24.
Sabbia tra le dita
Ryan
era stato arrestato. Era accaduto qualche giorno prima, quando ancora il piede
non mi avrebbe permesso di dare il massimo, specie durante un’operazione così
delicata. Così se ne erano occupati Ash e Church, più un terzo uomo che mi
aveva sostituito per qualche giorno. Avevano trovato Ryan decisamente fatto,
incapace perfino di distinguere la divisa della polizia; se ciò da una parte
era stato sicuramente un bene, dall’altra mi aveva fatto pensare a Nathan e
alla sua malcelata disperazione di fronte alla sua vita che andava in frantumi.
Non
aveva avuto grande fortuna nello scegliersi gli affetti, questo andava detto.
Ma era anche vero che, a ben vedere, lui si sarebbe fidato di chiunque, perché
non aveva una gran capacità di filtrare le persone. D’altronde non aveva
problemi a fare da comparsa nelle vite degli altri, ma avevo capito che quella
era tutt’altro che la sua aspirazione. Per un attimo lo rividi infagottato in
quel letto di ospedale, soffocato da lenzuola forse troppo calde per lui; la
mente mi tornò a quel fugace istante, durato meno di un battito di ciglia, in
cui lo avevo guardato e avevo pensato a lui come a qualcosa di più di un amico.
La sensazione si era dissolta un secondo dopo, quando la realtà mi era sbattuta
in faccia come un boomerang, ricordandomi tutte le occasioni che avevo
volutamente perso.
La
quercia avrebbe potuto fare da cornice a una delle storie d’amore più
tormentate della storia; invece aveva solo assistito all’epilogo di ciò che
sarebbe potuto essere e non era stato. Codardia o solo consapevolezza? C'era un
confine molto sottile a dividere quelle due realtà e ancora non sapevo bene
quale fosse quella giusta.
Come
misi piede nella stanza d’ospedale, sentii una strana sensazione invadermi lo
stomaco. Forse era lo spettro di quella sua dichiarazione che ancora mi
aleggiava in testa, forse era l'idea di tornare da lui dopo l’ultima telefonata
che avevamo avuto, quella che mi aveva lasciato in uno stato catatonico che non
provavo più da mesi, ma che mi era sembrato più leggero dopo averlo condiviso
con qualcuno. Perché Nathan, con quel suo “vaffanculo”, era entrato a gamba
tesa in quella dimensione dove per tanto tempo eravamo esistiti solo io e il
mio dolore e lo aveva dissacrato come io non ero mai riuscito a fare, e mi
aveva impedito di lasciarmi risucchiare come tante volte era accaduto, più di
quante mi piaceva ammettere. E nel vederlo lì, disteso su quel letto
d’ospedale, mi chiesi come diamine facesse ad avere tutto quel potere su di me.
Il
letto di Nathan era separato con un parapetto da quello del suo compagno di
stanza e apprezzai il tentativo di riservare un po’ di intimità
all’interrogatorio. D’altronde, non era certamente possibile buttare fuori
l’altro uomo - che, dalla cartella clinica alla pediera del letto, scoprii
chiamarsi Jonathan Bayes - che anzi accolse con un sorriso la nostra entrata in
scena.
Prendemmo
posto di fronte al letto di Nathan, Ash già pronto a fare domande, io a
scrivere. Annusai l’aria e respirai un acre odore di disinfettante; la annusai
ancora, in cerca di quell’aroma di tabacco che Nathan si lasciava dietro ogni
volta, ma non ci riuscii. Mi domandai da quanto tempo non fumasse e un po’ mi
dispiacque per lui. Con un po’ di amarezza, pensai che non avrei più rivisto
scenate come quelle a cui avevo assistito la sera che dovevamo recarci al
Webster Hall. Quell’impazienza, quella sua frenesia che gli aveva squarciato la
razionalità… E come dimenticare le sue occhiate, il modo in cui arricciava le
labbra per sorridere, quegli occhi spalancati come se volessero fare da tramite
tra il suo mondo e il mio?
I
nostri sguardi si incrociarono per un istante: i suoi occhi erano serrati e,
come per paura che potessero comunicarmi qualcosa, li spostò rapidamente verso
Ash, al quale rivolse un sorriso di circostanza. Niente labbra arricciate, solo
un po’ tirate ai lati. Forse anche lui si sentiva a disagio per la telefonata o
magari per qualcos’altro.
«Come
ti senti? Stai meglio oggi?»
Lui
fece scorrere la testa sul cuscino per annuire.
«Sì,
riesco a tossire senza spezzarmi le costole.»
I
due emisero una risatina, mentre io osservai, fuori dalla finestra, gli alberi
frondosi muoversi al soffio del vento. Le chiome si agitavano lente, in un
movimento sinuoso e costante, che mi ricordò molto le onde che osservavo sulla
spiaggia di Brighton. L’acqua sulla riva inghiottiva i pensieri e li disperdeva
in quell’infinito azzurro di cui non potevo vedere la fine, ma poi le onde
tornavano indietro, l’acqua ti lambiva i piedi e ti ricordava che quei
pensieri, in fondo, un po’ ti appartenevano. Per quanto lontani potessero
andare, alla fine veniva sempre il momento in cui si affondava la mano nella
sabbia bagnata, se ne tirava su un cumulo sul palmo aperto e la si osservava
scivolare via tra le dita. E quando la sabbia era ormai fluita, giungeva il
tempo di alzarsi, di strofinarsi le mani e stropicciare i pantaloni per fare
ritorno a casa, dove ci saremmo guardati ancora quelle stesse dita per scoprire
la sabbia infiltrata sotto le unghie, un pezzo di quei pensieri che alla fine
aveva deciso di rimanere con noi.
Nathan
era la mia sabbia. L’avevo presa in mano e l’avevo osservata, studiata con la
pace necessaria e forse un po’ amata; ma non era solida abbastanza per rimanere
sul mio palmo e io non potevo fermare quell’emorragia che presto lo avrebbe
fatto tornare un ragazzo invisibile in una folla anonima.
«Siamo
venuti qui per farti qualche domanda sull’aggressione, come forse sai.»
Nathan
annuì ancora e Ash si voltò verso di me per indicarmi il blocchetto. Io lo
presi, mentre osservavo Nathan rifuggire il mio sguardo con insolita tenacia.
«Sì,
me l’avevate accennato. Sono pronto.»
Sorrisi
al suo “avevate”. Gliene avevo parlato solo io, ma quel plurale pareva per lui
una sorta di porto sicuro, perché gli aveva evitato di dire il mio nome e di
rivolgersi direttamente a me.
«Va
bene, cominciamo. Potresti raccontarci cos’è successo la sera del trentuno
agosto?»
Nathan
annuì e cominciò a raccontare. Parlò del fatto che eravamo insieme, dei posti
dove eravamo stati e della strada che avevamo fatto. Si soffermò a parlare dei
sei aggressori - e mi stupì in particolar modo il fatto che ne ricordasse il
numero -, per poi esitare l’attimo dopo. Il suo sguardo si perse in un punto
oltre la realtà, nei suoi ricordi, e lo vidi sbattere le palpebre di scatto una
manciata di volte, come a volersi proteggere.
Provai
pena per quel sentimento che aveva scelto di non comunicare a parole e
l’istinto mi invitò ad allungare una mano verso la sua, stesa supina accanto al
fianco destro. Un attimo dopo, mi resi conto di ciò che stavo per fare, del
fatto che c’era anche Ashton e che qualcosa tra me e Nathan era cambiato, ma
non in senso positivo. Ritirai le dita e le portai nuovamente sotto al
blocchetto, sul quale finii di riportare la testimonianza.
«Conoscevi
quei ragazzi?»
Nathan
emise un sospiro profondo. Arricciò le labbra con fare dubbioso - e no, non era
quel modo di arricciarle -, tirò la bocca da una parte e infine scosse
la testa sul cuscino.
«No,
non direi.»
«Perché
pensi che vi abbiano aggredito, allora?»
Ripensai
a quella sera. Io e lui non eravamo in un atteggiamento intimo e non c’era
nessun segnale che lasciasse intendere una qualche relazione sentimentale tra
di noi. La pista omofobica era da escludersi, a meno che quei ragazzi non
conoscessero Nathan, ma lui lo aveva già escluso.
«Non
lo so. Cioè--»
La
sua fronte si aggrottò per un attimo. Scostò il suo sguardo da noi per tornare
tra i suoi pensieri, che in quel momento non temeva. Teneva gli occhi spalancati,
come se lo sbattere delle palpebre potesse interferire con le sue riflessioni,
con quella deduzione che gli faceva aggrottare le sopracciglia sempre di più;
poi fu sul punto di uscir fuori da quelle labbra socchiuse, che si strinsero
l’attimo dopo per l’incertezza di ciò che stava per dire.
«...Sì?»
Il
respiro di Nathan si fece più affannoso.
«Cioè,
non so se possa incastrarci qualcosa, forse no.»
«Questo
lascialo stabilire a noi. Di che si tratta?»
Mi
tornò alla mente la dichiarazione che aveva rilasciato qualche tempo prima.
Nathan sapeva della droga. Sapeva cose che non avrebbe dovuto conoscere e il
modo in cui stava indugiando in quel momento mi ricordò molto l’interrogatorio
di Michael. Nella sua testa stava elaborando una versione da rifilarci, vera o
da spacciare per tale, e il sorrisetto sul viso di Ash mi fece quasi sperare
che la sua dichiarazione non contenesse niente di strano.
Ma
se così non fosse stato, io che cosa avrei fatto?
«Circa
una settimana fa sono tornato al Mc, quello dove ero stato con Harvey.»
«Mi
ricordo, ce lo avevi raccontato anche la scorsa volta.» Nathan fece una faccia
sorpresa, come se lo avesse scordato. «Se però pensi che possa avere a che fare
anche con l’aggressione, potrebbe essere una buona idea sentire di nuovo questa
parte. Dunque, potresti essere più preciso su “Harvey” e “Mc” di cui parli?»
«Sì,
scusa. Harvey Walker, il ragazzo con cui mi frequento… o meglio, frequentavo.
Mi aveva portato al McDonald sulla trentaquattresima. Come ho detto anche
l’altra volta, sono rimasto poco, forse una mezz’ora, e prima di andare via ho
incontrato Ryan Goldwin e l’altro tizio che sembra un armadio. Mi hanno detto
che facevo meglio ad andarmene o che le cose si sarebbero messe male.»
«Tu
te ne sei andato, corretto?»
Nathan
tornò a guardare Ash negli occhi.
«Certo,
me la sono fatta sotto. Non avevo voglia di incasinarmi inutilmente.»
«Chi
era questo “armadio”?»
«Un
tizio enorme che avevo già incontrato al Webster Hall. Ogni volta che mi vede
si scrocchia le dita, forse per mettermi paura. Devo dire che ci è riuscito.»
Ash
annuì appena e io trascrissi la dichiarazione sul taccuino.
«Perché
sei tornato in quel posto, comunque?»
Nathan
scostò di nuovo lo sguardo, in un punto non meglio definito tra i suoi piedi e
il carrello accostato al muro di fronte a lui. E a me ancora aleggiavano in
testa le parole: “Harvey Walker, il ragazzo con cui mi frequento”. Mi avevano
fatto uno strano effetto anche se poi ne aveva parlato al passato, ma non
riuscii a capire il perché. Ne presi nota con riluttanza.
«Volevo
saperne di più. Credo che quel posto abbia a che fare con Ryan e Harvey, e non
penso di essere tanto lontano dalla verità.»
«Spiegati
meglio, se non ti dispiace.»
Ashton
osservava Nathan quasi con la bava alla bocca, quella di qualcuno che vuole il
suo colpevole a tutti i costi. Mi apparve ancora più chiara la mia devozione
verso il ragazzo nascosto sotto quelle coperte, un senso di appartenenza che
era germogliato dentro di me e aveva affondato le sue radici in ogni angolo del
mio corpo, come una pianta rampicante che si prende lo spazio che merita.
Proprio come Nathan.
«In
quel posto gira un bel po’ di droga, ma questo lo sapete già, immagino. Non so
bene cosa volessi fare, forse trovare chi rifornisce Ryan e Harvey o qualcosa
del genere.»
«E
hai trovato quello che cercavi?»
«Non
lo so, non credo. Mi hanno detto dove stanno un paio di spacciatori legati a
quel locale, ma è tutto.»
«Però,
quando Goldwin ti ha visto lì, ti ha intimato di andartene. Potresti fornirci
le informazioni su questi spacciatori di cui parli?»
Nathan
riferì del tizio che stanziava regolarmente tra la decima e l’undicesima. Nel
momento in cui scrissi l’ultima parola, mi ricordai della storia dei volantini.
L’ultima ipotesi aveva coinvolto proprio Ryan, che, alla luce di quelle ultime
dichiarazioni, sembrava avere un buon motivo per vendicarsi dell’amico.
Rimaneva il fatto che, secondo Nathan, Ryan non era a conoscenza della sua
omosessualità, ma era plausibile che fossero state messe in giro delle voci e
che una di queste fosse arrivata alle orecchie del ragazzo.
Poteva
reggere una ricostruzione del genere?
«Va
bene. Quindi, riassumendo, tu non avevi idea di chi fossero i sei aggressori.
Stando a quanto dichiarato, però, è possibile che fossero stati mandati da Ryan
Goldwin per una ritorsione nei tuoi confronti, forse perché stavi facendo
troppe domande sul McDonald dove sei stato con Harvey Walker e dove hai visto
Goldwin, confermi?»
«Confermo.
Questa è l’unica spiegazione che mi viene in mente, specie per via del fatto
che si sono accaniti solo su di me.»
Era
incredibile come si ostinasse a non citarmi mai. Per lui, in un certo senso,
non esistevo più. Io invece continuavo a guardarlo di soppiatto, a lasciar
scorrere gli occhi sulle braccia nude e sulla sua pelle lattiginosa. Il viso,
al contrario, aveva un bel colorito e anche gli occhi erano piuttosto vispi;
per un attimo, avrei voluto vedere una sigaretta stretta tra le sue labbra, le
stesse che si stava leccando per inumidirle appena.
Tornai
a osservare Nathan e quella mano così vicina alle mie ginocchia, e notai che
aveva cominciato a stuzzicarsi la zona alla base del pollice con le unghie
dell’indice e del medio; una di queste doveva aver trovato una pellicina
tenace, perché sfregò con un più forza, fino a che non ebbe portato avanti la
sua opera di rimozione.
«Va
bene, grazie. Trascriviamo tutto al computer e poi ti portiamo la dichiarazione
da firmare, ok?»
«Certo,
nessun problema.»
Fece
un sorriso di circostanza e seguì i movimenti di Ashton mentre si alzava, poi i
nostri sguardi si incrociarono. Io abbassai subito il mio, riposi il taccuino
nella tasca della camicia, mi alzai e afferrai la sedia per rimetterla a posto.
«Alan.»
Mi
fermai. Sollevai la testa per scoprire che i suoi occhi erano dentro i miei e
che sembravano di nuovo aperti, pronti a farmi entrare dentro di lui.
«Sì?»
«Puoi
rimanere un attimo?»
Mi
voltai verso Ashton, che annuì con un cenno del capo, dopodiché lo vidi sparire
dietro il parapetto e uscire. Ero rimasto solo con Nathan - e il suo compagno
di stanza.
D’istinto,
misi mano al taccuino nella tasca e lo tirai fuori, poi sfilai la penna che
tenevo agganciata.
Nathan
sollevò il braccio.
«No,
no. Volevo parlarti di un’altra cosa. Siediti, se vuoi.»
Riposi
penna e taccuino. Spostai la sedia verso la testata del letto e presi posto.
Lui allungò una mano verso di me, ma la ritrasse subito dopo, proprio come
avevo fatto io poco prima. Poi sollevò lo sguardo e cominciammo la nostra
chiacchierata. A labbra serrate, cominciò a delimitare il nostro spazio, come
se a nessun altro fosse concesso di entrare; mi fece leggere il dispiacere che
provava, l’incapacità di gestire quella situazione che si era evoluta in un
modo tanto rapido quanto assurdo. Poi, alla fine, schiuse le labbra e sì, le
arricciò come aveva fatto ormai molti giorni prima, con quell’espressione di
chi osa ma ha paura di farlo. Si nascondeva dietro un sorriso audace e timido
insieme, come a voler sondare il terreno senza esporsi troppo. Io mi sforzai di
ricambiare, ma tirai appena le labbra.
Tutto
ciò che ci faceva da sottofondo era il sibilo del vento e il ronzio delle
lampade a neon, più i passi scalpitanti e ovattati nel corridoio.
«Mi
dispiace.»
Il
suo fu poco più che un sussurro. Istintivamente scossi appena il capo, come a
dire che non importava, che era tutto a posto e che se c’era qualcuno che
doveva dispiacersi, quello ero io. Lui però continuò.
«Mi
dispiace che le cose tra noi siano un po’ cambiate. Non volevo che succedesse.»
Non
sapevo cosa rispondere. Se avessi voluto dirgli tutto ciò che provavo, sarei
arrivato a un punto di non ritorno. Avrei ammesso tutto quello che avevo
pensato e desiderato sotto quella quercia, così come in mille altre occasioni.
Proseguì.
«Io
credo che sia meglio per entrambi parlare chiaro di questa faccenda. Ci tengo
alla tua amicizia.»
Lo
fissai ancora. Scrutai quei peletti di barba invisibile, la pelle del collo
nascosta dall’ombra del suo stesso viso. Avrei voluto stringerlo tra le mie
braccia. Fosse stato anche per una volta, una sola, unica volta…
Si
voltò e fissò il soffitto.
«Ok.
Ho capito. Lascia perdere. È evidente che interessa solo a me.»
«Che
stai dicendo?»
«Non
so, non dici niente.»
Feci
spallucce con enorme imbarazzo. Lui riprese a guardarmi.
«È
che per me non è semplice parlare di queste cose, Nathan. Insomma, io...»
«Forse
non era il momento per entrambi. Tu pensi ancora a Oliver e io non riesco a
fidarmi completamente. Ci siamo conosciuti troppo presto, è questo che penso. Però
mi piaci. E ogni santissima volta ho sperato che tu lo facessi, cavolo.»
«Potevi
baciarmi anche tu.»
Come
mi uscì quella frase fu un totale mistero anche per me. Nathan aveva continuato
a girare intorno alla questione in maniera magistrale, perché, nonostante tutti
i discorsi, lui non aveva mai accennato a un bacio o a una nostra possibile
relazione. Lo avevo fatto io, forse senza rendermene conto.
Lui
arrossì. Distolse lo sguardo, ma per una volta lo aveva fatto per un’emozione
positiva. Ero stato diretto, ma quella frase fu, senza dubbio, ciò che sciolse
l’inverno che aveva congelato il nostro rapporto. Sul suo sorriso si cancellò
ogni traccia di malizia e rimase solo una gioia malcelata. Allungò nuovamente
la sua mano verso di me e io poggiai il mio palmo sul suo. Lo accarezzai e
scoprii com’era sentirlo sotto le mie dita, com’era sentirlo un po’ mio.
Assomigliava in tutto e per tutto a una voragine pericolosa, ma allettante per
il turbinio che ti fa provare; e una parte di me, sotto sotto, non vedeva l’ora
di buttarcisi dentro.
L’espressione
di Nathan però si fece seria all’improvviso. Abbassò lo sguardo sulle nostre
mani e notai che la sua si fece più rigida.
«No»,
sussurrò. «Se lo facessi, sarebbe un po’ come mettermi tra te e Oliver… non
sarebbe giusto.»
Pensai
a qualcosa con cui ribattere, ma non mi venne in mente niente.
«Se
mai succederà», proseguì lui, «sarà perché lo vorrai tu.»
Lui
alzò gli occhi verso di me e ancora non riuscii a dire niente, forse perché in
fondo aveva ragione. In quel momento mi fu ancora più chiaro quanto io avessi
sprecato le occasioni che mi si erano presentate con Nathan, e di quanto io le
avessi sprecate volutamente, perché da qualche parte Oliver era ancora
con me.
Cominciai
un po’ ad annuire e un po’ a sorridere, finché la mano di Nathan non tornò
morbida nella mia. Calò il silenzio tra noi, così come era calato tante volte
nelle ultime occasioni in cui eravamo stati insieme, ma Nathan stavolta impedì
alla conversazione di cadere nel vuoto.
«Ah!
La sera prima della partenza ci vediamo, vero?»
«Quindi
vuoi ancora andartene?»
Feci
scorrere le mie dita sulle linee della sua mano, percorrendole per intero
finché non si interrompevano, e notai che la sua linea della vita era piuttosto
lunga.
«Non
la prendere sul personale. È solo che in queste ultime settimane mi sono
successe delle…», e notai la sua voce spezzarsi appena, «… cose che mi hanno
fatto capire che forse ho bisogno di imparare a stare da solo. Mi sembra
soltanto un’ottima occasione, tutto qua.»
La
sua mano si irrigidì di nuovo ed ebbi come il sospetto che non stesse parlando
dei volantini, né dell’aggressione. C’era qualcos’altro che lo turbava, ma
capii subito che non ne avrebbe parlato, almeno non in quel momento.
«Va
bene. E ovviamente ci vedremo prima della tua partenza. Anzi, potremmo
organizzare qualcosa, una festicciola.»
Vidi
i suoi occhi illuminarsi.
«Sì,
sarebbe fantastico! Potremmo invitare anche Ash e Nelly, mangiamo qualcosa
insieme e dopo ce ne andiamo a divertirci da qualche parte!»
Nathan
sorrise e lasciò che i suoi occhi vagassero verso un’immagine dal sapore
piacevole. Io invece cominciai a pensare all’esistenza o meno del fato, di cosa
sarebbe stato della mia vita se quella mattina non ci fosse stata la rapina.
Ero abbastanza certo che non avrei mai intrecciato la mia esistenza con un tipo
come lui, che avrei considerato così distante dal mio mondo; invece ero lì,
dopo aver superato una certa diffidenza e forse un paio di pregiudizi, a
guardare quanto fosse lunga la sua linea dell’amore - che in tutta onestà non
avrei saputo nemmeno interpretare.
«Ti
piace come idea?»
«Decisamente.»
«Va
bene, allora ti lascio andare, se devi.»
Annuii
e mi alzai, abbandonando la mano calda di Nathan. Lui non mi staccò gli occhi
di dosso neanche per un secondo, probabilmente nemmeno quando lasciai la
stanza.
Come
uscii fuori di lì, mi sentii più felice di un bambino con dello zucchero filato
in mano. Alla fine, era bastato solo avvicinare un po’ le dita perché la sabbia
non sgusciasse via.
Ashton
mi stava aspettando ritto in piedi, con la schiena poggiata sul muro adiacente
alla stanza. Teneva le mani in tasca e fissava una parte della striscia blu che
percorreva tutto l’intonaco di quel corridoio. Aveva un’espressione
concentrata, per certi versi perplessa.
«Tutto
bene?»
Lui
sussultò appena, quasi lo avessi spaventato, poi fece comparire sul volto un
sorriso di circostanza.
«Sì,
sì. Che ti ha detto Nathan?»
«Niente
che riguardasse l’indagine.»
Ero
già pronto a sorbirmi le sue solite battutine a riguardo, ma non disse nulla.
Si perse nuovamente a guardare la striscia blu. Tirò fuori una mano dalla tasca
e si grattò la fronte, poi sospirò.
«Vorrei
dirti ciò che penso di tutta questa faccenda. E te lo dico perché ho stima di
te e so che terrai fuori la tua vita privata quando sentirai ciò che sto per
dirti.»
«Di
che stai parlando?»
«Dell’indagine,
della rapina e di tutto il resto.»
«Preferisci
parlarne fuori?»
Fu
solo in quel momento che si voltò verso di me. Nei suoi occhi lessi il peso di
chi porta un fardello troppo pesante.
«Sì,
forse è meglio. Andiamo.»
Tornammo
alla macchina. L’aria si era fatta più frizzante e un brivido mi percorse la
schiena. Ash aveva appoggiato la schiena sulla portiera della macchina e io lo
raggiunsi poco dopo. Teneva le braccia conserte e il suo sguardo era troppo
pensieroso perché non mi preoccupassi.
«Va
bene, dimmi tutto. Che sta succedendo?»
Ash
fece scorrere una mano su e giù per il viso, come a volerlo risvegliare dal
torpore delle troppe riflessioni. Poi emise un sospiro profondo e mi fissò.
«C’è
qualcosa in questa storia che mi puzza. Ti chiedo di non interrompermi finché
non avrò finito. D’accordo?»
Io
annuii. Cercai di trovare un modo per contenere la mia agitazione, che mi stava
sconquassando da capo a piedi.
«Abbiamo
ricevuto una telefonata anonima. Mentre eri dentro con Nathan, mi ha chiamato
Church e me l’ha riferito. La telefonata diceva di frugare in casa di Nathan,
perché a quanto pare lì si nasconde uno dei cellulari utilizzati da Waitch per
le sue comunicazioni.»
La
brezza cominciò a diventare un vento fresco. Stesso concetto, ma meno
piacevole. Ash continuò.
«Dobbiamo
ancora verificare questa segnalazione e dobbiamo farlo senza destare sospetti,
ma non è questo il punto.»
Non
potevo crederci. Era tutta una montatura, doveva esserlo. Era ovvio che
qualcuno lo avesse incastrato, perché non era possibile. Nathan aveva bisogno
di soldi, sì, ma non era tipo da soldi sporchi. Voleva andarsene sull’altra
costa per rifarsi una vita, perché a Manhattan l’affitto lo stava strozzando e
anche perché aveva bisogno di trovare se stesso. Me l’aveva detto e io gli
avevo creduto. Gli credevo ancora.
«La
telefonata non parlava solo di questo, ma anche di bigliettini, identici a
quelli ricevuti da Michael Cossner. Sono bigliettini che servono a tenere
traccia dei debiti che i clienti contraggono con gli spacciatori, una sorta di
appunto volante. Certo è più sicuro così che non su qualche archivio
informatico, che può essere facilmente rubato o sequestrato.»
Io
ricordavo quei bigliettini. Ne ricordavo uno solo, in realtà: quello che lui mi
aveva mostrato quando ero andato nel suo appartamento, quello che lui aveva
ritrovato al McDonald, quello per cui mi aveva chiesto aiuto perché non sapeva
come interpretarlo.
Lo
aveva preso e me lo aveva fatto vedere perché sperava di capirne di più su
Harvey e Ryan, solo quello. Non c’erano altre motivazioni.
Io
avevo sempre aggiornato Ash su tutto. Gli avevo parlato del bigliettino che
Nathan mi aveva fatto vedere, l’innocenza con cui me lo aveva mostrato.
«Alan,
io credo che abbiamo preso una grossa cantonata. Pensaci: Michael è scomparso e
sappiamo che è per via di debiti di droga; anche Harvey non è più raggiungibile
e sappiamo che anche lui è implicato in questo giro. Ryan è stato arrestato per
la rapina che ha commesso. Non noti niente?»
Non
riuscii a dire nulla. Un formicolio si fece strada in me e mi gelò ogni muscolo,
come una consapevolezza che arriva prima di un pensiero. Ash si avvicinò a me e
mi afferrò per le spalle.
«Cosa
hanno in comune queste tre persone? Credo che tu possa arrivarci anche da solo.
Non avrei mai voluto dirtelo, ma forse Nathan non è quello che credi.»
Mi
liberai della stretta di Ash e ritrovai la forza di muovermi.
«Aspetta,
non così in fretta. Quindi Nathan sarebbe a capo di tutto? Della rapina? Della
droga? Devo ricordarti che c’era anche lui, quella mattina? È uno dei
testimoni!»
«O
forse è il palo. La rapina ha subito qualche intoppo e lui, per liberarsi, si è
finto un testimone. È geniale, lasciamelo dire.»
«E
la telecamera? Si vedeva chiaramente che lui stava entrando dentro, come un
qualunque utente delle poste!»
«E
che ne sappiamo? La ripresa era dall’alto, mostrava solo una parte di quel
video, non sappiamo il motivo per cui era lì. Forse voleva entrare dentro per
verificare la situazione, ma le cose non sono andate come aveva previsto.»
Era
tutto così assurdo. Provai per un attimo a guardare la faccenda da quella
prospettiva e mi sentii morire per quanto era credibile. La rapina, la
telefonata alla polizia… Poteva davvero essere tutta una montatura? Una
finzione?
Poi
però mi ricordai del battibecco tra me e Ashton dopo l’interrogatorio di
Michael Cossner, dove a suo dire non gli avevo lasciato abbastanza spazio per
dare sfoggio delle sue abilità. Ashton aveva grosse ambizioni personali e di
certo non era entrato in polizia per rimanere l’ultima ruota del carro. Mi resi
conto che forse avrebbe fatto anche carte false pur di fare una buona figura
con Church o per ottenere una promozione. Vista sotto quella prospettiva, la
faccenda assumeva un altro sapore.
Sbuffai.
«Tu
vuoi solo il tuo colpevole. Ti ho visto come hai guardato Nathan mentre eravamo
dentro con lui, sembrava quasi che tu aspettassi solo una sua confessione!»
Ashton
sogghignò e mi guardò con tono di sfida.
«Umph.
Si è proprio fatto amico il poliziotto, eh? Con te è stato anche fortunato,
perché la vostra amicizia è andata anche un po’ oltre. Ne ha approfittato per
confonderti, per tirarti dalla sua parte, in modo che tu non ti accorgessi di
niente. E proprio grazie a questo ti ha raccontato sempre e solo la versione
della realtà che gli faceva più comodo in quel momento, omettendo i dettagli
salienti e mostrandoti quelli che lo avrebbero fatto sembrare un’anima
innocente.»
«No,
non ci credo. È un’accusa enorme e in mano non hai niente di concreto.»
Eppure
mi aveva messo una pulce. Era stata tutta una bugia? Era forse quello il motivo
per cui Nathan non si legava alle persone? Una doppia vita, una finzione che
non riusciva a portare avanti stando con una persona?
Il
bigliettino che mi aveva fatto vedere. Aprii bocca per dire l’unica cosa che
non era ancora stata smontata, ma non ci speravo più.
«Ricordi
il bigliettino che mi aveva mostrato? Voleva che andassi con lui al McDonald
per fare delle domande al gestore.» Sospirai. «So già cosa obietterai.»
«Alan,
non lo dico con cattiveria, credimi. Ma tu quel pomeriggio non sei andato con
lui, vero?»
Due
lettere. La risposta era davanti ai miei occhi e, nonostante la fiducia che
nutrivo in Nathan, mi uscì solo con un pizzico di voce.
«No.»
«E
perché?»
Sbuffai
ancora. Già, io non ero andato con lui quel pomeriggio.
«Avevamo
litigato. Lui se l’era presa con me per quella faccenda di Steve.»
«Una
scusa cretina.»
Annuii.
«Una
scusa cretina. Abbastanza per tenermi lontano un pomeriggio. È questo che stai
dicendo?»
Solo
in quel momento trovai il coraggio di guardarlo. Tutto tornava. Tutto si
incastrava perfettamente, senza esitazione, e più ci pensavo, più gli elementi
trovavano finalmente un loro ordine, un elemento in comune che si traduceva nel
nome di Nathan.
«E
poi c’è la sua dichiarazione. Sapeva della rapina e del fatto che c’entrasse la
droga. Come avevamo già detto, non avrebbe potuto saperlo, a meno che non ci
fosse un suo coinvolgimento attivo in tutto questo.»
Eppure,
sembrava tutto troppo facile.
«Frena,
frena. Non possiamo tirare conclusioni così affrettate. Voglio prima verificare
quella segnalazione di cui mi parlavi. Magari non è vera o magari è una
montatura creata ad hoc per incastrarlo, non possiamo saperlo.»
Mi
resi conto che forse lo dicevo più a me stesso che a lui. Ero uscito dalla
stanza di Nathan pensando a quello che sarebbe potuto succedere tra noi; ora
guardavo alla sua partenza quasi come a un tentativo di fuga. L’aggressione era
stata pesante, ma diretta solo a lui, come a volerlo far apparire una vittima.
Anche quello era un dettaglio che stonava.
«Mi
dispiace, Alan. Non pensavo che saremmo arrivati a questo, ma era mio dovere
dirtelo. Non mi sarei potuto definire un poliziotto, sennò.»
Sospirai
e osservai lo sguardo duro e deciso di Ashton, quegli occhi che sembravano non
voler lasciare spazio alle interpretazioni. La sua era un’ipotesi accattivante,
quasi perfetta nella sua linearità… ma anche troppo perfetta.
Stava
cominciando a calare la sera. La luce del sole era sbiadita su quei palazzi
grigi, e illuminava soltanto le finestre più alte del Lenox Hill Hospital. La
stanza di Nathan era già al buio.
«Hai
fatto bene, se si hanno dubbi è sempre bene condividerli. Anche se continuo a
non spiegarmi la storia di Waitch. Pensavo avesse un qualche significato.»
«Forse
non è necessario che ce l’abbia. È un soprannome, nulla più. Un nome in codice
per non farsi riconoscere dagli altri.»
Osservai
gli ultimi raggi riflettersi sulle grandi vetrate dell’ospedale. Tra non
troppo, sarebbe scesa l’oscurità anche su di loro e anche su di me, perché più
i minuti passavano, più mi sentivo tentato dall’idea di Ashton, sebbene non mi
convincesse del tutto.
«E
pensare che ci ha pure dato degli spunti, su questa faccenda di Waitch.
“W-eitch”, come a voler farci credere che fossero delle iniziali. Non riesco a
crederci, eppure la tua ipotesi non è qualcosa che posso escludere totalmente.»
Ash
annuì, ma non disse niente. Io osservai i parafanghi dell’auto, metallici,
fibre senza problemi né pensieri, ma stavo guardando oltre.
La
verità era che mi sentivo a pezzi.
Ash
mi riportò a casa. Lo salutai distrattamente e sbagliai un paio di volte le
chiavi per aprire il portone. Non riuscivo a credere a quello che mi aveva
detto, eppure, se si mettevano in fila i tasselli come aveva suggerito lui, in
qualche modo filava tutto. Provai a entrare nella testa di Ash, a seguire il
filo dei suoi ragionamenti, e a riordinare gli eventi per come poteva averli
visti lui.
Partii
dalla fine: Nathan era un impostore. Aveva pilotato ogni cosa, fin dal primo
momento: Michael aveva un debito di droga con lui, che quindi aveva deciso di
effettuare la rapina per saldare i conti; poi le cose si erano messe male e si
era finto un testimone per salvarsi la pelle. Ryan probabilmente gli doveva
qualcosa, altrimenti non si spiegava perché Nathan lo avesse incastrato così
con le sue dichiarazioni sul colore degli occhi di uno dei rapinatori. Aveva
senso? Forse, pensai, mentre buttavo le chiavi sul porta-oggetti
all’ingresso.
Poi
c’era un altro dettaglio: lo scooter con cui i due rapinatori erano fuggiti non
era stato ritrovato. Non avrebbe destato sorprese trovarlo intestato a un
prestanome, che avrebbe condotto a Nathan. Intanto, però, la sua recita era
andata avanti: sapeva di avere fascino e lo aveva utilizzato nel modo più
subdolo possibile. Mi aveva fatto cadere ai suoi piedi - un gioco da ragazzi -,
mi aveva coinvolto attivamente nella ricerca della verità per le due persone a
cui teneva di più, Ryan Goldwin e Harvey Walker; mi aveva sempre mostrato
quello sguardo affranto, quella sofferenza. Accesi la luce della camera e tirai
fuori il pigiama da sotto il cuscino. Possibile che avesse mentito, e fino a
quel punto?
E
come giustificare la presenza di quei bigliettini a casa sua? Ma certo - gioco
da ragazzi pure questo -, li aveva trovati. In quel McDonald sulla
trentaquattresima, quello dove gira gente poco raccomandabile, ecco che aveva
razzolato nel cestino e trovato, per caso, un bigliettino identico a quello di
Michael. Una goccia di olio qui, una spruzzata di pomodoro là e il bigliettino
fasullo era bello che pronto.
Poi
era venuta la richiesta di indagine insieme a lui. Quale modo migliore per
spingermi dalla sua parte? Non c’era niente di più efficace che andare insieme,
per poi annullare tutto con una scusa stupida. Strizzai il tubetto di
dentifricio e ne lasciai un po’ sullo spazzolino. Cos’era andato a fare
davvero? Forse non era davvero importante o forse non ci era nemmeno andato sul
serio. La cosa essenziale era spuntare fuori dopo qualche giorno, fare la pace
e proseguire al solito modo.
Infine,
c’era stata la dichiarazione, l’unica parte in cui la mia fiducia in Nathan
aveva barcollato davvero e continuava a farlo. Aveva inciampato e, con ogni
probabilità, non se ne era nemmeno accorto. Non aveva mutato il suo
atteggiamento dopo la vicenda dei volantini - che forse, sempre seguendo il
ragionamento di Ash, poteva essere stata organizzata da lui stesso -, segno che
non aveva capito di aver detto qualcosa di più. Al di là di quello, lui sapeva
troppe cose. Informazioni che non poteva avere, se non per un suo diretto
coinvolgimento, come diceva Ash.
Mi
rigirai nel letto. Mi sembrava una conclusione molto, troppo affrettata e a me
non piaceva puntare il dito contro qualcuno senza uno straccio di prova, ma
d’altra parte era anche tutto così lineare. Tutto così ovvio, per certi versi.
Lo avevamo avuto davanti agli occhi per tutto quel tempo, c’era davvero la
possibilità che non ci fossimo mai accorti di nulla?
Rimaneva
fuori la questione di Waitch, ma non era nient’altro che un soprannome. Forse
il nome del suo cane da bambino o il nome di un amichetto che non trovava
troppo simpatico ai tempi della scuola.
Tornai
nella mia mente, a seguire il filo dei miei pensieri che però, inevitabilmente,
erano stati contaminati dalle parole di Ash, ma mi chiesi quanto davvero quella
storia fosse nata dalla sua ambizione e quanto invece fosse attinente alla
realtà. Davvero avrebbe fatto una carognata del genere solo per guadagnarsi un
posto ai piani alti? Non era una possibilità da escludere, perché in fondo
facevo ancora fatica a credere che tutta quella faccenda potesse stare in
piedi. Nathan un impostore? Non era possibile, no. Non volevo crederci.
Ma
da qualunque prospettiva la si guardasse, lo scontro con la realtà, vera o
presunta che fosse, appariva sempre duro e appuntito. Perché non mi sarei
arreso di fronte alle congetture di Ash senza una qualche dimostrazione da
parte sua, ma dovevo ammettere che alcuni dettagli su Nathan stonavano con
l’immagine del bravo ragazzo pronto ad aiutare un amico nei casini. E avevo
così tanta confusione in testa che non sapevo più di chi potevo fidarmi.
Quello
era il mio mondo: una continua salita e nessuna soddisfazione. I compagni che
la vita mi riservava servivano solo per vederli morire o disintegrarsi in
polvere, un sadico gioco per aumentare la pendenza della salita mentre io mi
voltavo per vederli sparire.
Mi
ricordai che c’era anche la segnalazione anonima da verificare. Forse avrebbe
potuto scongiurare il fatto che Nathan Hayworth non fosse mai esistito, ma in
ogni caso l’illusione di un mese faceva male come la delusione di una vita.
Alla fine la mia sabbia si era asciugata e mostrata per quella che era:
graniglia secca, leggera, pronta a vorticare al soffio del vento. Questi aveva
spirato, violento come una tempesta, spezzando ogni mia speranza; e la sabbia,
sicura nel palmo della mia mano, aveva ondeggiato dritta verso di me, fino a
finirmi negli occhi.
E
Dio, se bruciava.
Angolo
autrice
Salve
a tutti!
E
proprio quando sembrava che il rapporto tra i nostri due beniamini si fosse un
po’ disteso, ecco che arriva Ash a mettere pulci all’orecchio di Alan… Ci sarà
mai un po’ di pace? Chissà, per ora è la fiera del mainagioia XD E sarà
vero che Nathan in realtà ci ha fatto leggere solo quello che gli faceva
comodo? Chissà, chissà u.u
Ma
porto anche buone notizie (ogni tanto ci sta, via): ieri sera ho terminato il
capitolo 32 e penso che sia venuto molto bene! E quindi ora procedo con la
scrittura dell’ultimo, il 33… Vi giuro che sono davvero tanto malinconica all’idea
di lasciare questi due testoni, mi ci sono affezionata davvero tanto ç__ç Però
penso che questa storia avrà una degna conclusione, e devo unicamente a voi
lettori la spinta che ho trovato per scrivere questi ultimi capitoli. Quindi…
GRAZIE!
E
come sempre ringrazio tutti coloro che trovano il tempo di lasciarmi un piccolo
pensiero e anche quelli che si ritagliano un po’ di spazio per leggere e basta,
grazie davvero ç___ç
A
giovedì,
Simona