29.
Il drago e il bambino
Il mio divano non
mi era mai sembrato così scomodo. Disteso, lo sguardo rivolto verso la tv,
avevo provato ad addormentarmi più di una volta, senza mai riuscirci.
L’orologio segnava quasi le dieci di sera, un orario in cui sarei potuto uscire
per andare a divertirmi, ma la telefonata con Alan del giorno prima mi aveva
lasciato con un senso di sospensione addosso, come se il mio destino fosse
dipeso solo dalla sua bravura come poliziotto.
Ogni
volta che chiudevo gli occhi li riaprivo subito con un sussulto, così
riprendevo a guardare le immagini che scorrevano sul televisore e lasciavo
andare un sospiro. Dopo l’ennesimo risveglio, mi dissi che forse era più saggio
mettersi il pigiama e andare a dormire, ma sapevo che nemmeno in quel modo
sarei riuscito ad addormentarmi.
Il
trillo del campanello mi fece sobbalzare. Guardai l’orologio: erano le dieci e
un quarto. Chi cavolo poteva essere a quell’ora? Mi drizzai sul divano e
indugiai un attimo, durante il quale il viso di Harvey sfrecciò nella mia mente
e mi lasciò un po’ di nausea. Mi alzai e mi trascinai fino al citofono più per
curiosità che per altro, poi alzai la cornetta per sapere chi era.
«Alan»,
fu la risposta dall’altra parte. Mi sollevò sapere che non fosse Harvey, ma il
fatto che si trattasse di Alan non mi rassicurò come aveva fatto altre volte.
Gli aprii il portone e aspettai che salisse, mentre da qualche parte cominciai
a temere che fosse venuto con un altro paio di poliziotti pronto ad arrestarmi.
Come
era prevedibile, però, arrivò da solo. Non appena si avvicinò notai che aveva
il viso stanco, ma nascose subito quella stanchezza dietro un sorriso
abbozzato.
«Scusa
per l’orario indecente. Stavi dormendo?»
«No,
guardavo la tv. Entra pure», gli risposi, dopodiché chiusi la porta alle sue
spalle. A riempire l’aria rimase solo il rumore sommesso della tv, a cui si
aggiunse subito dopo quello di Alan che cercava qualcosa nella tasca dei
pantaloni. Bastò un attimo perché tirasse fuori un pacchetto di Marlboro e me
lo porgesse.
«Per
te.»
Lo
afferrai e me lo rigirai un paio di volte tra le mani, come se mi fossi
aspettato di trovarci qualcosa di diverso da un comune pacchetto di Marlboro.
«Oh,
grazie. Devi farti perdonare qualcosa?», chiesi, e cominciai a ridacchiare. Lui
però non si scompose quanto mi sarei aspettato, così la mia risata morì nel
giro di qualche secondo. Teneva gli occhi bassi, e se li alzava era solo per
rincorrere qualche pensiero invisibile nella stanza. Le mani infilate nelle
tasche dei pantaloni invece mi diedero l’idea che si sentisse in imbarazzo, un
sentimento che facevo fatica ad associare ad Alan.
«Volevo
scusarmi con te», disse, poi incrociò il mio sguardo. «Ti ho messo nei casini e
non te lo meritavi. E in generale non sempre mi sono comportato bene nei tuoi
confronti. Mi dispiace.»
Il
primo impulso fu quello di abbracciarlo, ma esitai. Sembrava stanco davvero,
teso e un po’ mi irrigidii anch’io perché non mi aspettavo che venisse a
scusarsi, di certo non a quell’ora. Scaricai quella tensione sul pacchetto che
tenevo in mano, lasciando che la plastica che lo avvolgeva sfrigolasse appena
al passaggio delle mie dita. Mi sforzai di ripensare ai momenti in cui mi aveva
fatto innervosire col suo atteggiamento, ma tutta la rabbia, se mai c’era
stata, apparteneva già al passato.
«Non
ti preoccupare. Non dico che sia stato piacevole, ma so che l’hai fatto a fin
di bene. È tutto ok, davvero.»
Lui
si lasciò andare a un sospiro e a un sorriso, e fu in quel momento che lo
abbracciai. Le sue braccia si chiusero subito sul mio corpo come in un gesto
automatico, una ad avvolgermi le spalle e l’altra all’altezza della vita. Dopo
qualche istante iniziò a ondeggiare in modo quasi impercettibile da sinistra a
destra, da destra a sinistra, in un movimento che sembrava volesse cullarmi. Mi
fece visita un sentimento che erano ormai anni che non provavo più: un senso di
sicurezza e pace, la certezza che avrei potuto anche chiudere gli occhi tra le
sue braccia per ore con la garanzia che sarei stato al sicuro da tutti i
pericoli. Appoggiato alla sua spalla sul divano, o disteso con la testa
accoccolata sulle sue gambe, ero certo che sarei riuscito ad addormentarmi in
un battibaleno.
«Ti
va di rimanere?», sussurrai, senza sapere perché glielo avessi chiesto. Lui
smise di dondolare e pensai di aver osato troppo, che avrebbe sciolto
l’abbraccio e che se ne sarebbe andato via dando a malapena una spiegazione.
Invece le sue braccia rimasero chiuse intorno a me, forse solo un po’ più tese.
«Mi
piacerebbe, ma non posso», rispose, e il fatto che avesse anche solo contemplato
la possibilità di accettare mi fece perdere un battito. «Devo tornare a
lavoro.»
Spostai
indietro la testa quel poco che bastò per vederlo.
«A
quest’ora?»
«Non
dirlo a me…»
Di
sicuro si stava occupando di una cosa grossa. Mi domandai se c’entrasse qualcosa
la rapina o anche Harvey, ma non chiesi niente. Ad Alan però non sfuggiva
nulla, né delle mie espressioni, né dei miei pensieri non detti.
«Posso
dirti solo che ho promesso di aiutarti ed è quello che sto facendo.»
Non
sapevo se sentirmi rassicurato o in colpa per quella frase, ma alla fine
prevalse di nuovo quel senso di rassicurazione che mi dava anche il solo
vederlo. Gli avevo chiesto di aiutarmi e stava mantenendo la sua promessa,
anche se in fondo non mi doveva niente, e non ricordavo che molte altre persone
avessero fatto lo stesso in passato.
Lo
sentii muovere il braccio con cui mi cingeva le spalle, poi il suo sguardo mi
superò per guardare l’ora sul suo orologio da polso.
«Devo
scappare», disse solo, e sciolse l’abbraccio. Sul petto, dove fino a un attimo
prima c’era stato il suo corpo, sentii fresco.
«Grazie
di tutto. E buon lavoro.»
Ci
salutammo e gli aprii la porta, poi sventolai la mano con cui tenevo ancora il
pacchetto di Marlboro. Quando richiusi la porta tornai a guardarlo, e non potei
fare a meno di sorridere per quel gesto così inaspettato e tenero.
Tornai
a distendermi sul divano per guardare la tv e posai il pacchetto, ancora
incellofanato, proprio davanti al petto. Sì, Alan non sempre si era comportato
bene con me - avevo perso il conto delle volte in cui mi aveva chiesto di
vedersi con un secondo fine -, eppure non potevo davvero fargliene una colpa,
perché era giusto che lavorasse nel modo più scrupoloso possibile. Non mi
doveva davvero delle scuse, eppure lo aveva fatto lo stesso, senza cercare
giustificazioni.
La
sensazione delle mani di Alan sul mio corpo sparì piano piano, ma ciò che avevo
provato in quegli istanti era tutt’altro che scomparso. Mi aveva fatto sentire
protetto, forse anche amato, e mi chiesi cosa sarebbe successo se Alan avesse
accettato il mio invito a rimanere. Mi ritrovai a desiderare di stare solo con
lui più di ogni altra cosa, a voler sentire di nuovo quel contatto e quelle
sensazioni che mi stavano facendo sorridere come un ebete.
Mi
addormentai pensando se mi sarebbe mai ricapitato di incontrare qualcun altro
come lui, se avrei trovato altrettanto in California, ma fu una domanda che
rimase senza risposta.
A svegliarmi fu il
trillo del telefono. Mi strusciai gli occhi e mugolai, poi, con la vista ancora
un po’ annebbiata, mi accorsi che mancava un quarto d’ora all’una. Era di nuovo
Alan? Mi tirai su per l’ennesima volta e sbadigliai, mentre la suoneria del
telefono mi rimbombava nelle orecchie, poi mi diressi verso il telefono e alzai
la cornetta.
«Fratellone…»
Il
sangue mi si gelò nelle vene.
«…
Jimmy?!»
Alle 01:14 c’era
un silenzio incredibile. Era diverso dal silenzio che si sente durante la cena,
quello che aleggia nell’aria solo perché tutti sono a mangiare e hanno la bocca
piena o quello di quando non hai coinquilini e ti vergogni a parlare da solo.
Il silenzio delle 01:14 era spettrale, segno di una città a riposo, come se un
enorme organismo si fosse fermato, immobile per qualche ora, quasi vittima di
un incantesimo.
Quello
era il genere di silenzio a cui ero sempre stato abituato, che mi aveva
sorpreso alle 01:14 così come in molte altre ore della notte. Solo che di
spettrale, in quel momento, non c’era proprio niente, ma c’era anzi un
organismo vivo e pulsante, pronto a esplodere, pieno di linfa che scorreva
nelle sue vene. Una linfa talmente potente e carica di energia che non poteva
far altro che urlare, spezzare il silenzio che cercavo di ritrovare in quella
camera, seduto sul letto, inutilmente.
I due
grandi occhi di mio fratello mi fissavano, senza la coperta a proteggerlo,
quasi fosse cresciuto tutto insieme. Non uscivano parole da quel piccolo
esserino che mi fissava, che con una muta richiesta chiedeva cosa fare, lì, solo,
in mezzo alla notte. Orsetti e coniglietti non gli offrivano più il conforto
necessario, e quindi eccomi lì, in carne ed ossa, vivo e vegeto nel cuore della
notte, seduto sul suo letto, zitto anch’io.
Se
quello fosse stato un film, probabilmente ci sarebbero stati tuoni e lampi, e
in sottofondo il picchiettare della pioggia sulla finestra, mentre ogni tanto
uno squarcio di luce illuminava i nostri volti. Sì, un lampo improvviso avrebbe
mostrato a mio fratello tutta la mia fragilità e a me la sua richiesta di
aiuto. I tuoni sempre più vicini avrebbero soffocato le urla dei nostri
genitori, lasciandoci il privilegio di perdere quella parola, quell’insulto o
solo il rumore di un piatto spezzato a terra.
E invece
no, non c’era niente di tutto quello. Non c’erano lampi, né tuoni, né squarci
di luce, né sentimenti da nascondere. Perché la verità è che non serviva niente
di tutto quello per rendere la situazione più drammatica di quanto già non
fosse, non serviva perdere qualche parola per non afferrare più il senso dei
discorsi che provenivano dal piano di sotto.
«Fratellone,
quando smetteranno?»
Jimmy
stringeva la coperta, i pugnetti chiusi fino quasi a farsi male.
Sospirai.
Il botta e risposta tra mio padre e mia madre lasciava poco spazio
all’immaginazione. La porta della camera era chiusa, ma là fuori c’era un campo
di battaglia, e giungevano colpi su colpi per responsabilità mancate,
divergenza di opinioni e l’ultimo, immancabile, anche-Nathan-è-tuo-figlio.
Sapevo che tutto il resto era una scusa, che il problema ero io.
«Non lo
so. Perché non chiedi a Bunny di farti compagnia?»
Afferrai
il coniglietto, dimenticato su una parte del letto e glielo porsi facendolo
saltellare.
«Non
si chiama Bunny. E comunque ora voglio solo un abbraccio dal mio fratellone. Mi
abbracci?»
Non
me lo feci ripetere due volte e lo abbracciai. Lo strinsi forte, ma lui di più,
molto di più; strizzò i pugnetti sulla mia maglietta come aveva fatto fino a
poco prima con la coperta, e spinse la sua testa sul mio petto, quasi come a
volerci entrare dentro, a mo’ di scudo. Io lo avvolsi come potevo, cercai di
far passare le braccia sulle sue orecchie, ma non servì a molto.
Sapevo
che litigavano per me, perché ormai avevo sollevato quel polverone e avevo
smesso di subire l’indifferenza di mio padre; e mia madre, come mi aveva sempre
detto, stava cercando la soluzione migliore e, come capii in quel momento,
stava cercando una soluzione al posto mio.
Cominciai
ad accarezzare la schiena di Jimmy con movimenti circolari, quando mi accorsi
che il suo corpo era scosso dai singhiozzi. Gemeva piano, o forse erano solo le
urla dei nostri genitori a sovrastare il pianto di quella creaturina; ma quando
alzò gli occhi, e li vidi così umidi e troppo disperati, qualcosa dentro di me
scattò. Era qualcosa che somigliava a un senso di protezione, di affetto… ma
no, era qualcosa di più: un senso di responsabilità. Dovevo qualcosa a
mio fratello. Gli dovevo tutti quegli anni in cui lo avevo odiato, tutto il
risentimento provato perché lo consideravo un mio sostituto. Avevo scaricato la
mia sofferenza su di lui, avevo aumentato i conflitti con mio padre, perché
oltre al non sentirmi accettato, mi sentivo anche sostituito.
Avevo
avuto la mia parte in quel gioco di sofferenza al ribasso, avevo sbagliato ma
avevo anche evitato di agire. Ero rimasto lì, come lui, a nascondermi dietro a
una coperta, mentre altri sbraitavano per proteggermi.
«Ti
racconto una storia, ti va?»
Lui
si staccò da me, e mi guardò con un’aria stupita, come a chiedersi se fosse
proprio quello il momento di pensare a una cosa simile. Lo rassicurai con un
sorriso, e lui si fidò, pensando che se un adulto gli proponeva una
storia in un momento come quello, allora era sicuramente la cosa giusta da
fare. Lo aiutai a nascondersi dentro le coperte, gliele rimboccai e mi sedetti
quanto più vicino a lui. Gli accarezzai la testa, mentre cercavo una storia da
raccontare.
«C’era
una volta un paese molto triste, in mezzo alle colline, ma così in mezzo che
non arrivava mai il sole. Gli abitanti erano davvero infelici, perché il
governatore aveva imposto dei prezzi molto alti, anche solo per comprare un
pezzo di pane. Così gli abitanti, sempre al buio e affamati, conducevano una
vita triste e grama.»
«Che
cosa vuol dire ‘grama’?»
«Be’,
ecco...», mi grattai la fronte in cerca di una spiegazione, «vuol dire che
avevano una vita difficile e sfortunata. Qualcosa del genere.»
Mio
fratello parve soddisfatto, così continuai, cercando di farmi venire in mente
un seguito adeguato.
«Un
giorno, tra i contadini, nacque un bambino. Non era una cosa strana, perché i
contadini facevano tanti figli, ma lui era speciale. Aveva...» mi fermai di
nuovo per pensare, «sì, aveva gli occhi rossi e i capelli bianchi.»
«Un
bambino coi capelli bianchi?!»
«A volte
può succedere. Cioè, non è che siano proprio bianchi bianchi, è più del tipo
che non hanno colore. Vabbè. Comunque a vedersi erano bianchi. Ovviamente
nessuno voleva questo bambino, nemmeno a lavorare. Così giocava sempre solo,
nei boschi, visto che nessuno lo voleva.»
«E a
cosa giocava nei boschi?», domandò mio fratello, con gli occhi ancora umidi ma
più vispi che mai.
«Be’,
raccoglieva bacche, poi le pestava e ci faceva un gustoso succo. Oppure creava
delle dighe o liberava i formicai dai sassi di qualche altro bambino burlone.»
«Che
bello, anch’io voglio farlo! Vai avanti.»
Sorrisi.
Gli strepiti dei miei genitori sembravano quasi diventati un sottofondo
monotono.
«Un
giorno, mentre giocava tra i boschi, il bambino vide un animale ferito. Però
vide subito che quell’animale era… diverso, come lui. Era piccolo, lungo quanto
te, aveva delle piccole ali e dalla bocca sputava fuoco.»
Gli
occhi di Jimmy si illuminarono.
«Un
drago!»
«Proprio
così, un drago. Però era costretto a vivere nascosto nei boschi, perché nessuno
voleva credere alla sua esistenza. Il drago si dimostrò subito affettuoso nei
confronti del bambino e presto fecero amicizia. Nel frattempo, mentre passavano
le settimane e i giorni, il governatore divenne sempre più cattivo. Aveva tolto
il pane alla povera gente e lo distribuiva solo in alcuni giorni della
settimana. Intanto lui guardava tutto dalla sua torre in cima alla collina, che
rendeva la città ancora più buia.»
«E poi?»
«Il
bambino imparò presto a domare il drago e, si può dire, anche l’opposto. Il
bambino non aveva mai avuto un vero amico e stare col drago gli insegnò come
comportarsi in questi casi. Cominciò quindi a dividere le bacche con lui e
utilizzò il suo fuoco per riscaldare gli altri animali nel bosco. Quando però
tornò a casa, come faceva tutte le sere, si accorse che i suoi genitori non
stavano bene. Avevano mangiato un fungo velenoso e avevano bisogno di cure.»
«Oh no!
Può provare a curarli col succo di bacche.»
«Esatto,
provò a curarli col succo, ma non ebbe effetto. Il problema era che le medicine
erano custodite nella torre del malvagio governatore, dove nessuno riusciva ad
accedere. C’erano infatti dei… cannoni di plastica all’ingresso.»
«Di
plastica? Non li ho mai sentiti.»
Nemmeno
io, pensai, ma trattenni il pensiero e la risata.
«Be’, le
storie devono stare al passo con i tempi, no? Comunque, il bambino ebbe
un’idea. Montò così in sella al suo drago e tentò di raggiungere la torre del
governatore. Il percorso però era ricco di ostacoli: c’erano rovi e fronde di
alberi a custodire il bosco, ma niente fermò i due piccoli amici. Non appena
videro la luce del sole, sfrecciarono verso la torre. Quando però il
governatore e i suoi soldati videro arrivare il drago, non persero tempo ad
azionare i cannoni. SBUM! Tentarono con il primo colpo. Il drago lo schivò e si
diresse proprio verso il cannone. Il soldato allora lo caricò di nuovo, ed era
pronto a sparare, avrebbe colpito in pieno il drago…!»
Gli
occhi di mio fratello si spalancarono ancora di più.
«E
poi? E poi?»
«Il
drago allora caricò le narici, fece un bel respiro e con un’enorme soffiata
lanciò una lingua di fuoco gigantesca, così grande che nessuno ne aveva mai
vista una simile. Distrusse quindi il cannone, e tutti gli altri che erano lì
vicini, fino a che non furono ridotti in poltiglia.»
«Anche
i soldati?», domandò Jimmy.
Mi
domandai per un attimo cosa fosse più politicamente corretto, poi cercai di
riportarmi sul realistico… per quanto fosse possibile.
«Sì,
anche i soldati! D’altronde, non era possibile fare una fiammata selettiva.
Come si scoprì più tardi, anche il governatore era stato arrostito dal drago.
Ma la cosa più importante era un’altra: ora il bambino, e tutti gli altri
abitanti, avevano accesso al pane e alle medicine. Corsero quindi tutti là, a
prendere ciò di cui avevano bisogno, finché non furono soddisfatti.»
«E
la torre?»
«Una
volta che tutti furono usciti, la torre venne distrutta dal drago. E sai una
cosa? Su quella valle tornò a splendere il sole - non tantissimo, eh -, quel
poco che bastava per dare a tutti un po’ di allegria.»
«E
come finisce?»
«Il
bambino riuscì a salvare la sua famiglia e venne celebrato da tutti come un
eroe. Anche il draghetto venne accettato nel piccolo paese, e divenne anzi
utilissimo per qualche lavoretto qua e là. Fine.»
«Mi
è piaciuta un sacco questa storia. Mi porterai presto a raccogliere bacche, a
fare le dighe e a liberare i formicai?»
Gli
sorrisi e gli accarezzai la testa. Quella storia in realtà era terribile, ma
l’importante era l’entusiasmo che leggevo nei suoi occhi.
«Certo.
Quando vuoi tu.»
«Anche
domani?»
Feci
spallucce, cercando di dissimulare il panico.
«Ma
sì, penso… penso che si possa fare.»
Sul
viso di Jimmy spuntò l’unico sorriso che gli avevo visto fare in tutta quella
serata. Lo accarezzai ancora un po’, finché, incredibilmente, non si
addormentò. Rimasi lì ancora qualche minuto, per assicurarmi che non si
svegliasse da un momento all’altro; poi, quando fui sicuro che fosse caduto in
un sonno profondo, mi infilai sotto le coperte insieme a lui, le tirai su e
provai a dormire.
Un rumore di passi
lontani mi svegliò. Spalancai gli occhi e mi ritrovai davanti la fronte di mio
fratello. Impiegai qualche secondo per ricordarmi dov’ero e cosa ci facevo lì.
Poi mi tornò in mente come ero finito in quella che per tanti anni era stata
casa mia, in quel letto troppo piccolo per due persone, ma troppo grande per un
fratellino in lacrime. Jimmy dormiva in posizione fetale addossato al mio
corpo, il dito in bocca e la coperta stretta tra i pugnetti. Il suo viso era
illuminato appena da una striscia di sole, segno che doveva essere già mattina.
Mi allontanai appena solo per guardarlo da più lontano e quella visione non
poté che sciogliermi il cuore. Avevo un fratellino tosto, che a soli cinque
anni sopportava due genitori in lite perenne e un fratello che non riusciva ad
amarlo come avrebbe dovuto - anche se su quell’ultimo punto ci stavo lavorando.
Il
sorriso stampato sulla mia faccia fu spazzato via l’attimo dopo, quando dal
piano di sotto udii una voce fin troppo familiare, di cui però non riuscivo a
distinguere le parole. Non era aggressiva, né arrabbiata, ma il solo sentirla
aveva messo il mio corpo in allerta. E poi cominciò a scapparmi la pipì. Come
potevo andare in bagno senza farmi beccare?
Feci un
respiro profondo. Inspira, espira, inspira, espira…
Non
volevo sgattaiolare fuori da quella casa come fossi stato un criminale. Ok, ero
entrato senza l’esplicito permesso dei padroni di casa e non era una bella
cosa, ma di certo non avrebbero chiamato la polizia per una sciocchezza del
genere.
Almeno
speravo.
Mi
ributtai sulla schiena e mi stropicciai gli occhi, poi sospirai. Quando la sera
prima ero accorso da Jimmy e avevo deciso di addormentarmi in quel letto, non
avevo proprio pensato a come affrontare la mattinata che sarebbe
inevitabilmente seguita.
Era
strano, comunque, svegliarsi con la voce di qualcuno. Erano anni ormai che
trovavo solo silenzio quando aprivo gli occhi la mattina, e a dire la verità
trovavo solo silenzio anche in tutto il resto della giornata. La TV mi faceva
più compagnia che a un ottantenne, quindi non era raro trovarmi sul divano
avvolto dalle coperte come un bozzolo di farfalla, visto che il riscaldamento
era rotto una volta sì e l’altra pure. Ecco perché svegliarmi la mattina con
accanto un altro essere umano e un nugolo di voci dal piano di sotto mi sembrò
la cosa più strana dell’universo. Strana, ma anche bella.
Lo
stomaco mi si contorse appena, se pensavo a quanto avevo desiderato tornare in
quella casa e a quanto, in fondo, era stato facile. Era bastato mettere da
parte l’orgoglio e rendere Jimmy una priorità perché tutto andasse liscio.
Sorrisi pensando a quella soluzione che avevo faticato tanto a trovare, ma che
in quel momento mi parve così ovvia.
Ascoltai
il placido respirare di mio fratello, e il soffio sommesso che emanava si
confuse poco dopo col rumore di…
… passi.
Ancora. Davanti alla porta.
Passi
che si fermarono proprio di fronte alla stanza dove eravamo e che lasciarono
presto spazio al cigolio di una maniglia che si abbassava e a quello dei
cardini di una porta che si apriva.
Mio
padre sobbalzò e soffocò un urlo.
Scattai
in piedi alla velocità della luce.
«Posso
spiegare, giuro.»
La bocca
di mio padre era spalancata, la mano ancora sulla maniglia. Bastò un attimo
perché la sua sorpresa lasciasse spazio a un’espressione più corrucciata.
«…
Nathan.»
Tirai un
sorriso nella speranza di non sembrare quello beccato con le mani nella
marmellata. Lo sguardo di mio padre rimase immutato, tanto per cambiare.
«Jimmy
mi ha chiamato ieri sera in lacrime e–»
«Basta»,
e fece un cenno col capo verso il corridoio. «Esci.»
Mi
lasciai andare a un sospiro che esprimeva tutto il mio disappunto per quella
spiegazione che non ero riuscito a dare, ma l’unico risultato che ottenni fu
mio padre accanto alla porta con un’espressione impaziente sul viso, prossima a
diventare omicida se non avessi obbedito di lì a poco.
Feci
come mi aveva ordinato, lasciando Jimmy sepolto tra le coperte e le mie
Converse slacciate ai piedi del letto. Con la coda dell’occhio lo vidi seguire
ogni mio movimento e mi sembrò tornato lo stesso padre di sempre. Stronzo. Mi
domandai dove fosse finito quel suo alter ego che mi aveva parlato in ospedale
e, ancora più curioso, cosa lo avesse indotto a manifestarsi. Ma come nuovo
Nathan mi ero ripromesso di restare indifferente a lui e a tutto ciò che gli orbitava
intorno; così cominciai a seguirlo al piano di sotto e, per tutti e diciassette
gli scalini, provai a ignorare quel senso d’ansia che ancora era capace di
incutermi.
In cucina trovai
mia madre. Non appena mi vide, mollò i bicchieri che stava asciugando e si
precipitò verso di me. Io la abbracciai e con la coda dell’occhio notai mio
padre sedersi al tavolo e afferrare il giornale che stava lì sopra. Ebbi come
la sensazione che lui fosse stato alla stregua di un corriere - io ero la
consegna per mia madre e lui mi aveva smollato lì come un pacco, per poi
tornare a farsi gli affari propri.
Mia
madre sciolse l’abbraccio e mi passò una mano tra i capelli.
«Tesoro,
che ci fai qui?»
Provai
a dissimulare l’imbarazzo per quella situazione.
«Mi
ha chiamato Jimmy ieri sera e–»
Mia
madre aggrottò le sopracciglia.
«Jimmy?
Tuo fratello?» Feci spallucce e annuii. «Perché ti ha chiamato?»
Lanciai
un’occhiata a mia madre e subito dopo a mio padre, che ancora leggeva il
giornale. O quantomeno era ciò che sembrava.
«Non
riusciva a dormire.»
Mia
madre mi fissò per un attimo, poi la sua espressione pensosa si tramutò prima
in imbarazzo e vergogna, poi in dispiacere. Con ogni probabilità aveva capito.
Si voltò verso mio padre, che ricambiò l’occhiata - interessante,
pensai. Giunsi alla conclusione che si accorgeva benissimo di ciò che accadeva
intorno a lui, dargli peso o meno era una scelta personale.
Una
voce dal piano di sopra interruppe sia i miei pensieri che l’occhiata tra i
miei genitori. A quanto pareva, Jimmy voleva la mamma.
Lei
mi guardò ancora con sguardo compassionevole, perché andare da Jimmy avrebbe
significato lasciarmi sola con mio padre. Io le feci cenno di andare e, mentre
la sentivo allontanarsi, avvertii il gelo avvicinarsi ed entrarmi dentro,
benché cercassi di negarlo.
Il giornale doveva
essere davvero molto interessante. Per tutto il tempo in cui mia madre si era
allontanata e aveva salito le scale, lui non aveva distolto lo sguardo nemmeno
per mezzo secondo. Non potevo esserne certo, ma sapevo che c’era qualcosa di
strano nel suo atteggiamento. In effetti non capitava così spesso di riuscire
ad avere un rapporto civile con lui, senza insulti e schiaffi.
Se lui
però non riusciva a distogliere lo sguardo dal suo giornale, io non riuscivo a
ignorare il mio disagio, che mi aveva fatto stare ritto in piedi per una
quantità di tempo che ormai potevo definire imbarazzante. Le mie gambe erano
come congelate, ben piantate sul pavimento, e per quanto mi sforzassi non
riuscivo a muovere neanche mezzo muscolo. Non era così che mi ero immaginato
l’indifferenza verso mio padre, non era così che volevo fosse il nuovo Nathan.
Rimasi in attesa di un commento acido da parte sua da un momento all’altro,
commento che però non arrivò e che andò ad aggiungersi alle stranezze che aveva
deciso di riservarmi in quell’ultimo periodo.
Sentii
in lontananza la vocina di Jimmy e fu lì però che ebbi un’intuizione. Il gelo
dentro si sciolse appena e cominciai a muovermi verso la dispensa. La aprii e
trovai subito quello che cercavo, nel punto esatto in cui l’avevo trovato
l’ultima volta. Afferrai il preparato per pancake e mi appuntai nella mente che
dovevo aggiungere solo uova e latte.
Aprii il
frigo e presi ciò che mi serviva, più una terrina per lavorare le uova. Posai
tutto sul bancone della cucina e cominciai a darmi da fare; poi, munito di
forchetta, mi misi a sbattere le uova. Inclinai la terrina e con un movimento
di polso cominciai a mescolare tuorli e chiare, ancora e ancora, finché non li
ritenni ben amalgamati. Aggiunsi la miscela e il latte poco alla volta, sempre
mescolando con la forchetta, con la quale mi premurai di raccattare anche
quell’impasto che aveva deciso di scappare sui bordi.
Un
fruscio di fogli improvviso mi fece sobbalzare appena, ma continuai ad
amalgamare - la parola d’ordine era “indifferenza”, d’altronde. Il rumore della
carta sbattuta sul tavolo - no, non era carta, era il giornale -
mi fece però fermare per un istante. Cazzo. Strinsi la forchetta e ripresi a
miscelare in maniera meccanica, senza preoccuparmi dell’impasto sui bordi della
terrina, con le orecchie ben tese per captare ogni movimento.
Lo
sentii spostare la sedia e alzarsi, poi cominciò a camminare, e il rumore dei
suoi passi divenne più intenso attimo dopo attimo, finché non avvertii la sua
presenza dietro di me. I miei battiti accelerarono e fui attraversato da un
brivido che risalì per tutta la schiena e si fermò alla nuca. Mi sentii
indifeso, con un nemico alle spalle che non potevo controllare.
Quando
però notai mio padre di fianco a me che buttava un occhio a quello che stavo
facendo, il cuore mi uscì dal petto, alla faccia dell’indifferenza. La mano che
mescolava cominciò a tremare. Sentii tutto il peso delle sue aspettative
tradite e mi sembrò che quella preparazione fosse quasi un esame di
riparazione. La vocina del me diciottenne mi suggerì che dovevo fare bene,
altrimenti mio padre non mi avrebbe mai più amato. Subito dopo spuntò anche
quella del me ventunenne, che non aveva bisogno di dimostrare un bel niente e
che mi disse che l’affetto di un padre per un figlio non aveva bisogno di
pancake.
Nonostante
questo, cominciò a tremare anche la mano con cui tenevo la terrina. Il mio
corpo si irrigidì tutto e così anche il mio viso che divenne teso e contratto. Sentivo
gli occhi di mio padre ancora lì. Erano lì. E il mio corpo in realtà era
in attesa di una punizione, e il mio viso in allerta per non lasciarsi
sopraffare dalle emozioni.
Ma
proprio mentre le gambe cominciavano a diventare molli, con la coda dell’occhio
lo vidi aprire il mobile sopra la sua testa e prenderne qualcosa, qualcosa che
tirò fuori dalla scatola e che attaccò alla corrente. L’attimo dopo mi sfilò da
sotto al naso la terrina e ci infilò quel qualcosa… le fruste elettriche. Le
azionò alla velocità minima e cominciò a mescolare con movimenti lenti e
circolari.
Non
poteva essere vero. Mi stava… aiutando? Stava facendo qualcosa di carino per
me? Forse aveva sbattuto la testa, oltre che le uova?
Gli
scoccai un’occhiata, ma era concentrato su ciò che stava facendo, e l’attimo
dopo mi chiesi se si fosse accorto che lo stavo fissando. Ovvio. Perché lo
avevo guardato? Ricacciai lo sguardo sulla mia forchetta, che nel frattempo
aveva cominciato a gocciolare sul ripiano, e mi domandai a cosa stesse pensando
lui. Perché lo stava facendo? Non era una dimostrazione di forza. Non era
nemmeno una dichiarazione di guerra. Era qualcos’altro che non capivo e che mi
faceva impazzire i battiti.
Stavamo
facendo qualcosa insieme, come padre e figlio? Non riuscivo a crederci. Lui,
che per tanti anni mi aveva nutrito a pane e insulti, ora stava lì con le
fruste in mano ad aiutarmi coi pancake. Mi accorsi che avevo paura a fidarmi di
quell’immagine, quella in cui mi sembrava di rivedere il padre che era stato.
Non mi volevo illudere, perché sapevo che se lo avessi fatto, anche solo per un
momento, sarebbe stata la fine. Tuttavia non riuscii a trattenere un istinto
innaturale e inaspettato, l’istinto di essere di nuovo suo figlio, il Nathan
che aveva tanto amato. Se si fosse voltato, anche solo per un momento, ero
certo che avrebbe letto nei miei occhi tutto ciò che sentivo per lui e forse
lui mi avrebbe rivelato ciò che sentiva per me.
Lo guardai
ancora, ma mio padre continuava a osservare l’impasto che si mescolava,
indifferente, proprio come io mi ero ripromesso di essere con lui. Mi soffermai
sulla sua barba accennata e su quel taglio degli occhi che avevamo in comune,
poi notai lo sguardo concentrato, la fronte corrucciata. Ripensai a tutte le
persone che mi avevano detto che mio padre era un coglione e che non avrei
dovuto perderci tempo; eppure non era quello che mi diceva la ragione, né quel
ritrovato istinto.
Desiderai
per un attimo che mi guardasse, che rivedesse in me quel figlio prediletto… ma
non accadde nulla.
Continuai
a osservarlo per un altro istante ancora, poi i miei occhi si arresero al suo
ignorarmi e si abbassarono per seguire il movimento circolare delle sue mani
guidate dalle fruste. Sospirai ancora, e quel respiro portò via con sé pensieri
e parole.
Mi
vuoi bene, papà?
… Ma non
uscì niente. Solo aria e un battito perso.
Passò un
minuto buono, forse di più, forse di meno, poi lui spense le fruste, le sbatté
sulla terrina per liberarle da quell’intruglio, staccò la presa e le mise nel
lavello. Senza dire una parola, lo sentii sedersi al tavolo e riprendere la
lettura del giornale. Gettai un’occhiata al preparato e come lo guardai sentii
un nodo risalirmi su per la gola, per poi fermarsi proprio in mezzo. Riportai
la terrina davanti a me e la afferrai con entrambe le mani; feci scorrere i
polpastrelli sulla sua superficie ruvida, proprio come il rapporto con mio
padre, finché il nodo che avevo alla gola si sciolse, così come il gelo che
sentivo dentro. Lacrime silenziose mi rigarono il viso, così strizzai gli occhi
per cercare di trattenerle, ma fu tutto inutile: continuavano a scendere, lente
e costanti come fiocchi di neve, e io lasciai che raggiungessero il mento e
cadessero a terra, come a liberarmi di un peso che avevo portato troppo a
lungo.
Finii
di preparare i pancake senza più alcun intervento da parte di mio padre, che
aveva continuato imperterrito a leggere il giornale senza proferire parola.
Misi tutto nel lavello, poi pensai a cosa lavare per primo.
Gettai
uno sguardo alla terrina, ma un pensiero improvviso mi bloccò.
…
Era infatti possibile che quel gesto non fosse stato altro che una muta
risposta a quelle parole che avevo solo pensato?
Non ricordavo
neanche più quand’era stata l’ultima volta che avevamo fatto colazione tutti
insieme, come una vera famiglia. Be’, oddio, forse “vera famiglia” era
un’espressione un po’ esagerata, visto che mio padre mi ignorava con cognizione
di causa sia negli sguardi che nei discorsi, eppure sapevo che non avrei
dimenticato facilmente quanto era accaduto. Forse non lo avrebbe dimenticato
neanche lui.
Lanciavo
occhiate a mio padre e continuavo a chiedermi perché mi avesse aiutato a
preparare i pancake e cosa si nascondesse dietro la sua ostinazione a non
interagire con me. Ripensai a ciò che era successo nelle ultime settimane e mi
vennero in mente solo il pestaggio e la litigata con mia madre. Possibile che
una di queste due cose - o entrambe - lo avessero spinto a cambiare atteggiamento
nei miei confronti?
Osservai
ancora una volta quel quadretto quasi irreale, con mia madre che passava lo
sciroppo d’acero a mio padre e Jimmy che si stringeva a me contento ogni volta
che non aveva la bocca piena. Sentii per la prima volta qualcosa di simile al
calore e all’affetto, un timido accenno di felicità dopo tutta la merda a
palate che la vita mi aveva lanciato addosso; e siccome avevo imparato a vivere
alla giornata, non me lo feci scappare e lo acchiappai.
«Quindi te ne vai
davvero?»
Stavo
finendo di allacciarmi le scarpe, quando mia madre irruppe con questa domanda.
Mi alzai in piedi e mi risistemai il giubbotto, poi annuii.
«Ho
bisogno di mettere ordine qua e là. Ma tornerò, non preoccuparti.»
In
realtà non ne ero così sicuro, ma sapevo che era quello che voleva sentirsi
dire. Subito dopo mi abbracciò per poi stringermi forte a sé, e io feci
altrettanto. Nello stringerla fui invaso dalla sensazione di pace che dà un
capitolo che si chiude, una linea tracciata a terra che delimita il passato dal
presente. Quella partenza, che era cominciata come un’idea per fuggire dai miei
problemi, stava diventando l’opportunità per iniziare qualcosa di nuovo, per
imparare a stare al mondo.
Ci
sciogliemmo dall’abbraccio e lei mi tirò un buffetto, seguito da un sorriso che
forse voleva trattenere delle lacrime.
«Mi
mancherai, tesoro.»
«Anche
tu mi mancherai.»
Dalle
scale arrivò il rumore di passettini rapidi, così mi voltai e vidi Jimmy
vestito di tutto punto con uno zainetto sulle spalle. Nostra madre gli si
avvicinò e si accovacciò alla sua altezza.
«Amore,
ma che ci fai tutto vestito a quest’ora? Non devi andare a scuola, oggi.»
Le
labbra di Jimmy si aprirono in un sorriso.
«A
scuola no, ma io e Naty dobbiamo andare nel bosco a raccogliere le bacche!»
Si
avvicinò a me e strinse la sua piccola mano nella mia. Mi ricordai della storia
che gli avevo raccontato per farlo addormentare e mi stupì notare quanto
l’avesse presa sul serio. O forse vedeva soltanto l’opportunità per stare
lontano per un po’ da quella gabbia di matti, ma non ero certo che un bambino
di cinque anni potesse già pensare una cosa simile.
«Giusto,
le bacche. E poi dobbiamo anche vedere le formiche!»
I
suoi occhi si illuminarono e, ancora con la sua mano nella mia, cominciò a
saltellare e gridare pieno di entusiasmo, con quello zainetto un po’ troppo
grande per lui e anche piuttosto pieno - di cosa lo avrei scoperto presto.
Ricevuta
la benedizione da nostra madre per il piano che avevamo in mente, la salutammo
entrambi con baci e abbracci. Ci aprì la porta di casa e ne approfittai per
darle un ultimo saluto. La coda dell’occhio mi cadde però su mio padre, davanti
all’ingresso della cucina, a braccia conserte. Una scena che non aveva niente
di speciale e che avrei forse ignorato, se non fosse stato per un piccolo,
fugace particolare.
Per
la prima volta, infatti, mio padre non aveva rifuggito il mio sguardo.
Angolo autrice
Salve a tutti! Come vedete, alla fine sono riuscita a infittire la
pubblicazione come anticipato, nonostante i mille impegni che questo lunedì
aveva in serbo per me.
Qui torniamo un attimo su Nathan e la sua famiglia, e sul
non-rapporto tra lui e suo padre, che però in qualche modo trova una sua
distensione. E poi c’è sempre Jimmino-del-mio-cuore che ha il potere di rubare
sempre la scena ogni volta che compare ahahah XD
Dal prossimo capitolo potremmo dire che cominciamo a entrare nel
finale. Son quattro capitoli separati ma credo che emotivamente stiano un po’
tutti insieme, e io non vedo l’ora che arrivino i prossimi giovedì e lunedì per
poterli pubblicare!
Volevo anche dirvi che ho cominciato a fare un giro di preventivi
per l’editing di questa storia, visto che mi piacerebbe metterla su Amazon. Se
mi sono decisa è stato solo grazie al vostro supporto, altrimenti sarei ancora
qui a piangermi addosso e a pensare di fare schifo XD Per cui GRAZIE!
Al solito ne approfitto anche per ringraziare tutti coloro che mi
hanno lasciato un commento, siete la mia forza, letteralmente!
A giovedì <3
Simona