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Autore: holls    24/02/2022    6 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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24. Sabbia tra le dita

 

 

Ryan era stato arrestato. Era accaduto qualche giorno prima, quando ancora il piede non mi avrebbe permesso di dare il massimo, specie durante un’operazione così delicata. Così se ne erano occupati Ash e Church, più un terzo uomo che mi aveva sostituito per qualche giorno. Avevano trovato Ryan decisamente fatto, incapace perfino di distinguere la divisa della polizia; se ciò da una parte era stato sicuramente un bene, dall’altra mi aveva fatto pensare a Nathan e alla sua malcelata disperazione di fronte alla sua vita che andava in frantumi.

Non aveva avuto grande fortuna nello scegliersi gli affetti, questo andava detto. Ma era anche vero che, a ben vedere, lui si sarebbe fidato di chiunque, perché non aveva una gran capacità di filtrare le persone. D’altronde non aveva problemi a fare da comparsa nelle vite degli altri, ma avevo capito che quella era tutt’altro che la sua aspirazione. Per un attimo lo rividi infagottato in quel letto di ospedale, soffocato da lenzuola forse troppo calde per lui; la mente mi tornò a quel fugace istante, durato meno di un battito di ciglia, in cui lo avevo guardato e avevo pensato a lui come a qualcosa di più di un amico. La sensazione si era dissolta un secondo dopo, quando la realtà mi era sbattuta in faccia come un boomerang, ricordandomi tutte le occasioni che avevo volutamente perso.

La quercia avrebbe potuto fare da cornice a una delle storie d’amore più tormentate della storia; invece aveva solo assistito all’epilogo di ciò che sarebbe potuto essere e non era stato. Codardia o solo consapevolezza? C'era un confine molto sottile a dividere quelle due realtà e ancora non sapevo bene quale fosse quella giusta.

Come misi piede nella stanza d’ospedale, sentii una strana sensazione invadermi lo stomaco. Forse era lo spettro di quella sua dichiarazione che ancora mi aleggiava in testa, forse era l'idea di tornare da lui dopo l’ultima telefonata che avevamo avuto, quella che mi aveva lasciato in uno stato catatonico che non provavo più da mesi, ma che mi era sembrato più leggero dopo averlo condiviso con qualcuno. Perché Nathan, con quel suo “vaffanculo”, era entrato a gamba tesa in quella dimensione dove per tanto tempo eravamo esistiti solo io e il mio dolore e lo aveva dissacrato come io non ero mai riuscito a fare, e mi aveva impedito di lasciarmi risucchiare come tante volte era accaduto, più di quante mi piaceva ammettere. E nel vederlo lì, disteso su quel letto d’ospedale, mi chiesi come diamine facesse ad avere tutto quel potere su di me.

Il letto di Nathan era separato con un parapetto da quello del suo compagno di stanza e apprezzai il tentativo di riservare un po’ di intimità all’interrogatorio. D’altronde, non era certamente possibile buttare fuori l’altro uomo - che, dalla cartella clinica alla pediera del letto, scoprii chiamarsi Jonathan Bayes - che anzi accolse con un sorriso la nostra entrata in scena.

Prendemmo posto di fronte al letto di Nathan, Ash già pronto a fare domande, io a scrivere. Annusai l’aria e respirai un acre odore di disinfettante; la annusai ancora, in cerca di quell’aroma di tabacco che Nathan si lasciava dietro ogni volta, ma non ci riuscii. Mi domandai da quanto tempo non fumasse e un po’ mi dispiacque per lui. Con un po’ di amarezza, pensai che non avrei più rivisto scenate come quelle a cui avevo assistito la sera che dovevamo recarci al Webster Hall. Quell’impazienza, quella sua frenesia che gli aveva squarciato la razionalità… E come dimenticare le sue occhiate, il modo in cui arricciava le labbra per sorridere, quegli occhi spalancati come se volessero fare da tramite tra il suo mondo e il mio?

I nostri sguardi si incrociarono per un istante: i suoi occhi erano serrati e, come per paura che potessero comunicarmi qualcosa, li spostò rapidamente verso Ash, al quale rivolse un sorriso di circostanza. Niente labbra arricciate, solo un po’ tirate ai lati. Forse anche lui si sentiva a disagio per la telefonata o magari per qualcos’altro.

«Come ti senti? Stai meglio oggi?»

Lui fece scorrere la testa sul cuscino per annuire.

«Sì, riesco a tossire senza spezzarmi le costole.»

I due emisero una risatina, mentre io osservai, fuori dalla finestra, gli alberi frondosi muoversi al soffio del vento. Le chiome si agitavano lente, in un movimento sinuoso e costante, che mi ricordò molto le onde che osservavo sulla spiaggia di Brighton. L’acqua sulla riva inghiottiva i pensieri e li disperdeva in quell’infinito azzurro di cui non potevo vedere la fine, ma poi le onde tornavano indietro, l’acqua ti lambiva i piedi e ti ricordava che quei pensieri, in fondo, un po’ ti appartenevano. Per quanto lontani potessero andare, alla fine veniva sempre il momento in cui si affondava la mano nella sabbia bagnata, se ne tirava su un cumulo sul palmo aperto e la si osservava scivolare via tra le dita. E quando la sabbia era ormai fluita, giungeva il tempo di alzarsi, di strofinarsi le mani e stropicciare i pantaloni per fare ritorno a casa, dove ci saremmo guardati ancora quelle stesse dita per scoprire la sabbia infiltrata sotto le unghie, un pezzo di quei pensieri che alla fine aveva deciso di rimanere con noi.

Nathan era la mia sabbia. L’avevo presa in mano e l’avevo osservata, studiata con la pace necessaria e forse un po’ amata; ma non era solida abbastanza per rimanere sul mio palmo e io non potevo fermare quell’emorragia che presto lo avrebbe fatto tornare un ragazzo invisibile in una folla anonima.

«Siamo venuti qui per farti qualche domanda sull’aggressione, come forse sai.»

Nathan annuì ancora e Ash si voltò verso di me per indicarmi il blocchetto. Io lo presi, mentre osservavo Nathan rifuggire il mio sguardo con insolita tenacia.

«Sì, me l’avevate accennato. Sono pronto.»

Sorrisi al suo “avevate”. Gliene avevo parlato solo io, ma quel plurale pareva per lui una sorta di porto sicuro, perché gli aveva evitato di dire il mio nome e di rivolgersi direttamente a me.

«Va bene, cominciamo. Potresti raccontarci cos’è successo la sera del trentuno agosto?»

Nathan annuì e cominciò a raccontare. Parlò del fatto che eravamo insieme, dei posti dove eravamo stati e della strada che avevamo fatto. Si soffermò a parlare dei sei aggressori - e mi stupì in particolar modo il fatto che ne ricordasse il numero -, per poi esitare l’attimo dopo. Il suo sguardo si perse in un punto oltre la realtà, nei suoi ricordi, e lo vidi sbattere le palpebre di scatto una manciata di volte, come a volersi proteggere.

Provai pena per quel sentimento che aveva scelto di non comunicare a parole e l’istinto mi invitò ad allungare una mano verso la sua, stesa supina accanto al fianco destro. Un attimo dopo, mi resi conto di ciò che stavo per fare, del fatto che c’era anche Ashton e che qualcosa tra me e Nathan era cambiato, ma non in senso positivo. Ritirai le dita e le portai nuovamente sotto al blocchetto, sul quale finii di riportare la testimonianza.

 «Conoscevi quei ragazzi?»

Nathan emise un sospiro profondo. Arricciò le labbra con fare dubbioso - e no, non era quel modo di arricciarle -, tirò la bocca da una parte e infine scosse la testa sul cuscino.

«No, non direi.»

«Perché pensi che vi abbiano aggredito, allora?»

Ripensai a quella sera. Io e lui non eravamo in un atteggiamento intimo e non c’era nessun segnale che lasciasse intendere una qualche relazione sentimentale tra di noi. La pista omofobica era da escludersi, a meno che quei ragazzi non conoscessero Nathan, ma lui lo aveva già escluso.

«Non lo so. Cioè--»

La sua fronte si aggrottò per un attimo. Scostò il suo sguardo da noi per tornare tra i suoi pensieri, che in quel momento non temeva. Teneva gli occhi spalancati, come se lo sbattere delle palpebre potesse interferire con le sue riflessioni, con quella deduzione che gli faceva aggrottare le sopracciglia sempre di più; poi fu sul punto di uscir fuori da quelle labbra socchiuse, che si strinsero l’attimo dopo per l’incertezza di ciò che stava per dire.

«...Sì?»

Il respiro di Nathan si fece più affannoso.

«Cioè, non so se possa incastrarci qualcosa, forse no.»

«Questo lascialo stabilire a noi. Di che si tratta?»

Mi tornò alla mente la dichiarazione che aveva rilasciato qualche tempo prima. Nathan sapeva della droga. Sapeva cose che non avrebbe dovuto conoscere e il modo in cui stava indugiando in quel momento mi ricordò molto l’interrogatorio di Michael. Nella sua testa stava elaborando una versione da rifilarci, vera o da spacciare per tale, e il sorrisetto sul viso di Ash mi fece quasi sperare che la sua dichiarazione non contenesse niente di strano.

Ma se così non fosse stato, io che cosa avrei fatto?

«Circa una settimana fa sono tornato al Mc, quello dove ero stato con Harvey.»

«Mi ricordo, ce lo avevi raccontato anche la scorsa volta.» Nathan fece una faccia sorpresa, come se lo avesse scordato. «Se però pensi che possa avere a che fare anche con l’aggressione, potrebbe essere una buona idea sentire di nuovo questa parte. Dunque, potresti essere più preciso su “Harvey” e “Mc” di cui parli?»

«Sì, scusa. Harvey Walker, il ragazzo con cui mi frequento… o meglio, frequentavo. Mi aveva portato al McDonald sulla trentaquattresima. Come ho detto anche l’altra volta, sono rimasto poco, forse una mezz’ora, e prima di andare via ho incontrato Ryan Goldwin e l’altro tizio che sembra un armadio. Mi hanno detto che facevo meglio ad andarmene o che le cose si sarebbero messe male.»

«Tu te ne sei andato, corretto?»

Nathan tornò a guardare Ash negli occhi.

«Certo, me la sono fatta sotto. Non avevo voglia di incasinarmi inutilmente.»

«Chi era questo “armadio”?»

«Un tizio enorme che avevo già incontrato al Webster Hall. Ogni volta che mi vede si scrocchia le dita, forse per mettermi paura. Devo dire che ci è riuscito.»

Ash annuì appena e io trascrissi la dichiarazione sul taccuino.

«Perché sei tornato in quel posto, comunque?»

Nathan scostò di nuovo lo sguardo, in un punto non meglio definito tra i suoi piedi e il carrello accostato al muro di fronte a lui. E a me ancora aleggiavano in testa le parole: “Harvey Walker, il ragazzo con cui mi frequento”. Mi avevano fatto uno strano effetto anche se poi ne aveva parlato al passato, ma non riuscii a capire il perché. Ne presi nota con riluttanza.

«Volevo saperne di più. Credo che quel posto abbia a che fare con Ryan e Harvey, e non penso di essere tanto lontano dalla verità.»

«Spiegati meglio, se non ti dispiace.»

Ashton osservava Nathan quasi con la bava alla bocca, quella di qualcuno che vuole il suo colpevole a tutti i costi. Mi apparve ancora più chiara la mia devozione verso il ragazzo nascosto sotto quelle coperte, un senso di appartenenza che era germogliato dentro di me e aveva affondato le sue radici in ogni angolo del mio corpo, come una pianta rampicante che si prende lo spazio che merita. Proprio come Nathan.

«In quel posto gira un bel po’ di droga, ma questo lo sapete già, immagino. Non so bene cosa volessi fare, forse trovare chi rifornisce Ryan e Harvey o qualcosa del genere.»

«E hai trovato quello che cercavi?»

«Non lo so, non credo. Mi hanno detto dove stanno un paio di spacciatori legati a quel locale, ma è tutto.»

«Però, quando Goldwin ti ha visto lì, ti ha intimato di andartene. Potresti fornirci le informazioni su questi spacciatori di cui parli?»

Nathan riferì del tizio che stanziava regolarmente tra la decima e l’undicesima. Nel momento in cui scrissi l’ultima parola, mi ricordai della storia dei volantini. L’ultima ipotesi aveva coinvolto proprio Ryan, che, alla luce di quelle ultime dichiarazioni, sembrava avere un buon motivo per vendicarsi dell’amico. Rimaneva il fatto che, secondo Nathan, Ryan non era a conoscenza della sua omosessualità, ma era plausibile che fossero state messe in giro delle voci e che una di queste fosse arrivata alle orecchie del ragazzo.

Poteva reggere una ricostruzione del genere?

«Va bene. Quindi, riassumendo, tu non avevi idea di chi fossero i sei aggressori. Stando a quanto dichiarato, però, è possibile che fossero stati mandati da Ryan Goldwin per una ritorsione nei tuoi confronti, forse perché stavi facendo troppe domande sul McDonald dove sei stato con Harvey Walker e dove hai visto Goldwin, confermi?»

«Confermo. Questa è l’unica spiegazione che mi viene in mente, specie per via del fatto che si sono accaniti solo su di me.»

Era incredibile come si ostinasse a non citarmi mai. Per lui, in un certo senso, non esistevo più. Io invece continuavo a guardarlo di soppiatto, a lasciar scorrere gli occhi sulle braccia nude e sulla sua pelle lattiginosa. Il viso, al contrario, aveva un bel colorito e anche gli occhi erano piuttosto vispi; per un attimo, avrei voluto vedere una sigaretta stretta tra le sue labbra, le stesse che si stava leccando per inumidirle appena.

Tornai a osservare Nathan e quella mano così vicina alle mie ginocchia, e notai che aveva cominciato a stuzzicarsi la zona alla base del pollice con le unghie dell’indice e del medio; una di queste doveva aver trovato una pellicina tenace, perché sfregò con un più forza, fino a che non ebbe portato avanti la sua opera di rimozione.

«Va bene, grazie. Trascriviamo tutto al computer e poi ti portiamo la dichiarazione da firmare, ok?»

«Certo, nessun problema.»

Fece un sorriso di circostanza e seguì i movimenti di Ashton mentre si alzava, poi i nostri sguardi si incrociarono. Io abbassai subito il mio, riposi il taccuino nella tasca della camicia, mi alzai e afferrai la sedia per rimetterla a posto.

«Alan.»

Mi fermai. Sollevai la testa per scoprire che i suoi occhi erano dentro i miei e che sembravano di nuovo aperti, pronti a farmi entrare dentro di lui.

«Sì?»

«Puoi rimanere un attimo?»

Mi voltai verso Ashton, che annuì con un cenno del capo, dopodiché lo vidi sparire dietro il parapetto e uscire. Ero rimasto solo con Nathan - e il suo compagno di stanza.

D’istinto, misi mano al taccuino nella tasca e lo tirai fuori, poi sfilai la penna che tenevo agganciata.

Nathan sollevò il braccio.

«No, no. Volevo parlarti di un’altra cosa. Siediti, se vuoi.»

Riposi penna e taccuino. Spostai la sedia verso la testata del letto e presi posto. Lui allungò una mano verso di me, ma la ritrasse subito dopo, proprio come avevo fatto io poco prima. Poi sollevò lo sguardo e cominciammo la nostra chiacchierata. A labbra serrate, cominciò a delimitare il nostro spazio, come se a nessun altro fosse concesso di entrare; mi fece leggere il dispiacere che provava, l’incapacità di gestire quella situazione che si era evoluta in un modo tanto rapido quanto assurdo. Poi, alla fine, schiuse le labbra e sì, le arricciò come aveva fatto ormai molti giorni prima, con quell’espressione di chi osa ma ha paura di farlo. Si nascondeva dietro un sorriso audace e timido insieme, come a voler sondare il terreno senza esporsi troppo. Io mi sforzai di ricambiare, ma tirai appena le labbra.

Tutto ciò che ci faceva da sottofondo era il sibilo del vento e il ronzio delle lampade a neon, più i passi scalpitanti e ovattati nel corridoio.

«Mi dispiace.»

Il suo fu poco più che un sussurro. Istintivamente scossi appena il capo, come a dire che non importava, che era tutto a posto e che se c’era qualcuno che doveva dispiacersi, quello ero io. Lui però continuò.

«Mi dispiace che le cose tra noi siano un po’ cambiate. Non volevo che succedesse.»

Non sapevo cosa rispondere. Se avessi voluto dirgli tutto ciò che provavo, sarei arrivato a un punto di non ritorno. Avrei ammesso tutto quello che avevo pensato e desiderato sotto quella quercia, così come in mille altre occasioni.

Proseguì.

«Io credo che sia meglio per entrambi parlare chiaro di questa faccenda. Ci tengo alla tua amicizia.»

Lo fissai ancora. Scrutai quei peletti di barba invisibile, la pelle del collo nascosta dall’ombra del suo stesso viso. Avrei voluto stringerlo tra le mie braccia. Fosse stato anche per una volta, una sola, unica volta…

Si voltò e fissò il soffitto.

«Ok. Ho capito. Lascia perdere. È evidente che interessa solo a me.»

«Che stai dicendo?»

«Non so, non dici niente.»

Feci spallucce con enorme imbarazzo. Lui riprese a guardarmi.

«È che per me non è semplice parlare di queste cose, Nathan. Insomma, io...»

«Forse non era il momento per entrambi. Tu pensi ancora a Oliver e io non riesco a fidarmi completamente. Ci siamo conosciuti troppo presto, è questo che penso. Però mi piaci. E ogni santissima volta ho sperato che tu lo facessi, cavolo.»

«Potevi baciarmi anche tu.»

Come mi uscì quella frase fu un totale mistero anche per me. Nathan aveva continuato a girare intorno alla questione in maniera magistrale, perché, nonostante tutti i discorsi, lui non aveva mai accennato a un bacio o a una nostra possibile relazione. Lo avevo fatto io, forse senza rendermene conto.

Lui arrossì. Distolse lo sguardo, ma per una volta lo aveva fatto per un’emozione positiva. Ero stato diretto, ma quella frase fu, senza dubbio, ciò che sciolse l’inverno che aveva congelato il nostro rapporto. Sul suo sorriso si cancellò ogni traccia di malizia e rimase solo una gioia malcelata. Allungò nuovamente la sua mano verso di me e io poggiai il mio palmo sul suo. Lo accarezzai e scoprii com’era sentirlo sotto le mie dita, com’era sentirlo un po’ mio. Assomigliava in tutto e per tutto a una voragine pericolosa, ma allettante per il turbinio che ti fa provare; e una parte di me, sotto sotto, non vedeva l’ora di buttarcisi dentro.

L’espressione di Nathan però si fece seria all’improvviso. Abbassò lo sguardo sulle nostre mani e notai che la sua si fece più rigida.

«No», sussurrò. «Se lo facessi, sarebbe un po’ come mettermi tra te e Oliver… non sarebbe giusto.»

Pensai a qualcosa con cui ribattere, ma non mi venne in mente niente.

«Se mai succederà», proseguì lui, «sarà perché lo vorrai tu.»

Lui alzò gli occhi verso di me e ancora non riuscii a dire niente, forse perché in fondo aveva ragione. In quel momento mi fu ancora più chiaro quanto io avessi sprecato le occasioni che mi si erano presentate con Nathan, e di quanto io le avessi sprecate volutamente, perché da qualche parte Oliver era ancora con me.

Cominciai un po’ ad annuire e un po’ a sorridere, finché la mano di Nathan non tornò morbida nella mia. Calò il silenzio tra noi, così come era calato tante volte nelle ultime occasioni in cui eravamo stati insieme, ma Nathan stavolta impedì alla conversazione di cadere nel vuoto.

«Ah! La sera prima della partenza ci vediamo, vero?»

«Quindi vuoi ancora andartene?»

Feci scorrere le mie dita sulle linee della sua mano, percorrendole per intero finché non si interrompevano, e notai che la sua linea della vita era piuttosto lunga.

«Non la prendere sul personale. È solo che in queste ultime settimane mi sono successe delle…», e notai la sua voce spezzarsi appena, «… cose che mi hanno fatto capire che forse ho bisogno di imparare a stare da solo. Mi sembra soltanto un’ottima occasione, tutto qua.»

La sua mano si irrigidì di nuovo ed ebbi come il sospetto che non stesse parlando dei volantini, né dell’aggressione. C’era qualcos’altro che lo turbava, ma capii subito che non ne avrebbe parlato, almeno non in quel momento.

«Va bene. E ovviamente ci vedremo prima della tua partenza. Anzi, potremmo organizzare qualcosa, una festicciola.»

Vidi i suoi occhi illuminarsi.

«Sì, sarebbe fantastico! Potremmo invitare anche Ash e Nelly, mangiamo qualcosa insieme e dopo ce ne andiamo a divertirci da qualche parte!»

Nathan sorrise e lasciò che i suoi occhi vagassero verso un’immagine dal sapore piacevole. Io invece cominciai a pensare all’esistenza o meno del fato, di cosa sarebbe stato della mia vita se quella mattina non ci fosse stata la rapina. Ero abbastanza certo che non avrei mai intrecciato la mia esistenza con un tipo come lui, che avrei considerato così distante dal mio mondo; invece ero lì, dopo aver superato una certa diffidenza e forse un paio di pregiudizi, a guardare quanto fosse lunga la sua linea dell’amore - che in tutta onestà non avrei saputo nemmeno interpretare.

«Ti piace come idea?»

«Decisamente.»

«Va bene, allora ti lascio andare, se devi.»

Annuii e mi alzai, abbandonando la mano calda di Nathan. Lui non mi staccò gli occhi di dosso neanche per un secondo, probabilmente nemmeno quando lasciai la stanza.

Come uscii fuori di lì, mi sentii più felice di un bambino con dello zucchero filato in mano. Alla fine, era bastato solo avvicinare un po’ le dita perché la sabbia non sgusciasse via.

 

Ashton mi stava aspettando ritto in piedi, con la schiena poggiata sul muro adiacente alla stanza. Teneva le mani in tasca e fissava una parte della striscia blu che percorreva tutto l’intonaco di quel corridoio. Aveva un’espressione concentrata, per certi versi perplessa.

          «Tutto bene?»

Lui sussultò appena, quasi lo avessi spaventato, poi fece comparire sul volto un sorriso di circostanza.

«Sì, sì. Che ti ha detto Nathan?»

«Niente che riguardasse l’indagine.»

Ero già pronto a sorbirmi le sue solite battutine a riguardo, ma non disse nulla. Si perse nuovamente a guardare la striscia blu. Tirò fuori una mano dalla tasca e si grattò la fronte, poi sospirò.

«Vorrei dirti ciò che penso di tutta questa faccenda. E te lo dico perché ho stima di te e so che terrai fuori la tua vita privata quando sentirai ciò che sto per dirti.»

«Di che stai parlando?»

«Dell’indagine, della rapina e di tutto il resto.»

«Preferisci parlarne fuori?»

Fu solo in quel momento che si voltò verso di me. Nei suoi occhi lessi il peso di chi porta un fardello troppo pesante.

«Sì, forse è meglio. Andiamo.»

 

Tornammo alla macchina. L’aria si era fatta più frizzante e un brivido mi percorse la schiena. Ash aveva appoggiato la schiena sulla portiera della macchina e io lo raggiunsi poco dopo. Teneva le braccia conserte e il suo sguardo era troppo pensieroso perché non mi preoccupassi.

          «Va bene, dimmi tutto. Che sta succedendo?»

Ash fece scorrere una mano su e giù per il viso, come a volerlo risvegliare dal torpore delle troppe riflessioni. Poi emise un sospiro profondo e mi fissò.

«C’è qualcosa in questa storia che mi puzza. Ti chiedo di non interrompermi finché non avrò finito. D’accordo?»

Io annuii. Cercai di trovare un modo per contenere la mia agitazione, che mi stava sconquassando da capo a piedi.

«Abbiamo ricevuto una telefonata anonima. Mentre eri dentro con Nathan, mi ha chiamato Church e me l’ha riferito. La telefonata diceva di frugare in casa di Nathan, perché a quanto pare lì si nasconde uno dei cellulari utilizzati da Waitch per le sue comunicazioni.»

La brezza cominciò a diventare un vento fresco. Stesso concetto, ma meno piacevole. Ash continuò.

«Dobbiamo ancora verificare questa segnalazione e dobbiamo farlo senza destare sospetti, ma non è questo il punto.»

Non potevo crederci. Era tutta una montatura, doveva esserlo. Era ovvio che qualcuno lo avesse incastrato, perché non era possibile. Nathan aveva bisogno di soldi, sì, ma non era  tipo da soldi sporchi. Voleva andarsene sull’altra costa per rifarsi una vita, perché a Manhattan l’affitto lo stava strozzando e anche perché aveva bisogno di trovare se stesso. Me l’aveva detto e io gli avevo creduto. Gli credevo ancora.

«La telefonata non parlava solo di questo, ma anche di bigliettini, identici a quelli ricevuti da Michael Cossner. Sono bigliettini che servono a tenere traccia dei debiti che i clienti contraggono con gli spacciatori, una sorta di appunto volante. Certo è più sicuro così che non su qualche archivio informatico, che può essere facilmente rubato o sequestrato.»

Io ricordavo quei bigliettini. Ne ricordavo uno solo, in realtà: quello che lui mi aveva mostrato quando ero andato nel suo appartamento, quello che lui aveva ritrovato al McDonald, quello per cui mi aveva chiesto aiuto perché non sapeva come interpretarlo.

Lo aveva preso e me lo aveva fatto vedere perché sperava di capirne di più su Harvey e Ryan, solo quello. Non c’erano altre motivazioni.

Io avevo sempre aggiornato Ash su tutto. Gli avevo parlato del bigliettino che Nathan mi aveva fatto vedere, l’innocenza con cui me lo aveva mostrato.

«Alan, io credo che abbiamo preso una grossa cantonata. Pensaci: Michael è scomparso e sappiamo che è per via di debiti di droga; anche Harvey non è più raggiungibile e sappiamo che anche lui è implicato in questo giro. Ryan è stato arrestato per la rapina che ha commesso. Non noti niente?»

Non riuscii a dire nulla. Un formicolio si fece strada in me e mi gelò ogni muscolo, come una consapevolezza che arriva prima di un pensiero. Ash si avvicinò a me e mi afferrò per le spalle.

«Cosa hanno in comune queste tre persone? Credo che tu possa arrivarci anche da solo. Non avrei mai voluto dirtelo, ma forse Nathan non è quello che credi.»

Mi liberai della stretta di Ash e ritrovai la forza di muovermi.

«Aspetta, non così in fretta. Quindi Nathan sarebbe a capo di tutto? Della rapina? Della droga? Devo ricordarti che c’era anche lui, quella mattina? È uno dei testimoni!»

«O forse è il palo. La rapina ha subito qualche intoppo e lui, per liberarsi, si è finto un testimone. È geniale, lasciamelo dire.»

«E la telecamera? Si vedeva chiaramente che lui stava entrando dentro, come un qualunque utente delle poste!»

«E che ne sappiamo? La ripresa era dall’alto, mostrava solo una parte di quel video, non sappiamo il motivo per cui era lì. Forse voleva entrare dentro per verificare la situazione, ma le cose non sono andate come aveva previsto.»

Era tutto così assurdo. Provai per un attimo a guardare la faccenda da quella prospettiva e mi sentii morire per quanto era credibile. La rapina, la telefonata alla polizia… Poteva davvero essere tutta una montatura? Una finzione?

Poi però mi ricordai del battibecco tra me e Ashton dopo l’interrogatorio di Michael Cossner, dove a suo dire non gli avevo lasciato abbastanza spazio per dare sfoggio delle sue abilità. Ashton aveva grosse ambizioni personali e di certo non era entrato in polizia per rimanere l’ultima ruota del carro. Mi resi conto che forse avrebbe fatto anche carte false pur di fare una buona figura con Church o per ottenere una promozione. Vista sotto quella prospettiva, la faccenda assumeva un altro sapore.

Sbuffai.

«Tu vuoi solo il tuo colpevole. Ti ho visto come hai guardato Nathan mentre eravamo dentro con lui, sembrava quasi che tu aspettassi solo una sua confessione!»

Ashton sogghignò e mi guardò con tono di sfida.

«Umph. Si è proprio fatto amico il poliziotto, eh? Con te è stato anche fortunato, perché la vostra amicizia è andata anche un po’ oltre. Ne ha approfittato per confonderti, per tirarti dalla sua parte, in modo che tu non ti accorgessi di niente. E proprio grazie a questo ti ha raccontato sempre e solo la versione della realtà che gli faceva più comodo in quel momento, omettendo i dettagli salienti e mostrandoti quelli che lo avrebbero fatto sembrare un’anima innocente.»

«No, non ci credo. È un’accusa enorme e in mano non hai niente di concreto.»

Eppure mi aveva messo una pulce. Era stata tutta una bugia? Era forse quello il motivo per cui Nathan non si legava alle persone? Una doppia vita, una finzione che non riusciva a portare avanti stando con una persona?

Il bigliettino che mi aveva fatto vedere. Aprii bocca per dire l’unica cosa che non era ancora stata smontata, ma non ci speravo più.

«Ricordi il bigliettino che mi aveva mostrato? Voleva che andassi con lui al McDonald per fare delle domande al gestore.» Sospirai. «So già cosa obietterai.»

«Alan, non lo dico con cattiveria, credimi. Ma tu quel pomeriggio non sei andato con lui, vero?»

Due lettere. La risposta era davanti ai miei occhi e, nonostante la fiducia che nutrivo in Nathan, mi uscì solo con un pizzico di voce.

«No.»

«E perché?»

Sbuffai ancora. Già, io non ero andato con lui quel pomeriggio.

«Avevamo litigato. Lui se l’era presa con me per quella faccenda di Steve.»

«Una scusa cretina.»

Annuii.

«Una scusa cretina. Abbastanza per tenermi lontano un pomeriggio. È questo che stai dicendo?»

Solo in quel momento trovai il coraggio di guardarlo. Tutto tornava. Tutto si incastrava perfettamente, senza esitazione, e più ci pensavo, più gli elementi trovavano finalmente un loro ordine, un elemento in comune che si traduceva nel nome di Nathan.

«E poi c’è la sua dichiarazione. Sapeva della rapina e del fatto che c’entrasse la droga. Come avevamo già detto, non avrebbe potuto saperlo, a meno che non ci fosse un suo coinvolgimento attivo in tutto questo.»

Eppure, sembrava tutto troppo facile.

«Frena, frena. Non possiamo tirare conclusioni così affrettate. Voglio prima verificare quella segnalazione di cui mi parlavi. Magari non è vera o magari è una montatura creata ad hoc per incastrarlo, non possiamo saperlo.»

Mi resi conto che forse lo dicevo più a me stesso che a lui. Ero uscito dalla stanza di Nathan pensando a quello che sarebbe potuto succedere tra noi; ora guardavo alla sua partenza quasi come a un tentativo di fuga. L’aggressione era stata pesante, ma diretta solo a lui, come a volerlo far apparire una vittima. Anche quello era un dettaglio che stonava.

«Mi dispiace, Alan. Non pensavo che saremmo arrivati a questo, ma era mio dovere dirtelo. Non mi sarei potuto definire un poliziotto, sennò.»

Sospirai e osservai lo sguardo duro e deciso di Ashton, quegli occhi che sembravano non voler lasciare spazio alle interpretazioni. La sua era un’ipotesi accattivante, quasi perfetta nella sua linearità… ma anche troppo perfetta.

Stava cominciando a calare la sera. La luce del sole era sbiadita su quei palazzi grigi, e illuminava soltanto le finestre più alte del Lenox Hill Hospital. La stanza di Nathan era già al buio.

«Hai fatto bene, se si hanno dubbi è sempre bene condividerli. Anche se continuo a non spiegarmi la storia di Waitch. Pensavo avesse un qualche significato.»

«Forse non è necessario che ce l’abbia. È un soprannome, nulla più. Un nome in codice per non farsi riconoscere dagli altri.»

Osservai gli ultimi raggi riflettersi sulle grandi vetrate dell’ospedale. Tra non troppo, sarebbe scesa l’oscurità anche su di loro e anche su di me, perché più i minuti passavano, più mi sentivo tentato dall’idea di Ashton, sebbene non mi convincesse del tutto.

«E pensare che ci ha pure dato degli spunti, su questa faccenda di Waitch. “W-eitch”, come a voler farci credere che fossero delle iniziali. Non riesco a crederci, eppure la tua ipotesi non è qualcosa che posso escludere totalmente.»

Ash annuì, ma non disse niente. Io osservai i parafanghi dell’auto, metallici, fibre senza problemi né pensieri, ma stavo guardando oltre.

La verità era che mi sentivo a pezzi.

 

Ash mi riportò a casa. Lo salutai distrattamente e sbagliai un paio di volte le chiavi per aprire il portone. Non riuscivo a credere a quello che mi aveva detto, eppure, se si mettevano in fila i tasselli come aveva suggerito lui, in qualche modo filava tutto. Provai a entrare nella testa di Ash, a seguire il filo dei suoi ragionamenti, e a riordinare gli eventi per come poteva averli visti lui.

          Partii dalla fine: Nathan era un impostore. Aveva pilotato ogni cosa, fin dal primo momento: Michael aveva un debito di droga con lui, che quindi aveva deciso di effettuare la rapina per saldare i conti; poi le cose si erano messe male e si era finto un testimone per salvarsi la pelle. Ryan probabilmente gli doveva qualcosa, altrimenti non si spiegava perché Nathan lo avesse incastrato così con le sue dichiarazioni sul colore degli occhi di uno dei rapinatori. Aveva senso? Forse, pensai, mentre buttavo le chiavi sul porta-oggetti all’ingresso.

          Poi c’era un altro dettaglio: lo scooter con cui i due rapinatori erano fuggiti non era stato ritrovato. Non avrebbe destato sorprese trovarlo intestato a un prestanome, che avrebbe condotto a Nathan. Intanto, però, la sua recita era andata avanti: sapeva di avere fascino e lo aveva utilizzato nel modo più subdolo possibile. Mi aveva fatto cadere ai suoi piedi - un gioco da ragazzi -, mi aveva coinvolto attivamente nella ricerca della verità per le due persone a cui teneva di più, Ryan Goldwin e Harvey Walker; mi aveva sempre mostrato quello sguardo affranto, quella sofferenza. Accesi la luce della camera e tirai fuori il pigiama da sotto il cuscino. Possibile che avesse mentito, e fino a quel punto?

          E come giustificare la presenza di quei bigliettini a casa sua? Ma certo - gioco da ragazzi pure questo -, li aveva trovati. In quel McDonald sulla trentaquattresima, quello dove gira gente poco raccomandabile, ecco che aveva razzolato nel cestino e trovato, per caso, un bigliettino identico a quello di Michael. Una goccia di olio qui, una spruzzata di pomodoro là e il bigliettino fasullo era bello che pronto.

          Poi era venuta la richiesta di indagine insieme a lui. Quale modo migliore per spingermi dalla sua parte? Non c’era niente di più efficace che andare insieme, per poi annullare tutto con una scusa stupida.  Strizzai il tubetto di dentifricio e ne lasciai un po’ sullo spazzolino. Cos’era andato a fare davvero? Forse non era davvero importante o forse non ci era nemmeno andato sul serio. La cosa essenziale era spuntare fuori dopo qualche giorno, fare la pace e proseguire al solito modo.

          Infine, c’era stata la dichiarazione, l’unica parte in cui la mia fiducia in Nathan aveva barcollato davvero e continuava a farlo. Aveva inciampato e, con ogni probabilità, non se ne era nemmeno accorto. Non aveva mutato il suo atteggiamento dopo la vicenda dei volantini - che forse, sempre seguendo il ragionamento di Ash, poteva essere stata organizzata da lui stesso -, segno che non aveva capito di aver detto qualcosa di più. Al di là di quello, lui sapeva troppe cose. Informazioni che non poteva avere, se non per un suo diretto coinvolgimento, come diceva Ash.

          Mi rigirai nel letto. Mi sembrava una conclusione molto, troppo affrettata e a me non piaceva puntare il dito contro qualcuno senza uno straccio di prova, ma d’altra parte era anche tutto così lineare. Tutto così ovvio, per certi versi. Lo avevamo avuto davanti agli occhi per tutto quel tempo, c’era davvero la possibilità che non ci fossimo mai accorti di nulla?

          Rimaneva fuori la questione di Waitch, ma non era nient’altro che un soprannome. Forse il nome del suo cane da bambino o il nome di un amichetto che non trovava troppo simpatico ai tempi della scuola.

Tornai nella mia mente, a seguire il filo dei miei pensieri che però, inevitabilmente, erano stati contaminati dalle parole di Ash, ma mi chiesi quanto davvero quella storia fosse nata dalla sua ambizione e quanto invece fosse attinente alla realtà. Davvero avrebbe fatto una carognata del genere solo per guadagnarsi un posto ai piani alti? Non era una possibilità da escludere, perché in fondo facevo ancora fatica a credere che tutta quella faccenda potesse stare in piedi. Nathan un impostore? Non era possibile, no. Non volevo crederci.

          Ma da qualunque prospettiva la si guardasse, lo scontro con la realtà, vera o presunta che fosse, appariva sempre duro e appuntito. Perché non mi sarei arreso di fronte alle congetture di Ash senza una qualche dimostrazione da parte sua, ma dovevo ammettere che alcuni dettagli su Nathan stonavano con l’immagine del bravo ragazzo pronto ad aiutare un amico nei casini. E avevo così tanta confusione in testa che non sapevo più di chi potevo fidarmi.

          Quello era il mio mondo: una continua salita e nessuna soddisfazione. I compagni che la vita mi riservava servivano solo per vederli morire o disintegrarsi in polvere, un sadico gioco per aumentare la pendenza della salita mentre io mi voltavo per vederli sparire.

          Mi ricordai che c’era anche la segnalazione anonima da verificare. Forse avrebbe potuto scongiurare il fatto che Nathan Hayworth non fosse mai esistito, ma in ogni caso l’illusione di un mese faceva male come la delusione di una vita. Alla fine la mia sabbia si era asciugata e mostrata per quella che era: graniglia secca, leggera, pronta a vorticare al soffio del vento. Questi aveva spirato, violento come una tempesta, spezzando ogni mia speranza; e la sabbia, sicura nel palmo della mia mano, aveva ondeggiato dritta verso di me, fino a finirmi negli occhi.

E Dio, se bruciava.

 

 

 

Angolo autrice

Salve a tutti!

E proprio quando sembrava che il rapporto tra i nostri due beniamini si fosse un po’ disteso, ecco che arriva Ash a mettere pulci all’orecchio di Alan… Ci sarà mai un po’ di pace? Chissà, per ora è la fiera del mainagioia XD E sarà vero che Nathan in realtà ci ha fatto leggere solo quello che gli faceva comodo? Chissà, chissà u.u

 

Ma porto anche buone notizie (ogni tanto ci sta, via): ieri sera ho terminato il capitolo 32 e penso che sia venuto molto bene! E quindi ora procedo con la scrittura dell’ultimo, il 33… Vi giuro che sono davvero tanto malinconica all’idea di lasciare questi due testoni, mi ci sono affezionata davvero tanto ç__ç Però penso che questa storia avrà una degna conclusione, e devo unicamente a voi lettori la spinta che ho trovato per scrivere questi ultimi capitoli. Quindi… GRAZIE!

 

E come sempre ringrazio tutti coloro che trovano il tempo di lasciarmi un piccolo pensiero e anche quelli che si ritagliano un po’ di spazio per leggere e basta, grazie davvero ç___ç

 

A giovedì,

Simona

   
 
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