27.
Una giornata da ricordare
Quella giornata
non iniziò nel migliore dei modi.
Stavo
per andare da Winston a comprarmi un pacchetto di Marlboro ed ero già a metà
strada, quando la paranoia mi aveva colto e avevo cominciato a chiedermi se
avessi chiuso la porta di casa. Avevo spento la luce della sala, mi ero
sbattuto la porta dietro la schiena - e aveva fatto un tonfo terribile perché
sì, quella casa era più vecchia e decrepita di me -, ma poi? Avevo girato
quelle maledette chiavi nella serratura? Non avevo sentito il tintinnio del
metallo, quel dolce suono di chiavi nella toppa che mi avrebbe liberato da ogni
dubbio?
E invece
no, non me lo ricordavo. Nella mia mente, un attimo dopo ero già sul
pianerottolo pronto a comprarmi quel maledetto pacchetto di Marlboro. Riavvolsi
il nastro dei ricordi, ma nada. E quindi, tra improperi sfiorati (avevo
quasi pestato il ricordino di un cane maledetto), avevo percorso di nuovo tutta
la strada fino a casa. Di nuovo, sì.
E
la porta, ovviamente, era chiusa a chiave.
Visto
che avevo dovuto riaprirla per assicurarmi che fosse chiusa, memorizzai la sequenza
di azioni nella mia mente: avevo afferrato le chiavi, le avevo messe nella
serratura e poi le avevo girate. La porta era chiusa e quella volta ne ero
davvero sicuro.
Schizzai
fuori dal condominio perché la voglia di rigirarmi un pacchetto nuovo tra le
dita stava salendo in maniera vertiginosa. Mi infilai le mani in tasca e
sfiorai qualche verdone stropicciato, poi li tirai fuori, li stiracchiai e
appurai di averne abbastanza per comprarmi le sigarette.
Be’,
“abbastanza” era un eufemismo. Diciamo pure che erano soldi parecchio contati.
Passai
davanti al bar Chucky, un cumulo di sporcizia e di merce sottobanco, ma l’avevo
trovato chiuso con le transenne della polizia. Forse il karma aveva girato
anche per quello zotico che vedeva il bagnoschiuma due volte l’anno. In quel
momento pensai che non avrei voluto essere il suo compagno di cella, ma in fin
dei conti non volevo essere nemmeno qualcuno nel raggio di quindici chilometri
da lui.
Così
avevo proseguito verso Winston, un negozietto infilato in una traversa che
vendeva giornali, alcolici e strane schifezze di dubbia provenienza. Una volta
avevo provato ad assaggiare quella roba, che per me non aveva un nome visto che
era scritto in caratteri incomprensibili, e per poco non avevo rivomitato tutto
all’istante. All’apparenza sembravano semplici bastoncini rossicci, simili a
delle salsicce pressate; ma in bocca avevano tutto un altro sapore, che nemmeno
la fame disperata mi aveva fatto accettare. Così, a malincuore, avevo buttato
nel cestino quegli stecchini e i tre dollari che mi erano costati. Quella
notte, forse, ci piansi pure un po’.
Winston
era un tipo ben piazzato, ricciolino e con un paio di occhiali da lettura che
lo facevano sembrare un intellettuale. Probabilmente non aveva nemmeno la terza
media, ma sapeva leggere e far di conto, e che altro gli serviva per mandare
avanti quella baracca e vendere sigarette sottobanco?
Lui
era al bancone a contare soldi a capo chino, così il mio sguardo si spostò sul
calendario dietro di lui. Winston era di certo un tipo strano: niente donne in
abiti succinti o direttamente svestite, ma solo la gigantografia di un
cagnolino che per quantità di pelo e di riccio somigliava decisamente a lui.
Sulla destra, poco distante e appesa con una puntina, spuntava la foto di George
W. Bush in giacca e cravatta, neo-presidente con la mano sul petto durante il
giuramento. D’istinto misi una mano sul portafogli.
«Ehi,
Winston. Il solito, grazie.»
Sganciai
i soldi che avevo meticolosamente preparato e li ricontai; non mancava niente.
Comprare le Marlboro a dieci dollari e novanta invece che quattordici era un
affare per cui valeva la pena rischiare. Misi spiccioli e banconote sul
bancone, mentre lui si guardò un attimo intorno prima di porgermi il pacchetto.
Allungai una mano per prenderlo, quando mi afferrò il polso.
«Spiacente,
bel biondino, ma manca un dollaro.»
«Cosa?»
Liberai
il polso da quella presa e ricontai. Non mancava nulla.
«Non
cercare di fare il furbo con me, Winston. Sono dieci e novanta, vanno bene.»
Lui
indicò un cartello dietro di lui.
“Il
governo ha aumentato le tasse. Tutto costa un dollaro in più. Prezzi di merda
per un paese di merda.”
«Ma
tu vendi sigarette illegalmente, le tasse del governo non c’entrano un cazzo.»
«Si
chiamano affari, tesoro. E sono undici e novanta.»
Sospirai,
poi mi cacciai le mani in tasca per vedere se avevo altro. L’unica cosa che
trovai furono un paio di briciole incastrate in lanicci secolari.
«Sì,
in effetti è proprio una bella… merda. Non ho altro, Winston.»
Lui
riprese il pacchetto.
«Niente
soldi, niente sigarette. È così che va il mondo, bello. Oggi sei tu, domani
sono io.»
Una
frase del genere in bocca a lui non aveva alcun senso, se non quello di farlo
sembrare uno pseudo-intellettuale da quattro soldi. Ridacchiai e lo sfidai da
sopra i suoi occhiali.
«Fammene
almeno sfilare una.»
«E
come lo rivendo questo pacchetto, poi?»
Feci
spallucce.
«Oggi
hai fregato me, domani freghi il prossimo. Non è così che hai detto?»
Winston
mi guardò con la bocca tirata e gli occhiali sulla punta del naso. Era
abbastanza ridicolo, ma poi abbassò lo sguardo verso il pacchetto e sfilò due
sigarette per me. Dopodiché osservò i soldi ancora rimasti sul bancone e ne
prese un po’.
«Immagino
di doverti ringraziare.»
Lui
mi porse le sigarette e io le afferrai, per poi metterle in tasca, cercando di
non pensare a quelle bricioline imputridite. Ripresi poi i soldi rimasti e me
li ricacciai da dove erano venuti.
«Vai
a farti fottere, Nathan Hayworth.»
«Altrettanto,
Winston, altrettanto.»
Uscii
da quel negozio e me tornai trionfante, per così dire, verso casa. Quando
trovai il tempo di contare i soldi rimasti, mi accorsi che si era intascato due
dollari.
Con
le dipendenze funzionava così, in fondo.
C’è un girone
dell’inferno per tutti, probabilmente, e il mio non stava tardando ad arrivare.
Intanto,
le sigarette di Winston erano umide. Ne avevo tirata fuori una e mi era parso
di avere davanti un Jack Russell in miniatura. Corpo bianco e chiazze marroni,
niente che un colpo di phon non avrebbe potuto sistemare. Ma il phon era in
bagno e io mi ero appena schiantato sul divano e tutto ciò di cui avevo bisogno
era una sigaretta in bocca. Così l’avevo accesa e il sapore del tabacco era
anche più prepotente del solito. Una buona sigaretta, tutto sommato.
Finii
con l’addormentarmi. Nella mia mente si rincorrevano immagini di mia madre che
urlava, io che piangevo, e poi ci si metteva in mezzo pure Alan che mi lanciava
un giornale comunista. Io rimanevo piantato sul divano, incapace di muovermi,
mentre il topo morto tornava vivo e Carter sbatteva sulla porta-finestra con le
mani sporche di ketchup.
Sbatteva.
Sbatteva.
E
sbatteva ancora, con quei pugnetti cicciosi.
Sbatteva
e il rumore era sordo e secco.
Sbatteva e il
rumore diventò un trillo assordante, che mi fece spalancare le palpebre
all’istante.
Fissai il soffitto
della sala per qualche istante, poi il trillo acuto mi svegliò del tutto.
Nemmeno a dirlo, era il campanello.
«Sì,
sì, arrivo», biascicai, mentre cercavo di ritrovare la dignità perduta
sistemandomi camicia e capelli. Mi infilai le ciabatte, dopodiché mi stirai gli
abiti e cercai di togliermi dalla faccia quell’aria assonnata. Camminai fino
alla porta, dove sbirciai dallo spioncino.
Uomini
con camicia blu e un cappellino conosciuto sembrarono quasi fissarmi di
rimando.
«Signor
Hayworth, è in casa? Polizia di New York.»
…
oh cazzo.
Quando mi misero
in sala d’aspetto, mi resi conto che il mio girone era quello. Vedevo impiegati
e poliziotti camminare a passo svelto davanti alla mia poltroncina, che capii
essere il mio contrappasso. Era ancora più scomoda dell’ultima volta, e passai buona
parte della mia attesa a cercare ancora posizioni comode - oltre a morire
d’ansia, s’intende.
Eppure,
fui sorpreso dal mio rinnovato senso dell’umorismo, che mi aiutò a tenere a
bada l’agitazione pure in un momento come quello. Il suono di risate mute mi
aiutava a non sentire il mio battito accelerato, mentre granuli invisibili
sembravano volermi bloccare le narici e il respiro.
Alan non
era venuto alla retata. Be’, forse “retata” era un po’ esagerato, ma i
poliziotti (tra cui c’era anche Ash) erano usciti da casa con un cellulare in
mano e uno sguardo che non mi aveva fatto dormire. Poi era arrivata la
convocazione, che mi aspettavo ormai di ricevere.
Puntavo
gli occhi su chiunque passasse davanti a me, pensando che il malcapitato di
turno fosse il mio carceriere; quando poi lo vedevo superarmi con indifferenza,
riabbassavo lo sguardo e buttavo fuori un po’ d’agitazione, per poi
ricominciare il giochino non appena risbucava qualcuno.
La
mia ansia procedette con alti e bassi per dieci minuti buoni.
Poi,
alla fine, sempre quel malcapitato si fermò davanti a me e fu in quel momento
che pensai di non riuscire più a respirare. L’uomo mi fece cenno di seguirlo e
un soffio gelido mi ghiacciò tutto il corpo. Le mie gambe si mossero da sole,
come in uno scatto automatico, ma il mio cervello era completamente in pappa,
incapace di ragionare.
Poi
pensai ad Alan. Prima come a un amico, ma quel pensiero fu squarciato da una
piccola e subdola insinuazione. La polizia era arrivata pochi giorni dopo che
ci eravamo visti. Era stata una coincidenza? Forse c’entrava qualcosa col
cellulare?
La
mia mente si risvegliò dal torpore in cui era caduta e cominciò a sfrecciare
tra i ricordi.
Il
tizio del giornale comunista, così chiacchierone… era stato un caso? Mi aveva
tenuto sulla porta per un periodo infinito e io, in tutto quel tempo, avevo
dato le spalle ad Alan.
Che
cosa era successo mentre non vedevo?
Possibile
che…?
«Ci
rivediamo, signor Hayworth.»
Allungai
la mano verso il signor Church e lui me la stritolò letteralmente. Evitai di
rispondere al suo sarcasmo. L’attimo dopo mi resi conto che eravamo arrivati in
quella che, evidentemente, era la sala per gli interrogatori.
«Bene,
si sieda pure. Il mio collega Ashton Stoner mi assisterà durante questa
chiacchierata.»
“Chiacchierata”.
Non riuscii a farmi spuntare nemmeno un sorriso.
Presi
posto, ancora una volta, su quella sedia troppo grande per me, faccia a faccia
con il signor Church, con Ashton in piedi che lo assisteva come un avvoltoio e
Alan là fuori, stranamente visibile e a braccia conserte, a fissare il tutto
dall’ampio vetro con sguardo accigliato. Una bella combriccola, sì.
L’uomo
davanti a me iniziò con un preambolo sui miei diritti e sul registratore che
aveva posato sulla scrivania, poi tirò fuori un piccolo sacchettino
trasparente, contenente il cellulare che avevano sequestrato a casa mia. Lo
posò sul tavolo e poi lo allungò appena verso di me.
D’istinto
mi avvicinai verso l’oggetto. Non avevo avuto modo di vederlo chiaramente
quando lo avevano portato via, preso com’ero dall’agitazione e dalla
concitazione del momento. Era un cellulare nero, con sportellino e antenna, e un’aria
vagamente familiare. Lo avevo già visto da qualche parte, ma non riuscivo a
ricordare dove. L’attimo dopo, ripensai ancora ad Alan e a quello che era
successo a casa mia qualche giorno prima.
No,
non era plausibile un’ipotesi del genere. Perché Alan avrebbe dovuto nascondere
quel telefono sotto al mio divano? Non poteva essere.
«Riconosce
questo cellulare?»
Ci
pensai un attimo, scacciando i pensieri su Alan. Alzai lo sguardo verso di lui,
al di là del vetro, ma non ci incrociammo. Tornai quindi con gli occhi sulla
scrivania.
«Mi
dice qualcosa, penso di averlo già visto, ma non ricordo dove.»
«Saprebbe
dirci a chi appartiene questo telefono e perché si trovava a casa sua?»
Feci
spallucce, perché non lo sapevo. Provai a sforzarmi, ma proprio non mi veniva.
Ne scrutai la forma, la marca, provai a fare qualche associazione mentale con
il colore… ma niente. E mi stizziva non riuscire a ricordare, perché finché non
avessi puntato il dito contro qualcuno, lo avrei avuto puntato contro di me.
«Non
lo so. Non è mio e non so perché fosse a casa mia.»
Ash
sospirò. Alzai gli occhi verso di lui e lo trovai a gambe divaricate e braccia
conserte, l’espressione scocciata. Church, invece, aveva stampato in faccia il
suo solito sorrisetto irritante, come un baro che si frega le mani all’inizio
di una partita scontata. Mi chiesi se il mio destino fosse già stato scritto o
se ci fosse qualche speranza, per me, di uscirne vivo.
«Se
non è suo, come ci è finito sotto al divano?»
«Forse
ce l’ha messo qualcuno. Io sicuramente no. Come ho detto, non sapevo che ci
fosse un telefono sotto al mio divano.»
Ashton
cominciò a tamburellare le dita di una mano sull’avambraccio. Il suo gesto non
emetteva alcun suono, eppure mi pareva di sentire quel picchiettare rimbombarmi
nelle orecchie, come un orologio impazzito sopra la mia testa che batteva il
tempo.
«E
allora perché qualcuno avrebbe dovuto nasconderlo a casa sua?»
Una
vena di sarcasmo mi colse, ma riuscii a tenerla per me. Se lo avessi saputo, di
certo non mi sarei lasciato infilare in quel caso, perché ci mancava solo il
cellulare. Feci spallucce.
«Non
lo so. Forse mi sono fatto qualche nemico, anche se non vedo bene il perché.»
Oddio,
in realtà forse un misero perché c’era. Ripensai alle mie capatine al McDonald
e al fatto che con ogni probabilità qualcuno non aveva gradito la mia presenza
là dentro, ma da lì a volermi mettere in casa quello che sembrava un oggetto
compromettente ce ne passava.
Church
mi fissò a labbra strette, come un professore troppo scocciato dalle scuse di
uno studente che non aveva studiato. Poi schioccò la lingua e sospirò.
«D’accordo.
Volendo seguire un attimo il suo filone, signor Hayworth, saprebbe dirci chi
sono le ultime persone che sono venute a casa sua?»
Altre
spallucce da parte mia. Ripercorsi le facce che avevano varcato la soglia di
casa. Barrai subito quella del tizio comunista, perché non era umanamente
possibile che potesse avercelo messo lui, oltre al fatto che non ne avrebbe
avuto motivo; quella di Alan era in prima posizione, perché era stata la
persona che avevo frequentato di più in quel periodo, ma c’era anche Harvey,
che non vedevo né sentivo da una vita.
Tirare
in ballo Alan mi sembrò pericoloso in quel momento. Forse avevo paura di
metterlo in difficoltà, o forse esercitava su di me un potere che non avrei
dovuto avvertire, ma c’era. Mi morsi le labbra, in preda a una crisi di
coscienza, poi la codardia ebbe la meglio.
«Be’,
per esempio Harvey.» Vidi già Church aprire bocca, pertanto decisi di
precederlo. «Harvey Walker, il ragazzo con cui mi frequentavo, però non ci
sentiamo da un bel po’. Ma è l’unico che è venuto a casa nell’ultimo periodo,
quindi non vedo molte altre ipotesi.»
«Saprebbe
quantificare da quanto tempo non lo sente?»
Feci
un respiro profondo. Provai a prendere qualche evento come riferimento, ma
senza successo. Non mi venne in mente nessuno spartiacque.
«Non
lo so, sarà circa un mesetto.»
Church
sospirò. Sembrò mollare un attimo la presa e darmi un momento di tregua, mentre
io mi lasciavo cadere sulla sedia, mentalmente stanco. Spostai lo sguardo verso
Alan, ancora dietro al vetro, ma guardava altrove, verso i due colleghi.
Intanto,
la domanda del giorno continuava a frullarmi in testa: chi aveva messo quel
telefono lì? Sembrava un oggetto importante, con ogni probabilità legato alla
rapina, anche se erano solo mie deduzioni. La polizia non si era voluta
sbottonare su cosa rappresentasse quell’oggetto e non pensavo che lo avrebbero
fatto. Church incrociò le mani e le pose sulla scrivania, segno che era pronto
a ricominciare con le domande. Il mio battito tornò ad aumentare e la testa
cominciò a dolermi.
«Bene,
signor Hayworth. Saprebbe dirci dove si trovava l’undici agosto, tra le sette e
le otto e mezzo di sera?»
«Cosa?!»
Avevo
risposto d’impulso, senza neanche pensarci. L’undici agosto? Era passato già
più di un mese! Come potevo ricordare dov’ero? E soprattutto, cosa ci
incastrava con il telefono? Certo, non potevano dirmelo, ma la sensazione di
essere stato messo in mezzo cominciò a risalirmi su per la gola e ad assumere
fattezze sempre più concrete.
Il
mio respiro si accorciò. Gli occhi cominciarono a vagare frenetici qua e là
nella stanza, come in cerca di una risposta che non poteva esserci. Poi si
soffermarono su Alan e i nostri sguardi si incrociarono quasi per miracolo, ma
anche lui sembrava smarrito quanto me.
Undici
agosto, undici agosto…
Provai
a rimettere insieme i pezzi. Era stato sicuramente prima del pestaggio, ma non
riuscivo a ricordare altri eventi. Era stato prima o dopo aver trovato Ryan al
McDonald’s? Prima o dopo l’ultima volta che avevo visto mio padre?
Undici
agosto, undici agosto…
…
proprio una data da ricordare.
Mi
fermai.
“Proprio
una data da ricordare”.
Anzi,
no; avevo detto: “Undici agosto duemilauno: proprio una data da ricordare”.
Sì,
sì, lo avevo detto. O quantomeno pensato.
«Ha
ricordato qualcosa, signor Hayworth?»
Ignorai
le parole di Church per permettere ai ricordi di fluire. I pezzi piano piano
andarono al loro posto e cominciai a ricordare lo sconforto, la delusione e
l’amarezza per quell’undici agosto. Lasciai che quelle sensazioni si facessero
strada in me, fino a che non avvertii dei gemiti nella mia testa e lo stare
seduto mi richiamò alla mente il dolore per quel rapporto troppo violento… e
l’umiliazione di essere stato usato, di essere servito come corpo in cui
scaricarsi, né più né meno.
Le
mani di Harvey scorrevano su di me, ma senza accarezzarmi; il suo unico scopo
era stato eccitarmi quel poco che bastava per farmi acconsentire. E io avevo
acconsentito, oh sì, perché l’emozione del rivederlo aveva spazzato via ogni
mia razionalità.
«Signor
Hayworth?»
Mi
rimisi comodo sulla sedia, come se quel dolore fisico fosse ancora lì e stessi
cercando di scacciarlo.
Guardai
Church negli occhi e mi sentii nudo.
«Sì,
sì, mi sono ricordato qualcosa. Ero con Harvey Walker, quel giorno. Non ricordo
fino a che ora, ma eravamo insieme.»
«Che
cosa avete fatto in quel lasso di tempo?»
In
parte mi aspettavo una domanda del genere, ma la mia reazione non fu quella che
avevo previsto. Immaginavo di arrossire e di ricordare la cosa con un filo di
amarezza; invece, tutto ciò a cui riuscii a pensare era che mi veniva da
vomitare.
«Niente,
siamo rimasti a casa da me, a fare due chiacchiere. Lui poi è andato via di
corsa perché aveva da fare.»
«E
lei è rimasto a casa tutta la sera?»
Mi
ricordai della sua voce gentile, di quel filo di apprensione nel pronunciare il
mio nome, l’invito. Parte del mio dolore fisico immaginario sparì.
«No,
ho chiamato l’agente Scottfield e poi sono andato a casa sua.»
Sia
Church che Ashton si girarono all’unisono verso Alan. Lui si limitò ad annuire
appena, gesto che produsse una smorfia di sorpresa nel viso di Church.
Una
strana sensazione di sollievo mi permise di rilassarmi e solo un attimo dopo
capii il perché: Alan era il mio alibi. Non avevo la certezza che la polizia
volesse accusarmi di qualcosa, ma ebbi come la sensazione che l’essere andato
da Alan quella sera mi avesse fatto perdere posizioni nella classifica dei
sospettati per la loro indagine.
Per
via di un meccanismo di certo perverso, cominciai a ringraziare Harvey.
Grazie,
Harvey, per avermi trattato di merda.
Grazie,
Harvey, per avermi scopato con così tanta indifferenza da avermi fatto inserire
l’undici agosto come una giornata da ricordare.
Grazie,
Alan, per avermi invitato a mangiare da te.
E
grazie a me stesso, ovviamente, per essere corso da lui senza un attimo di
esitazione.
La
sfilza di ringraziamenti più lunga e corposa della mia vita.
Sentii
i nervi rilassarsi. Il dolore fisico tornò a essere immaginario. Mi abbandonai
di nuovo a quella sedia, poi chiusi gli occhi un attimo, il tempo di
raccogliere le forze per uscire vivo di lì. Ormai il peggio era passato, me lo
sentivo. La stanza non sembrava più asettica e soffocante, ma solo un po’
troppo bianca e vuota, così come l’espressione di Church, che sembrò sentirsi
smarrito in seguito alle mie dichiarazioni e alle conferme di Alan.
Lanciai
ancora un’altra occhiata a quel ragazzo dietro al vetro e ritenni impossibile
che lui c’entrasse qualcosa con quel telefono, vista anche la rapidità con cui
aveva confermato la mia versione. Per quanto ne sapevo, comunque, poteva anche
essere stata opera di un criminale qualsiasi. Qualcuno ingaggiato da Ryan?
Forzare la porta di casa o la porta-finestra non era certo difficile: il
palazzo dove abitavo aveva almeno il doppio dei miei anni. Però ripensai anche
ad Harvey, all’ultima volta che ci eravamo visti, al fatto che eravamo stati
proprio su quel divano. Possibile che…?
«Va
bene, ho capito. Un attimo solo.»
Church
e Ashton si alzarono, uscirono dalla stanza e raggiunsero Alan, per poi sparire
tutti e tre. Mi lasciarono solo coi miei pensieri su cui non volevo ritornare,
almeno non del tutto. Però era vero che Harvey pippava e che io mi ero
ribellato al modo in cui mi aveva trattato. Possibile che fosse legato a Ryan e
al suo giro, che il cellulare fosse loro, e che Harvey mi avesse usato come
capro espiatorio perché non avevo più voluto sottostare ai suoi giochetti?
Eppure non aveva senso, perché un’ipotesi del genere avrebbe implicato una
premeditazione - d’altronde, Harvey non poteva sapere che lo avrei mandato a
fanculo quella sera e di certo, se c’entrava qualcosa, non poteva aver deciso
di vendicarsi così su due piedi. Un’idea del genere sottintendeva che Ryan e
Harvey avessero pensato tutto fin dall’inizio, fin dal giorno in cui lui era
ricomparso, ed era un’ipotesi folle… e che mi faceva venire i brividi.
I
tre tornarono dopo un po’, con in mano il solito foglio dove mi assumevo tutta
la responsabilità per ciò che avevo dichiarato. Firmai e, dopo che ci fummo
salutati come da copione, lasciai quella stanza con un’incredibile leggerezza
da una parte e un’inedita pesantezza dall’altra.
Poco prima di
uscire dalla centrale, fui richiamato da Alan. Il mio cuore perse un battito,
ma non per romanticismo; mi voltai e non notai nessuna espressione ansiogena
sul suo viso, quindi mi adattai di conseguenza. Per fortuna, fu una buona
scelta.
«Ehi,
aspetta.»
Attesi
che arrivasse dov’ero, ormai quasi all’ingresso.
«È
successo qualcosa?»
«No, non
preoccuparti. Volevo solo dirti che è probabile che tu venga convocato ancora
nei prossimi giorni.»
«Ah,
quindi devo aspettarmi qualche altra visita disinteressata da parte tua?»
Una
battuta al vetriolo che uscì senza il mio permesso. Non volevo essere cattivo
con Alan (in fondo mi aveva appena salvato il culo), tuttavia, quando stavo con
lui, c’era sempre quella perenne sensazione che mi stesse usando. Non come
faceva Harvey, ma in un modo più subdolo e sottile, quasi invisibile. Allo
stesso tempo, però, sapevo che le sue premure nei miei confronti erano sincere,
che quel suo farmi sentire importante non era finzione. Sì, spesso stava con me
anche per motivi lavorativi, ma non era mai solo per quello.
Mi
sentii in imbarazzo per come lo avevo trattato e arrossii un pochino.
«…
Scusa, non volevo essere acido. È solo che...»
«Lo
so. So cosa vuoi dire, lo capisco e mi dispiace. Ma le mie visite sono sempre
disinteressate di base, che tu ci creda o no.»
Sbuffai
con un mezzo sorriso addosso. In quel momento vidi passare due poliziotti, un
uomo e una donna, che scherzavano tra loro; aspettai che fossero passati.
«Lo
vedremo dopo la fine delle indagini.»
«Cioè
quando te ne sarai andato?»
La
sua risposta mi spiazzò. Non avevo mai pensato ai due eventi con quell’ovvio
legame di causa e conseguenza, eppure era proprio così: stavo solo aspettando
la fine delle indagini per andarmene. Avrei lasciato finalmente la mia
famiglia, Harvey, tutti gli altri mentecatti che mi giravano intorno e… Alan.
Sì, avrei lasciato pure lui. Lo avevo pensato più e più volte, ma ormai era una
certezza il fatto che fossi capitato nella sua vita al momento sbagliato.
Mi
accorsi solo in quel momento che Alan aveva piantato i suoi occhi nei miei. Si
umettava le labbra con discrezione, dopodiché le schiudeva appena, per poi
chiuderle subito dopo. Capivo che voleva dire qualcosa, ma sembrava non
riuscirci. Smise di guardarmi per darsi un’occhiata intorno; aspettò che un gruppetto
di persone defluisse prima di girarsi nuovamente verso di me.
Intorno
a noi calò un innaturale silenzio, spezzato solo da qualche rumore di
sottofondo tipico di un qualunque ufficio, ma niente che fosse in grado di
disturbare il suo sguardo, di nuovo rivolto a me. Occhi che sentivo di stare
per perdere, perché sapevo che una volta seduto su quell’aereo quegli sguardi
non ci sarebbero più stati, o che sarebbero stati freddi e indifferenti. Fu un
pensiero che si tradusse in una stilettata in pieno petto, e che diventò più
dolorosa nel pensare che, dopo la mia partenza, l’importanza che avevo per lui
sarebbe diminuita di giorno in giorno, fino a scomparire.
Fece
qualche piccolo passo verso di me, il massimo che potesse concedersi in
quell’ambiente. Strinse le labbra, le umettò ancora, poi trasse un respiro
profondo.
«Non
c’è proprio niente che possa farti cambiare idea?»
Rimasi
gelato, un’altra volta. Una sfilza di risposte cominciarono a sfrecciarmi in
testa perché, sì, diamine!, certo che c’era qualcosa per farmi cambiare idea.
Bastava solo che lui avesse… o che io avessi…
Un
legame. Era questo che volevo? Legarsi, affezionarsi? Affezionarsi davvero?
Aprii
la bocca per dire qualcosa, ma non uscì nulla. Un legame era un impegno. E se
ci fossimo… stancati l’uno dell’altro? E come dovevo fare con Oliver, un
ragazzo ormai morto ma così vivo, nel cuore di Alan?
«Ecco...»
Fu
tutto quello che riuscii a dire. Qualcuno chiamò Alan dal corridoio. Lui si
girò. Era Ash che aveva bisogno di lui, e anche con una certa urgenza. Nella
mia testa, il rumore di sottofondo divenne ovattato, quello della voce di Ash
quasi impalpabile.
Alan
si voltò verso di me, forse per scusarsi, ma io fui più veloce.
«Ci
vediamo», dissi, e uscii da quella porta senza voltarmi indietro.
Angolo
autrice
Salve a tutti!
Non so bene cosa
dire su questo capitolo perché non ne conservo un grande ricordo – è stato uno
degli ultimi che ho scritto, con molta molta fatica, prima di abbandonare la
storia per mesi, forse anni. Oltretutto, l’ho scritto dopo che avevo eliminato
di peso altri due capitoli che ho cestinato perché la trama aveva preso una
piega che non mi piaceva, quindi vi lascio immaginare il mio stato d’animo.
Ci ho rimesso mano
nei giorni scorsi e ho provato a migliorarlo un po’, ma non sono granché
soddisfatta, e penso che sarà uno di quei capitoli che revisionerò a fondo
prima di procedere con la pubblicazione su Amazon.
Ma parliamo anche
di cose belle, anzi bellissime: ebbene, ho finito di scrivere la storia!
Esatto, sono arrivata a mettere la parola “Fine” a questa avventura. Vi
anticipo già che mi sono lasciata trasportare e che il capitolo 33 conta la
bellezza di ventisette pagine… mi dispiace… XD Però sono felicissima, sia
perché concludere qualcosa è sempre bello, sia perché almeno non vi lascio a
piedi.
Nel prossimo
capitolo vedremo che l’indagine giungerà a conclusione e che, più o meno, questo
filone terminerà (anche se ci sarà una parte pure nel 30). Quindi forse vi
starete chiedendo di cosa parleremo per altri cinque capitoli. Chissà… :P
A giovedì prossimo
e grazie a tutti voi lettori per il sostegno <3
Simona