuto quando la sua ferita per Oliver era
ancora troppo fresca e io troppo immaturo per vivere finalmente come un
ventunenne. Se ci fossimo incontrati anche solo sei mesi più tardi,
probabilmente le cose sarebbero andate diversamente.
«Nathan?»
«Eh.»
«Ma
quindi che ti ha detto tuo padre?»
Sbuffai.
Non avevo voglia di parlarne e ascoltare la voce di Alan cominciò a farmi uno
strano effetto. Se fino a quel momento mi aveva sempre rassicurato, ora
cominciava ad avere un retrogusto dolceamaro, come quello delle strade che hai
imboccato troppo presto.
«Ha
fatto dei discorsi strani. Era tutto premuroso e mi ha detto che non credeva
che avrei risposto così a mia madre. Sembrava quasi orgoglioso, era
inquietante.»
«E
non sei contento?»
«Mah,
te l’ho detto, non mi importa più nulla.»
Mi
sembrava così incredibile. E, ancora, tutta quella giornata mi era sembrata
incredibile. Cinque minuti prima avevo sventato un suicidio e ora me ne stavo
noiosamente a parlare di quanto non mi fregasse di mio padre. C’era un certo
distacco nel mio modo di essere, come se fossi stato estraniato dalla realtà, a
vivere una vita che non era mia. Chi era il nuovo Nathan? E chi era stato il
vecchio, fino a quel momento?
«Nei
prossimi giorni verrò a trovarti di nuovo. Ho delle novità sulle indagini che
ritengo tu debba sapere.»
«Accidenti,
non perdi tempo, tu.»
«Il
crimine non va mica in vacanza, sai?»
Anche
quel siparietto si chiuse lì. Sembrava che parlare diventasse ogni minuto più
difficile, come se non avessimo più nulla di cui discutere, che non fossero le
sue preoccupazioni per me o l’indagine. In realtà, non avevamo mai davvero
parlato di qualcosa in particolare, ma c’era sempre stata una sintonia a pelle
tra di noi. Perché le cose si erano evolute così? Perché mi sentivo nuovamente
solo, proprio come il vecchio Nathan? Ed esisteva, da qualche parte
nell’universo, un modo per rimettere a posto le cose tra me e lui?
Perdere
Alan era l’ultima cosa che volevo, ma lui sembrava essersi chiuso nuovamente
nel suo guscio. Ormai eravamo lontani, sicuramente lontani anni luce da ciò che
eravamo stati fino a quel momento. Lui non avrebbe mai ammesso di essere
innamorato di me e io, con quelle premesse, di fare un passo non me la sentivo
proprio.
Ma
perché mi sentivo angosciato in quel modo?
«Allora
ci vediamo domani. Per stasera ti lascio riposare.»
«Va
bene, buonanotte.»
«A
te.»
Riattaccai
e poggiai il telefonino dal mobiletto accanto al mio letto. Cercai di
sistemarmi sotto le coperte stando attento a non toccare i punti dolenti,
missione che portai a termine con successo. Mi resi conto che dovevo essere per
forza sotto l’effetto di anti-dolorifici e all’improvviso capii perché mi
sentivo tanto rincoglionito.
Per
un attimo, pensai che quella giornata era stata solo il frutto della mia
fantasia.
Era
sembrato tutto così surreale - mio padre, il tentato suicidio di Alan, la
distanza tra di noi. Mi addormentai convinto di aver ragione; col senno di poi,
forse non sarebbe stato così male.
Angolo
autrice
Salve
a tutti!
Finalmente
in questo capitolo vediamo uno straccio di rapporto civile tra Nathan e suo
padre, che a quanto pare è rimasto impressionato dall’atteggiamento del figlio
e, secondo me, anche dal drammatico evento di cui è stato vittima. Insomma, che
abbia ritrovato un po’ di sale in quella zucca vuota? Chissà… XD
E
nel frattempo Nathan coglie Alan in un momento di profonda crisi per quello che
è accaduto. Per fortuna non è successo niente di grave ^^’
Per
quanto riguarda la scrittura, dico con un certo orgoglio che sta andando a
gonfie vele! Questo capitolo 32 mi sta ispirando tantissimo e sto scrivendo
come una dannata, probabilmente lo finirò con largo anticipo rispetto alla scadenza
che mi ero prefissata. Sono proprio contenta!
Ringrazio
come sempre tutte le persone che seguono e recensiscono questa storia, il
vostro sostegno è davvero fondamentale per me <3
A
giovedì prossimo,
Simona