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Autore: holls    17/02/2022    6 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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23. Nuovo Nathan, vecchio Nathan

 

 

Mio padre mi era sempre sembrato grande e grosso. Il suo peso era nella media, ma io ero sempre stato così mingherlino che mi era parso un gigante per tutta la mia infanzia e adolescenza. Nel corso degli anni ero cresciuto, anche in altezza, ma lui aveva continuato a sembrarmi un gigante, che però di buono non aveva niente. Per tutto quel tempo aveva solo saputo sbraitare e alzare le mani, per poi guardarmi con quello sguardo colpevole, perché io gli avevo rovinato la vita e aveva sempre dovuto sopportare il peso della mia esistenza.

          In quel momento, però, seduto su quella sedia troppo piccola per lui, riuscii a vederlo per ciò che era. Mi resi conto, in tutte le volte che lo avevo fronteggiato, che eravamo diventati alti uguali; lui rimaneva comunque un po’ più grosso di me, ma con un cuore piccolo piccolo, lo stesso che vedevo davanti ai miei occhi, mentre se ne stava lì a guardare la stanza con uno strano interesse.

          Mi fece un po’ pena. Aveva speso buona parte della sua esistenza a prendersela con me, col figlio che non era quello che lui aveva desiderato, come del resto avevo fatto io, perché non ero mai stato ciò che lui avrebbe voluto. Mi aveva sputato addosso tanto di quel veleno che alla fine ci avevo fatto l’abitudine e un po’ ero diventato velenoso anch’io, distaccato, e probabilmente era per quello che nessuno aveva mai voluto rimanermi accanto. Io da quel veleno ero stato infettato, e lo sputavo spesso con frecciatine infuocate e facendo capire al poveretto di turno che il giorno prima poteva essere la persona più importante su questo pianeta, per poi diventare una nullità il giorno dopo. Esattamente come mio padre aveva fatto con me.

          Io un po’ gli somigliavo. Somigliavo a quell’uomo che ora mi guardava negli occhi, con lo stesso tono di sfida che aveva avuto ogni volta, ma a me non importava più. Avrebbe potuto dirmi le cose più disparate, offendermi, anche pubblicamente, ma io non gli avrei dato peso. Non ero più sotto la sua tutela, non dovevo più sottostare alle sue leggi. Aveva scelto di lasciarmi andare e con quel gesto aveva anche rinunciato a educarmi e a impormi il suo modo di pensare. Io in quel momento ero libero, di fare e sbagliare, e lui avrebbe potuto criticarmi quanto voleva, ma non ero più sotto il suo controllo. In un certo senso, mi sentivo quasi un nuovo Nathan.

          Era per quel motivo che non temevo niente di quello che avrebbe detto. Aspettavo solo che aprisse bocca per parlare, ma mi resi conto che avevo aspettato fin troppo tempo, con lui.

«Hai intenzione di dire qualcosa, prima che il tempo finisca?»

La sua espressione non cambiò minimamente. Non sapevo dire se fosse vuota o indecifrabile. Strinse appena le labbra, ma fu l’unico movimento che gli uscì.

«Mi ha chiamato l’ospedale.»

Il vecchio Nathan gli avrebbe forse risposto stizzito, ma quella vita non mi apparteneva più, perché avevo deciso di ricominciare. Se avessi smesso di accogliere il suo veleno e la sua indifferenza, forse me ne sarei liberato anch’io.

«Bene.»

«Mi hanno detto che ti avevano conciato per le feste e sono venuto a vedere come stavi.»

«Grazie.»

Il vecchio Nathan avrebbe chiesto cosa aveva fatto per meritarsi una simile attenzione, perché non aveva mandato la mamma. Poi mi ricordai del litigio e a quell’ultima domanda trovai subito una risposta. Lo stomaco mi si strinse un po’ e il cuore perse un battito. Sarebbe venuta a trovarmi, prima o poi? O aver mandato mio padre era il segno che non avrebbe mai sotterrato l’ascia di guerra?

No, non poteva essere così. Non volevo crederlo.

Mio padre era venuto di sua iniziativa, anche se non mi era ancora chiaro cosa lo avesse spinto fino all’ospedale - ma in fondo tutto ciò che ruotava intorno a lui era una questione che non mi riguardava più, no?

C’era un pizzico di curiosità, ovviamente, ma era qualcosa che avrebbe provato il vecchio Nathan, non io. E anche se la curiosità era forse più di un pizzico, io non l’avrei chiesto. Mi ero liberato dalle sue catene e non ci sarei cascato un’altra volta. Anzi, mi sarebbe bastato aspettare la fine delle indagini per partire e ricominciare, lasciandomi dietro tutti quei casini, padre compreso.

Però…

«L’assicurazione dovrebbe coprirti.»

Perché lo aveva detto? Era forse un modo per dirmi che ci avrebbe pensato lui? Impossibile, ma non gli avrei chiesto niente. Quella era una domanda da vecchio Nathan, e io ero diverso. Ero cambiato, ormai.

Risposi facendo spallucce.

«A tua madre non ho detto nulla. Vuoi che lo faccia?»

Cos’era quel tono paterno che usava con me? Che rabbia! Era stato una merda in tutti quegli anni e in quel momento era così… così… padre! “Ho saputo che ti avevano conciato bene e sono venuto.”, “Vuoi che lo dica a tua madre?”, “Ti bastano i soldi dell’assicurazione? Sennò pago io”. Che andasse a farsi fottere! Cos’era tutta quella preoccupazione? Cosa cavolo era?

«Fai come ti pare! Non me ne importa niente.»

Ero riuscito a contenermi solo un pochino. La fiammata si esaurì quasi subito, anche perché sentii una fitta al torace che mi costrinse a tornare calmo. Perché faceva così? Cosa voleva da me? Non si era mai comportato in quel modo da quella famosa sera. Mai.

Mi accorsi solo in quel momento di ciò che aveva detto su mia madre. Non sapeva nulla. Percepii qualcosa di simile al sollievo perché aveva smentito le mie congetture, ma fu seguito subito dopo da un pizzico di delusione, perché il fatto che fosse all’oscuro di quanto mi era successo le avrebbe impedito, nell’eventualità, di preoccuparsi per me.

Emisi un sospiro strozzato. Preoccuparsi per me era qualcosa che non avrebbe più fatto, giusto?

Strinsi il lenzuolo e quella domanda mi sfrecciò ancora una volta per la mente. Una domanda che avrei potuto fare a mio padre, perché era lì accanto a me, ma il solo pensiero mi provocò disagio perché avrebbe significato cercare il suo aiuto, il suo conforto, e non era qualcosa che il nuovo Nathan, la persona che volevo diventare, avrebbe fatto. Se gli avessi mostrato il fianco lui ne avrebbe approfittato, e io non potevo permettermi altre ferite di guerra.

Tra me e mio padre, neanche a dirlo, era calato il silenzio. Io cominciai a fissare la finestra e mi accorsi solo in quel momento che non lo avevo mai guardato negli occhi. Da quando avevamo cominciato a parlare, avevo fissato solo il lenzuolo che mi copriva e osservato i movimenti delle dita dei miei piedi che si muovevano. Con la coda dell’occhio, avevo notato che lui non mi aveva staccato gli occhi di dosso per un secondo.

«Non credevo che ti saresti comportato così con tua madre.»

Lanciai un’occhiata al televisore davanti a me. Era quello il massimo che sapevo fare? Quella era una cosa che avrebbe fatto il vecchio Nathan… quello vecchio, non io. Io lo avrei guardato negli occhi e avrei sostenuto quello che una volta era stato mio padre.

Il mio sguardo abbandonò la televisione per passare al mobiletto accanto, poi si soffermò sugli strumenti medici posati lì sopra; passò poi ai piedi dell’altro letto, seguì le forme del lenzuolo bianco del mio compagno di stanza, fino a che non incrociò una fantasia a quadri rossa e blu: la sua camicia. In un unico scatto, osservai mio padre con la stessa ferocia con cui sapevo che mi avrebbe fissato anche lui; ma finì che io sembrai un leone e lui una timida gazzella. Non c’era traccia di veleno nei suoi occhi, sicuramente non quanta ce n’era nei miei.

Tornai a fissarmi le mani, accoccolate sul grembo. Mio padre non era arrabbiato e nemmeno inviperito. Sembrava quasi una persona normale. C’era una comprensione che non avevo mai visto nel suo sguardo, da quella fatidica sera. C’era qualcosa di strano, qualcosa che non mi tornava, e soprattutto che non riuscivo a capire. Ma il nuovo Nathan non si sarebbe interessato più a suo padre. Avevo detto che era un capitolo chiuso, no?

«Alla mamma ho detto solo la verità. Se poi se l’è presa, è un problema suo.»

Una risposta al veleno, grazie. Un piatto perfetto nel “menù Nathan”. Ci potrebbe aggiungere un po’ di olio di stronzaggine? Ecco, sì. La ciliegina sulla torta per il vecchio Nathan. O era per quello nuovo?

«Ci è rimasta molto male per quello che le hai detto. Ma non credevo che l’avresti mai fatto. Mi sei piaciuto.»

È una truffa, nuovo Nathan. Non ci cascare. Il vecchio Nathan la sapeva lunga su mio padre, ma ne sapeva poco o niente sulla sua ruffianeria. Lui non avrebbe mai detto quelle cose. “Mi sei piaciuto”? Ma che roba era? Cosa voleva dire?

Sbirciai appena l’orologio e notai che l’orario di visita era finito. Mio padre aveva perso un sacco di tempo stando zitto, un tempo che forse avrebbe potuto usare diversamente.

«Guarda che ora devi andare via. Sennò passa l’infermiera e ti cazzia.»

E di certo mio padre non si sarebbe fatto sgridare da un’infermiera. Lui si alzò quasi subito, senza necessità di ripetergli il concetto. Afferrò la sedia e la sollevò per portarla insieme alle altre, in un punto dove non avrebbero dato noia e per un attimo credetti che se ne sarebbe andato senza salutare.

«Ciao, Nathan.»

«Ciao», mi sforzai di rispondere, quasi sollevato.

Come lo vidi varcare la soglia e andare via, pensai che il vecchio Nathan avrebbe sperato tanto in un suo ritorno nei giorni successivi.

Pensandoci meglio, forse lo sperava un po’ anche il nuovo Nathan.

 

Alan doveva già essere tornato a casa. Mi ritrovai a pensarlo dopo una ventina di minuti che mio padre se ne fu andato. Non ricordavo come ci ero arrivato, ma forse stavo solo pensando a qualcuno con cui potessi scaricare tutta la rabbia e l’incredulità che avevo. Ero stato tutto quel tempo a rimuginare, a cercare di capire perché fosse cambiato così, ma non avevo trovato risposta. Mi frullavano in testa le sue domande, quel suo sguardo apprensivo, quello che non aveva mai avuto in tutti quegli anni. E allora mi ero domandato se Alan potesse avere una risposta, lui che sembrava sempre così sicuro su tutto.

          Spostai gli occhi verso il mobiletto accanto al mio letto, in cerca del cellulare, quando notai dei vestiti che non riconoscevo. Allungai una mano per tastarli e notai che erano morbidi, proprio come un pigiama, ma che non ricordavo di avere. Lo afferrai e me lo portai sulle gambe, per avere la conferma che sì, quello era proprio un pigiama. Lo aprii - per poi pentirmene l’attimo dopo - e andai alla ricerca di un cartellino, un biglietto o qualunque cosa che mi facesse capire chi lo avesse messo lì. Niente, non c’era niente, eppure non sembrava usato. Era un pigiama per me, ma non sapevo chi l’avesse portato; non ci avevo proprio fatto caso. Tentai di ripiegarlo e, senza sorpresa, il risultato finale fu molto diverso da quello iniziale: coi pantaloni non era andata male, ma il sopra sembrava dovesse essere indossato da un alieno deforme. Lo rimisi a posto e afferrai il cellulare.

          Scavai tra i numeri, fino a che non arrivai a quello di Alan, ma proprio mentre stavo per premere il pulsante verde mi fermai. Non c’era un reale motivo per quel gesto, ma cominciai a essere assalito dai sensi di colpa, e mi chiesi se fosse giusto che io corressi ancora da lui. Era l’unico amico che avevo e l’unico che avevo voglia di sentire in un’occasione del genere, ma era giusto nei suoi confronti? Lui non mi aveva detto niente riguardo a quello che era successo tra noi e, anche se di concreto non era accaduto nulla, sapevamo che le cose sarebbero potute andare diversamente e che da parte di tutti e due c’era qualcosa.

          Ah, sembrava così strano dirlo. “Da parte di tutti e due c’era qualcosa”. Era la verità: ci sarebbe bastato un pizzico di coraggio in più e ci saremmo baciati, senza girarci troppo attorno. Quindi in quel momento saremmo stati fidanzati? O non sarebbe stato così ovvio, nel nostro caso? Forse quella era un’equazione che andava bene tra adolescenti, ma tra due giovani adulti con un sacco di casini alle spalle, che significato avrebbe avuto un bacio? Forse avrebbe significato solo la cosa più ovvia, cioè che lo volevamo. O meglio, io lo volevo, lui no. C’era mancato poco così perché succedesse, ma non era successo. E questo voleva dire automaticamente che non voleva stare con me? E anche questa era un’equazione così ovvia oppure no?

          Con Alan non c’era niente di scontato; e se da una parte quel fatto mi faceva venire il mal di testa, dall’altra mi affascinava.

          Quindi che avrei dovuto fare? Lo potevo chiamare o rischiavo di giocarmi le mie carte?

Bah, stavo pensando troppo. Alla fine, il nuovo Nathan schiacciò il pulsante verde senza che nemmeno me ne accorgessi.

La linea era libera. Cominciò a squillare e sentii nascere il desiderio che rispondesse il prima possibile, perché provavo proprio una specie di impazienza, come se ascoltare la sua voce fosse un fatto di primaria importanza. Non avevo solo voglia di sentirlo, ne avevo proprio bisogno.

La linea continuò a squillare. Squillava e poi si zittiva, e io speravo sempre che in quel momento lui rispondesse. Forse stava guidando, ma ormai doveva essere a casa. Era con i suoi genitori? Probabile, ma uno come lui doveva per forza tenere sempre il telefono con sé e pensai che lo stesse facendo anche in quel momento. Era in bagno a fare le sue cose in santa pace? Possibile anche questo.

La chiamata scadde e allontanai il telefono dall’orecchio, per poi fissarlo sconsolato. Fuori cominciava già a fare buio e io sentivo il mostro della solitudine mangiarmi sempre di più. Il tizio nel letto accanto aveva chiamato un infermiere per fare una passeggiata, quindi ero rimasto solo.

Riprovai a comporre il numero e cercai di vedere il bello nel panorama che si intravedeva dalla mia finestra: un palazzone grigio con l’intonaco scrostato, più qualche fronda di chissà quale albero a colorare il paesaggio. Se abbassavo la testa, riuscivo pure a vedere un bel fumo grigio chiaro uscire dal solito palazzone.

«Pronto.»

Mi prese di sorpresa.

«Alan? Sei tu?»

Ci fu un attimo di silenzio e per un momento pensai che fosse caduta la linea. Passò un altro secondo di silenzio. Non c’era rumore dall’altro capo del telefono.

«Sì.»

La sua voce era diversa dal solito. Sembrava quasi che parlasse sotto l’effetto dell’erba, ma sapevo che era impossibile. Era una voce lenta, quasi stralunata, come se la sua mente fosse su un altro pianeta.

«Tutto bene?»

Lo chiesi pensando che non si poteva mai sapere. Dall'altro capo del telefono mi arrivò soltanto un sospiro. Notai solo in quel momento che in un angolo della stanza c'era un vaso da fiori, lontano da qualunque letto. Il neon sopra la mia testa ne proiettava sul muro un'ombra quasi mostruosa, facendo apparire quei poveri fiori più simili a un orco sul punto di mangiarti.

«Diciamo di sì.»

A momenti mi ero dimenticato la domanda. Aveva risposto dopo un bel po' e con un tono di voce che non mi piaceva. I suoi respiri erano grossi e irregolari. Ebbi il sentore che avesse pianto e il solo pensiero mi ghiacciò. Io lo avevo chiamato per parlare di mio padre e di quanto non me ne importasse più, ma, anche se non potevo vederlo, avevo capito che Alan aveva bisogno di me molto più di quanto io avessi bisogno di lui. Entrai in agitazione, perché non sapevo bene cosa dire per consolarlo, io che un amico vero non ce l'avevo mai avuto, né qualcuno da amare.

Be', sì. Immaginai che fossimo arrivati già a questo punto.

Tanti dicevano che bastava solo seguire l'istinto, ma il mio era assolutamente pessimo e mi aveva portato solo un'infinità di guai. Dovevano esserci per forza delle istruzioni, e immaginai che il primo passo fosse decidere se far finta di nulla o provare a scavare.

«Sicuro?»

«Non ti preoccupare.»

La sua voce era più bassa del solito, quasi calma. Sembrava quasi un vecchio che parla al nipote, guardando il mare, come se in quelle acque riuscisse a vedere ciò che era stato e che stava quasi per giungere al termine. Alan, però, aveva solo venticinque anni ed era presto perché parlasse come un vecchio arrivato al capolinea.

A meno che...

«Non è che stavi per fare qualcosa di stupido, vero?»

Suicidio. Mi girò la testa al solo pensarci, come se quel pensiero non mi appartenesse, come se non facesse parte della mia vita.

Avevo le mani fredde. Guardando quella che non teneva il telefono, potevo vederla mentre tremava leggermente. Ogni secondo di silenzio faceva crescere la mia agitazione. Io lo avevo chiamato per parlargli di mio padre. Se non fosse venuto qui, se io lo avessi mandato via come volevo fare, non avrei mai chiamato Alan. Se avessi aspettato un secondo in più, se avessi dato un'altra occhiata al panorama dalla mia finestra, forse Alan non avrebbe mai risposto al telefono. E non lo avrebbe fatto nemmeno se non ci fosse stato il pestaggio, nemmeno se...

Ogni cosa che era successa, ogni gesto, ogni parola...

Se non avessi vissuto la mia vita esattamente come avevo fatto, la mia telefonata non sarebbe mai partita e lui, forse, non avrebbe mai risposto.

«Alan?»

Be', un colpo di pistola l'avrei sentito, anche col silenziatore, ma ero abbastanza sicuro che in realtà non silenziasse davvero lo sparo. Insomma, sì, non era possibile che l'avesse fatto in quel momento. Staccai il telefono dall'orecchio e guardai lo schermo: la chiamata era ancora in corso.

Forse aveva messo il muto. Forse in quel momento non stavo parlando con Alan, ma col cervello spappolato che rimaneva di lui.

Non poteva essere morto, era stupido. Insomma, i suicidi erano cose di cui sentivi parlare al telegiornale e basta, niente che potesse accaderti davvero… no? La rapina, però, era stata reale, e quel silenzio dall’altro capo del telefono lo era altrettanto. Non sentivo più il suo respiro, né il rumore di sottofondo della linea disturbata: c’era silenzio e basta, niente che mi dicesse che Alan era ancora vivo. Cominciai a immaginare davvero la sua vita distrutta in mille pezzi, tutto ciò che Alan Scottfield era stato mi pareva di vederlo colare dal muro, sulla carta da parati e sul letto.

Cominciai a pregare un dio in cui non credevo, e mi dicevo solo: "Fa' che non sia morto, fa' che non sia morto, se esisti, ti prego, fa' che non sia morto".

«Alan?! Per favore, rispondimi.»

Fa' che non sia morto, fa' che non sia morto.

Era colpa mia? Non volevo darmi troppa importanza, ma c'entrava forse qualcosa la mia improvvisa partenza? No, era quasi sicuramente per Oliver, perché era morto e Alan era rimasto solo, poi arrivavano gli stronzi come me a cui veniva la bella idea di dirgli che se ne andavano, che sì, era un'idea figa, ma lo sapevo che lo avrebbe fatto star male, e io che lo avevo fatto pure di proposito - che stronzo!

«Alan?!»

Lo sapevo, lo sapevo che il cervello gli era saltato in aria per la stanza, io avevo finito di distruggere quel poco che rimaneva della sua vita, perché me l’ero tirata troppo e quello era stato il risultato.

Ero stato stronzissimo, cazzo, stava per spararsi (o lo aveva già fatto?) e un po' era colpa mia, non meritavo di pregare nessun dio, meritavo forse di essere stroncato per bene da quei pezzi di merda, se fosse servito - ah, ma quanto ero sboccato - cazzo, Alan, rispondi!

«Posa quella cazzo di pistola e rispondimi!»

Aveva messo il muto, oddio era colpa mia, si era sparato per colpa mia, perché avevo passato il tempo a fargli domande stupide tipo: "Come stai?" - ma come volevo che stesse, si sentiva lontano un chilometro che stava male, avevo aspettato troppo, mentre stavo lì a cercare il manualino su "Come consolare Alan", e no, non potevo piangere, ma lui era stato così buono con me, pure negli ultimi istanti della sua vita, aveva messo il muto cosicché non potessi sentirlo, quanto avrei voluto tornare indietro, rimangiarmi tutto quello che avevo detto e dargli quel cazzo di bacio che lo aspettava da una vita, cosa mi sarebbe costato? Niente, ero stato un codardo, perché io un ragazzo vero non ce l'avevo mai avuto e alla prima occasione, puf!, ero scappato.

Ma cosa stavo pensando?

«Alan, guarda che se non mi rispondi chiamo la...» suonava ridicolo ma dovevo dirlo, «guarda che chiamo la polizia!»

Ma per chiamare la polizia avrei dovuto riattaccare, e magari lui era ancora lì, ad ascoltare e a farmi cacare in mano - dio (qualunque fosse), non ce la facevo più, non avrei potuto sopportarlo, no...

Vedevo di nuovo il suo cervello sparso in mille pezzi sul letto, e i muri col sangue che colava, il suo sguardo perso nel vuoto - era morto, cazzo, era morto - oddio era morto sul serio, ero stato l'ultimo a sentire le sue parole, e tutte le cose che avevamo condiviso e quel suo sorriso sempre un po' depresso - no, no!

Non era vero, non era vero niente, era solo la mia fantasia che si era spinta un po’ in là, e intanto continuavo a chiamare il suo nome, senza potermi spostare dal letto - sarei corso da lui, se avessi potuto -, perché Alan non poteva averlo fatto davvero, io avevo bisogno di lui, ne avevo davvero bisogno, e non solo per ripetizioni o quello che era…

Io quegli occhi non li avrei più rivisti da nessuna parte, quel sorriso che non era mai un sorriso vero, perché c’era sempre Oliver a oscurarlo… Lui era infelice, così infelice e io non avevo mai avuto un attimo per capirlo, per stargli vicino, ma che stavo dicendo?

Potevo solo pregare: fa' che non sia morto, fa' che non sia morto.

Cominciavo ad avere paura, ma di quella vera. Era bastato un mese perché mi affezionassi così tanto a lui e non ero più sicuro che la nostra fosse solo amicizia, eravamo stati a un passo così dal baciarci, ma perché non lo avevo fatto? Se avessi potuto tornare indietro avrei fatto una scelta diversa, ma in fondo lui non era morto davvero, non potevo credere a una cosa del genere. Alan non era un codardo, non si sarebbe mai ammazzato al telefono con me, sapendo che mi sarei sentito in colpa tutta la vita e...

«... Nathan?»

Fa' che non sia--

«Vaffanculo, cazzo!»

Mi uscì spontaneo. Avevo il fiatone e me ne accorsi solo in quel momento. Mi portai una mano sul petto e respirai - ci provai, insomma, ma non riuscivo a farlo in modo normale.

Fan-culo.

Mi resi conto anche che le costole mi facevano male da morire. La testa mi scoppiava come se avessi studiato per otto ore filate. Ma Alan era vivo. Dio, ovunque fosse stato, aveva ascoltato le mie preghiere. Mi asciugai quelle lacrime che erano cadute da sole, senza che nemmeno me ne accorgessi.

Alan aveva parlato. Era vivo. Non c'era nessun cervello spappolato nella sua stanza. Chiusi gli occhi, come se tutta quella luce e tutte quelle ombre (orco compreso) fossero troppo per me, in quel momento.

«Scusami.»

La voce di Alan non mi era mai sembrata così bella. Sentirla era quasi come sentire la voce di una divinità, perché per me era una benedizione allo stesso modo.

E sì, caro Alan, potevi scusarti quanto volevi, ma il mio "Vaffanculo" non l'avrei ritirato per niente al mondo.

«Non farlo mai più o, se proprio devi, non quando sei al telefono con me, grazie!»

Mi lasciai affondare sul cuscino e mi resi conto di essere stato un po' scortese - ok, parecchio scortese. Ma io ancora non riuscivo a crederci, non riuscivo a pensare che quello che avevo vissuto era stato reale. Niente di quella giornata lo era sembrato, in realtà.

«Anche perché io stavo per morire di infarto, quindi sarei venuto a cercarti, sai? E credimi, ti saresti pentito subito di aver preferito l'Inferno a questa vita.»

«Quindi tu mi manderesti all'Inferno, invece che in Paradiso?»

«Dopo questa non ho più alcun dubbio.»

Ero sicuro, la sua era stata una risatina. Io però non ho riso per niente, avrei voluto dirgli. Ma lo sapeva di già, ne ero certo.

Dall'altro capo del telefono cadde di nuovo il silenzio. Dentro di me, però, sapevo che non avevo nulla da temere, che il momentaccio di Alan era ormai passato. Mandò un paio di sospiri forti e pensai che per quella sera non avrebbe detto altro, ma mi sbagliavo.

«Cosa volevi dirmi?»

«In che senso?»

La sua voce era diversa. Sembrava tornata quella dell'Alan di sempre, con quel pizzico di premura che ti faceva sentire coccolato. Guardai fuori dalla finestra ancora una volta, ma non si vedeva più granché: il Sole era già tramontato da un pezzo e l'edificio e l'albero erano adombrati da qualche palazzo più alto.

«Immagino che tu mi avessi telefonato per qualche motivo, no?»

Sì, be', in teoria era così. In pratica cominciai a credere che quella non fosse stata una coincidenza e che l'uomo non godesse totalmente del libero arbitrio come pensava. Se qualcuno mi avesse chiesto perché lo avevo chiamato proprio nel momento in cui l'avevo fatto, non me la sarei sentita di rispondere dicendo che era stato un caso.

«Sì, volevo aggiornarti su mio padre, ma non ha importanza. Sai che non me ne frega più così tanto? Non so, ho passato tutti questi anni a pensare a lui, a cercare di riconquistare la sua fiducia, e invece ora scopro che non me ne frega più nulla. In realtà, non mi frega più nulla di molte altre cose.»

Alan lanciò un sospiro secco. L'attimo dopo mi resi conto che, senza volerlo, tra quelle "altre cose" sembrava che ci avessi infilato pure lui. Per un attimo fui tentato dal correggere il tiro, ma poi, allo stesso modo, mi ronzò in testa il pensiero che fosse inutile. Forse in quel momento stava pensando che di lui non me ne importava così tanto o forse non nel senso che avrebbe voluto.

«Però stiamo qui a parlarne.»

«Te ne parlo perché volevo dirti che non me ne importa niente. Sennò non lo avresti capito, no? Ah, ma perché mi fai fare questi discorsi intortanti a quest'ora di sera?»

«Intortanti?»

«Sì, vabbè,» e mi scappò una risatina, «volevo dire che mi mandi in pappa il cervello.»

«Ah, grazie. Lo aggiungo alle traduzioni dal Nathanese

Io gli feci una pernacchia.

«Spiritoso.»

Il siparietto si chiuse lì. Se Alan fosse stato accanto al mio letto, probabilmente mi avrebbe riservato una delle sue occhiate, con cui avrebbe voluto comunicarmi una marea di cose. Lui, però, lì accanto a me non c’era e sentivo che, piano piano, si stava allontanando anche dalla parte più intima di me. Non era qualcosa che avrei voluto, né che stavo portando avanti in modo volontario; semplicemente, qualcosa tra di noi si era spezzato, forse per via della mia notizia, forse perché si sentiva in colpa per quello che era successo o forse perché le cose tra noi si stavano evolvendo a un ritmo che non riuscivamo a sostenere. A me faceva strano pensare a me e lui come coppia, perché eravamo così diversi che una nostra storia forse avrebbe retto un paio di mesi, esattamente come tutte le altre.

In quel momento, pensai che così come la telefonata non era stata una coincidenza, forse non lo era stato nemmeno il nostro incontro. Forse c’erano amori destinati a non sbocciare, a restare nel limbo dell’ipotetico, a lasciarti col dubbio tutta la vita. Cominciai a credere che Alan facesse parte di quella categoria, perché io l’avevo conosciuto quando la sua ferita per Oliver era ancora troppo fresca e io troppo immaturo per vivere finalmente come un ventunenne. Se ci fossimo incontrati anche solo sei mesi più tardi, probabilmente le cose sarebbero andate diversamente.

«Nathan?»

«Eh.»

«Ma quindi che ti ha detto tuo padre?»

Sbuffai. Non avevo voglia di parlarne e ascoltare la voce di Alan cominciò a farmi uno strano effetto. Se fino a quel momento mi aveva sempre rassicurato, ora cominciava ad avere un retrogusto dolceamaro, come quello delle strade che hai imboccato troppo presto.

«Ha fatto dei discorsi strani. Era tutto premuroso e mi ha detto che non credeva che avrei risposto così a mia madre. Sembrava quasi orgoglioso, era inquietante.»

«E non sei contento?»

«Mah, te l’ho detto, non mi importa più nulla.»

Mi sembrava così incredibile. E, ancora, tutta quella giornata mi era sembrata incredibile. Cinque minuti prima avevo sventato un suicidio e ora me ne stavo noiosamente a parlare di quanto non mi fregasse di mio padre. C’era un certo distacco nel mio modo di essere, come se fossi stato estraniato dalla realtà, a vivere una vita che non era mia. Chi era il nuovo Nathan? E chi era stato il vecchio, fino a quel momento?

«Nei prossimi giorni verrò a trovarti di nuovo. Ho delle novità sulle indagini che ritengo tu debba sapere.»

«Accidenti, non perdi tempo, tu.»

«Il crimine non va mica in vacanza, sai?»

Anche quel siparietto si chiuse lì. Sembrava che parlare diventasse ogni minuto più difficile, come se non avessimo più nulla di cui discutere, che non fossero le sue preoccupazioni per me o l’indagine. In realtà, non avevamo mai davvero parlato di qualcosa in particolare, ma c’era sempre stata una sintonia a pelle tra di noi. Perché le cose si erano evolute così? Perché mi sentivo nuovamente solo, proprio come il vecchio Nathan? Ed esisteva, da qualche parte nell’universo, un modo per rimettere a posto le cose tra me e lui?

Perdere Alan era l’ultima cosa che volevo, ma lui sembrava essersi chiuso nuovamente nel suo guscio. Ormai eravamo lontani, sicuramente lontani anni luce da ciò che eravamo stati fino a quel momento. Lui non avrebbe mai ammesso di essere innamorato di me e io, con quelle premesse, di fare un passo non me la sentivo proprio.

Ma perché mi sentivo angosciato in quel modo?

«Allora ci vediamo domani. Per stasera ti lascio riposare.»

«Va bene, buonanotte.»

«A te.»

Riattaccai e poggiai il telefonino dal mobiletto accanto al mio letto. Cercai di sistemarmi sotto le coperte stando attento a non toccare i punti dolenti, missione che portai a termine con successo. Mi resi conto che dovevo essere per forza sotto l’effetto di anti-dolorifici e all’improvviso capii perché mi sentivo tanto rincoglionito.

Per un attimo, pensai che quella giornata era stata solo il frutto della mia fantasia.

Era sembrato tutto così surreale - mio padre, il tentato suicidio di Alan, la distanza tra di noi. Mi addormentai convinto di aver ragione; col senno di poi, forse non sarebbe stato così male.

 

 

 

Angolo autrice

Salve a tutti!

Finalmente in questo capitolo vediamo uno straccio di rapporto civile tra Nathan e suo padre, che a quanto pare è rimasto impressionato dall’atteggiamento del figlio e, secondo me, anche dal drammatico evento di cui è stato vittima. Insomma, che abbia ritrovato un po’ di sale in quella zucca vuota? Chissà… XD

E nel frattempo Nathan coglie Alan in un momento di profonda crisi per quello che è accaduto. Per fortuna non è successo niente di grave ^^’

 

Per quanto riguarda la scrittura, dico con un certo orgoglio che sta andando a gonfie vele! Questo capitolo 32 mi sta ispirando tantissimo e sto scrivendo come una dannata, probabilmente lo finirò con largo anticipo rispetto alla scadenza che mi ero prefissata. Sono proprio contenta!

 

Ringrazio come sempre tutte le persone che seguono e recensiscono questa storia, il vostro sostegno è davvero fondamentale per me <3

 

A giovedì prossimo,

Simona

   
 
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