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Autore: holls    28/03/2022    6 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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29. Il drago e il bambino

 

 

Il mio divano non mi era mai sembrato così scomodo. Disteso, lo sguardo rivolto verso la tv, avevo provato ad addormentarmi più di una volta, senza mai riuscirci. L’orologio segnava quasi le dieci di sera, un orario in cui sarei potuto uscire per andare a divertirmi, ma la telefonata con Alan del giorno prima mi aveva lasciato con un senso di sospensione addosso, come se il mio destino fosse dipeso solo dalla sua bravura come poliziotto.

Ogni volta che chiudevo gli occhi li riaprivo subito con un sussulto, così riprendevo a guardare le immagini che scorrevano sul televisore e lasciavo andare un sospiro. Dopo l’ennesimo risveglio, mi dissi che forse era più saggio mettersi il pigiama e andare a dormire, ma sapevo che nemmeno in quel modo sarei riuscito ad addormentarmi.

Il trillo del campanello mi fece sobbalzare. Guardai l’orologio: erano le dieci e un quarto. Chi cavolo poteva essere a quell’ora? Mi drizzai sul divano e indugiai un attimo, durante il quale il viso di Harvey sfrecciò nella mia mente e mi lasciò un po’ di nausea. Mi alzai e mi trascinai fino al citofono più per curiosità che per altro, poi alzai la cornetta per sapere chi era.

«Alan», fu la risposta dall’altra parte. Mi sollevò sapere che non fosse Harvey, ma il fatto che si trattasse di Alan non mi rassicurò come aveva fatto altre volte. Gli aprii il portone e aspettai che salisse, mentre da qualche parte cominciai a temere che fosse venuto con un altro paio di poliziotti pronto ad arrestarmi.

Come era prevedibile, però, arrivò da solo. Non appena si avvicinò notai che aveva il viso stanco, ma nascose subito quella stanchezza dietro un sorriso abbozzato.

«Scusa per l’orario indecente. Stavi dormendo?»

«No, guardavo la tv. Entra pure», gli risposi, dopodiché chiusi la porta alle sue spalle. A riempire l’aria rimase solo il rumore sommesso della tv, a cui si aggiunse subito dopo quello di Alan che cercava qualcosa nella tasca dei pantaloni. Bastò un attimo perché tirasse fuori un pacchetto di Marlboro e me lo porgesse.

«Per te.»

Lo afferrai e me lo rigirai un paio di volte tra le mani, come se mi fossi aspettato di trovarci qualcosa di diverso da un comune pacchetto di Marlboro.

«Oh, grazie. Devi farti perdonare qualcosa?», chiesi, e cominciai a ridacchiare. Lui però non si scompose quanto mi sarei aspettato, così la mia risata morì nel giro di qualche secondo. Teneva gli occhi bassi, e se li alzava era solo per rincorrere qualche pensiero invisibile nella stanza. Le mani infilate nelle tasche dei pantaloni invece mi diedero l’idea che si sentisse in imbarazzo, un sentimento che facevo fatica ad associare ad Alan.

«Volevo scusarmi con te», disse, poi incrociò il mio sguardo. «Ti ho messo nei casini e non te lo meritavi. E in generale non sempre mi sono comportato bene nei tuoi confronti. Mi dispiace.»

Il primo impulso fu quello di abbracciarlo, ma esitai. Sembrava stanco davvero, teso e un po’ mi irrigidii anch’io perché non mi aspettavo che venisse a scusarsi, di certo non a quell’ora. Scaricai quella tensione sul pacchetto che tenevo in mano, lasciando che la plastica che lo avvolgeva sfrigolasse appena al passaggio delle mie dita. Mi sforzai di ripensare ai momenti in cui mi aveva fatto innervosire col suo atteggiamento, ma tutta la rabbia, se mai c’era stata, apparteneva già al passato.

«Non ti preoccupare. Non dico che sia stato piacevole, ma so che l’hai fatto a fin di bene. È tutto ok, davvero.»

Lui si lasciò andare a un sospiro e a un sorriso, e fu in quel momento che lo abbracciai. Le sue braccia si chiusero subito sul mio corpo come in un gesto automatico, una ad avvolgermi le spalle e l’altra all’altezza della vita. Dopo qualche istante iniziò a ondeggiare in modo quasi impercettibile da sinistra a destra, da destra a sinistra, in un movimento che sembrava volesse cullarmi. Mi fece visita un sentimento che erano ormai anni che non provavo più: un senso di sicurezza e pace, la certezza che avrei potuto anche chiudere gli occhi tra le sue braccia per ore con la garanzia che sarei stato al sicuro da tutti i pericoli. Appoggiato alla sua spalla sul divano, o disteso con la testa accoccolata sulle sue gambe, ero certo che sarei riuscito ad addormentarmi in un battibaleno.

«Ti va di rimanere?», sussurrai, senza sapere perché glielo avessi chiesto. Lui smise di dondolare e pensai di aver osato troppo, che avrebbe sciolto l’abbraccio e che se ne sarebbe andato via dando a malapena una spiegazione. Invece le sue braccia rimasero chiuse intorno a me, forse solo un po’ più tese.

«Mi piacerebbe, ma non posso», rispose, e il fatto che avesse anche solo contemplato la possibilità di accettare mi fece perdere un battito. «Devo tornare a lavoro.»

Spostai indietro la testa quel poco che bastò per vederlo.

«A quest’ora?»

«Non dirlo a me…»

Di sicuro si stava occupando di una cosa grossa. Mi domandai se c’entrasse qualcosa la rapina o anche Harvey, ma non chiesi niente. Ad Alan però non sfuggiva nulla, né delle mie espressioni, né dei miei pensieri non detti.

«Posso dirti solo che ho promesso di aiutarti ed è quello che sto facendo.»

Non sapevo se sentirmi rassicurato o in colpa per quella frase, ma alla fine prevalse di nuovo quel senso di rassicurazione che mi dava anche il solo vederlo. Gli avevo chiesto di aiutarmi e stava mantenendo la sua promessa, anche se in fondo non mi doveva niente, e non ricordavo che molte altre persone avessero fatto lo stesso in passato.

Lo sentii muovere il braccio con cui mi cingeva le spalle, poi il suo sguardo mi superò per guardare l’ora sul suo orologio da polso.

«Devo scappare», disse solo, e sciolse l’abbraccio. Sul petto, dove fino a un attimo prima c’era stato il suo corpo, sentii fresco.

«Grazie di tutto. E buon lavoro.»

Ci salutammo e gli aprii la porta, poi sventolai la mano con cui tenevo ancora il pacchetto di Marlboro. Quando richiusi la porta tornai a guardarlo, e non potei fare a meno di sorridere per quel gesto così inaspettato e tenero.

Tornai a distendermi sul divano per guardare la tv e posai il pacchetto, ancora incellofanato, proprio davanti al petto. Sì, Alan non sempre si era comportato bene con me - avevo perso il conto delle volte in cui mi aveva chiesto di vedersi con un secondo fine -, eppure non potevo davvero fargliene una colpa, perché era giusto che lavorasse nel modo più scrupoloso possibile. Non mi doveva davvero delle scuse, eppure lo aveva fatto lo stesso, senza cercare giustificazioni.

La sensazione delle mani di Alan sul mio corpo sparì piano piano, ma ciò che avevo provato in quegli istanti era tutt’altro che scomparso. Mi aveva fatto sentire protetto, forse anche amato, e mi chiesi cosa sarebbe successo se Alan avesse accettato il mio invito a rimanere. Mi ritrovai a desiderare di stare solo con lui più di ogni altra cosa, a voler sentire di nuovo quel contatto e quelle sensazioni che mi stavano facendo sorridere come un ebete.

Mi addormentai pensando se mi sarebbe mai ricapitato di incontrare qualcun altro come lui, se avrei trovato altrettanto in California, ma fu una domanda che rimase senza risposta.

 

A svegliarmi fu il trillo del telefono. Mi strusciai gli occhi e mugolai, poi, con la vista ancora un po’ annebbiata, mi accorsi che mancava un quarto d’ora all’una. Era di nuovo Alan? Mi tirai su per l’ennesima volta e sbadigliai, mentre la suoneria del telefono mi rimbombava nelle orecchie, poi mi diressi verso il telefono e alzai la cornetta.

«Fratellone…»

Il sangue mi si gelò nelle vene.

«… Jimmy?!»

 

Alle 01:14 c’era un silenzio incredibile. Era diverso dal silenzio che si sente durante la cena, quello che aleggia nell’aria solo perché tutti sono a mangiare e hanno la bocca piena o quello di quando non hai coinquilini e ti vergogni a parlare da solo. Il silenzio delle 01:14 era spettrale, segno di una città a riposo, come se un enorme organismo si fosse fermato, immobile per qualche ora, quasi vittima di un incantesimo.

Quello era il genere di silenzio a cui ero sempre stato abituato, che mi aveva sorpreso alle 01:14 così come in molte altre ore della notte. Solo che di spettrale, in quel momento, non c’era proprio niente, ma c’era anzi un organismo vivo e pulsante, pronto a esplodere, pieno di linfa che scorreva nelle sue vene. Una linfa talmente potente e carica di energia che non poteva far altro che urlare, spezzare il silenzio che cercavo di ritrovare in quella camera, seduto sul letto, inutilmente.

I due grandi occhi di mio fratello mi fissavano, senza la coperta a proteggerlo, quasi fosse cresciuto tutto insieme. Non uscivano parole da quel piccolo esserino che mi fissava, che con una muta richiesta chiedeva cosa fare, lì, solo, in mezzo alla notte. Orsetti e coniglietti non gli offrivano più il conforto necessario, e quindi eccomi lì, in carne ed ossa, vivo e vegeto nel cuore della notte, seduto sul suo letto, zitto anch’io.

Se quello fosse stato un film, probabilmente ci sarebbero stati tuoni e lampi, e in sottofondo il picchiettare della pioggia sulla finestra, mentre ogni tanto uno squarcio di luce illuminava i nostri volti. Sì, un lampo improvviso avrebbe mostrato a mio fratello tutta la mia fragilità e a me la sua richiesta di aiuto. I tuoni sempre più vicini avrebbero soffocato le urla dei nostri genitori, lasciandoci il privilegio di perdere quella parola, quell’insulto o solo il rumore di un piatto spezzato a terra.

E invece no, non c’era niente di tutto quello. Non c’erano lampi, né tuoni, né squarci di luce, né sentimenti da nascondere. Perché la verità è che non serviva niente di tutto quello per rendere la situazione più drammatica di quanto già non fosse, non serviva perdere qualche parola per non afferrare più il senso dei discorsi che provenivano dal piano di sotto.

«Fratellone, quando smetteranno?»

Jimmy stringeva la coperta, i pugnetti chiusi fino quasi a farsi male.

Sospirai. Il botta e risposta tra mio padre e mia madre lasciava poco spazio all’immaginazione. La porta della camera era chiusa, ma là fuori c’era un campo di battaglia, e giungevano colpi su colpi per responsabilità mancate, divergenza di opinioni e l’ultimo, immancabile, anche-Nathan-è-tuo-figlio. Sapevo che tutto il resto era una scusa, che il problema ero io.

«Non lo so. Perché non chiedi a Bunny di farti compagnia?»

Afferrai il coniglietto, dimenticato su una parte del letto e glielo porsi facendolo saltellare.

«Non si chiama Bunny. E comunque ora voglio solo un abbraccio dal mio fratellone. Mi abbracci?»

Non me lo feci ripetere due volte e lo abbracciai. Lo strinsi forte, ma lui di più, molto di più; strizzò i pugnetti sulla mia maglietta come aveva fatto fino a poco prima con la coperta, e spinse la sua testa sul mio petto, quasi come a volerci entrare dentro, a mo’ di scudo. Io lo avvolsi come potevo, cercai di far passare le braccia sulle sue orecchie, ma non servì a molto.

Sapevo che litigavano per me, perché ormai avevo sollevato quel polverone e avevo smesso di subire l’indifferenza di mio padre; e mia madre, come mi aveva sempre detto, stava cercando la soluzione migliore e, come capii in quel momento, stava cercando una soluzione al posto mio.

Cominciai ad accarezzare la schiena di Jimmy con movimenti circolari, quando mi accorsi che il suo corpo era scosso dai singhiozzi. Gemeva piano, o forse erano solo le urla dei nostri genitori a sovrastare il pianto di quella creaturina; ma quando alzò gli occhi, e li vidi così umidi e troppo disperati, qualcosa dentro di me scattò. Era qualcosa che somigliava a un senso di protezione, di affetto… ma no, era qualcosa di più: un senso di responsabilità. Dovevo qualcosa a mio fratello. Gli dovevo tutti quegli anni in cui lo avevo odiato, tutto il risentimento provato perché lo consideravo un mio sostituto. Avevo scaricato la mia sofferenza su di lui, avevo aumentato i conflitti con mio padre, perché oltre al non sentirmi accettato, mi sentivo anche sostituito.

Avevo avuto la mia parte in quel gioco di sofferenza al ribasso, avevo sbagliato ma avevo anche evitato di agire. Ero rimasto lì, come lui, a nascondermi dietro a una coperta, mentre altri sbraitavano per proteggermi.

«Ti racconto una storia, ti va?»

Lui si staccò da me, e mi guardò con un’aria stupita, come a chiedersi se fosse proprio quello il momento di pensare a una cosa simile. Lo rassicurai con un sorriso, e lui si fidò, pensando che se un adulto gli proponeva una storia in un momento come quello, allora era sicuramente la cosa giusta da fare. Lo aiutai a nascondersi dentro le coperte, gliele rimboccai e mi sedetti quanto più vicino a lui. Gli accarezzai la testa, mentre cercavo una storia da raccontare.

«C’era una volta un paese molto triste, in mezzo alle colline, ma così in mezzo che non arrivava mai il sole. Gli abitanti erano davvero infelici, perché il governatore aveva imposto dei prezzi molto alti, anche solo per comprare un pezzo di pane. Così gli abitanti, sempre al buio e affamati, conducevano una vita triste e grama.»

«Che cosa vuol dire ‘grama’?»

«Be’, ecco...», mi grattai la fronte in cerca di una spiegazione, «vuol dire che avevano una vita difficile e sfortunata. Qualcosa del genere.»

Mio fratello parve soddisfatto, così continuai, cercando di farmi venire in mente un seguito adeguato.

«Un giorno, tra i contadini, nacque un bambino. Non era una cosa strana, perché i contadini facevano tanti figli, ma lui era speciale. Aveva...» mi fermai di nuovo per pensare, «sì, aveva gli occhi rossi e i capelli bianchi.»

«Un bambino coi capelli bianchi?!»

«A volte può succedere. Cioè, non è che siano proprio bianchi bianchi, è più del tipo che non hanno colore. Vabbè. Comunque a vedersi erano bianchi. Ovviamente nessuno voleva questo bambino, nemmeno a lavorare. Così giocava sempre solo, nei boschi, visto che nessuno lo voleva.»

«E a cosa giocava nei boschi?», domandò mio fratello, con gli occhi ancora umidi ma più vispi che mai.

«Be’, raccoglieva bacche, poi le pestava e ci faceva un gustoso succo. Oppure creava delle dighe o liberava i formicai dai sassi di qualche altro bambino burlone.»

«Che bello, anch’io voglio farlo! Vai avanti.»

Sorrisi. Gli strepiti dei miei genitori sembravano quasi diventati un sottofondo monotono.

«Un giorno, mentre giocava tra i boschi, il bambino vide un animale ferito. Però vide subito che quell’animale era… diverso, come lui. Era piccolo, lungo quanto te, aveva delle piccole ali e dalla bocca sputava fuoco.»

Gli occhi di Jimmy si illuminarono.

«Un drago!»

«Proprio così, un drago. Però era costretto a vivere nascosto nei boschi, perché nessuno voleva credere alla sua esistenza. Il drago si dimostrò subito affettuoso nei confronti del bambino e presto fecero amicizia. Nel frattempo, mentre passavano le settimane e i giorni, il governatore divenne sempre più cattivo. Aveva tolto il pane alla povera gente e lo distribuiva solo in alcuni giorni della settimana. Intanto lui guardava tutto dalla sua torre in cima alla collina, che rendeva la città ancora più buia.»

«E poi?»

«Il bambino imparò presto a domare il drago e, si può dire, anche l’opposto. Il bambino non aveva mai avuto un vero amico e stare col drago gli insegnò come comportarsi in questi casi. Cominciò quindi a dividere le bacche con lui e utilizzò il suo fuoco per riscaldare gli altri animali nel bosco. Quando però tornò a casa, come faceva tutte le sere, si accorse che i suoi genitori non stavano bene. Avevano mangiato un fungo velenoso e avevano bisogno di cure.»

«Oh no! Può provare a curarli col succo di bacche.»

«Esatto, provò a curarli col succo, ma non ebbe effetto. Il problema era che le medicine erano custodite nella torre del malvagio governatore, dove nessuno riusciva ad accedere. C’erano infatti dei… cannoni di plastica all’ingresso.»

«Di plastica? Non li ho mai sentiti.»

Nemmeno io, pensai, ma trattenni il pensiero e la risata.

«Be’, le storie devono stare al passo con i tempi, no? Comunque, il bambino ebbe un’idea. Montò così in sella al suo drago e tentò di raggiungere la torre del governatore. Il percorso però era ricco di ostacoli: c’erano rovi e fronde di alberi a custodire il bosco, ma niente fermò i due piccoli amici. Non appena videro la luce del sole, sfrecciarono verso la torre. Quando però il governatore e i suoi soldati videro arrivare il drago, non persero tempo ad azionare i cannoni. SBUM! Tentarono con il primo colpo. Il drago lo schivò e si diresse proprio verso il cannone. Il soldato allora lo caricò di nuovo, ed era pronto a sparare, avrebbe colpito in pieno il drago…!»

Gli occhi di mio fratello si spalancarono ancora di più.    

«E poi? E poi?»

«Il drago allora caricò le narici, fece un bel respiro e con un’enorme soffiata lanciò una lingua di fuoco gigantesca, così grande che nessuno ne aveva mai vista una simile. Distrusse quindi il cannone, e tutti gli altri che erano lì vicini, fino a che non furono ridotti in poltiglia.»

«Anche i soldati?», domandò Jimmy.

Mi domandai per un attimo cosa fosse più politicamente corretto, poi cercai di riportarmi sul realistico… per quanto fosse possibile.

«Sì, anche i soldati! D’altronde, non era possibile fare una fiammata selettiva. Come si scoprì più tardi, anche il governatore era stato arrostito dal drago. Ma la cosa più importante era un’altra: ora il bambino, e tutti gli altri abitanti, avevano accesso al pane e alle medicine. Corsero quindi tutti là, a prendere ciò di cui avevano bisogno, finché non furono soddisfatti.»

«E la torre?»

«Una volta che tutti furono usciti, la torre venne distrutta dal drago. E sai una cosa? Su quella valle tornò a splendere il sole - non tantissimo, eh -, quel poco che bastava per dare a tutti un po’ di allegria.»

«E come finisce?»

«Il bambino riuscì a salvare la sua famiglia e venne celebrato da tutti come un eroe. Anche il draghetto venne accettato nel piccolo paese, e divenne anzi utilissimo per qualche lavoretto qua e là. Fine.»

«Mi è piaciuta un sacco questa storia. Mi porterai presto a raccogliere bacche, a fare le dighe e a liberare i formicai?»

Gli sorrisi e gli accarezzai la testa. Quella storia in realtà era terribile, ma l’importante era l’entusiasmo che leggevo nei suoi occhi.

«Certo. Quando vuoi tu.»

«Anche domani?»

Feci spallucce, cercando di dissimulare il panico.

«Ma sì, penso… penso che si possa fare.»

Sul viso di Jimmy spuntò l’unico sorriso che gli avevo visto fare in tutta quella serata. Lo accarezzai ancora un po’, finché, incredibilmente, non si addormentò. Rimasi lì ancora qualche minuto, per assicurarmi che non si svegliasse da un momento all’altro; poi, quando fui sicuro che fosse caduto in un sonno profondo, mi infilai sotto le coperte insieme a lui, le tirai su e provai a dormire.

 

Un rumore di passi lontani mi svegliò. Spalancai gli occhi e mi ritrovai davanti la fronte di mio fratello. Impiegai qualche secondo per ricordarmi dov’ero e cosa ci facevo lì. Poi mi tornò in mente come ero finito in quella che per tanti anni era stata casa mia, in quel letto troppo piccolo per due persone, ma troppo grande per un fratellino in lacrime. Jimmy dormiva in posizione fetale addossato al mio corpo, il dito in bocca e la coperta stretta tra i pugnetti. Il suo viso era illuminato appena da una striscia di sole, segno che doveva essere già mattina. Mi allontanai appena solo per guardarlo da più lontano e quella visione non poté che sciogliermi il cuore. Avevo un fratellino tosto, che a soli cinque anni sopportava due genitori in lite perenne e un fratello che non riusciva ad amarlo come avrebbe dovuto - anche se su quell’ultimo punto ci stavo lavorando.

Il sorriso stampato sulla mia faccia fu spazzato via l’attimo dopo, quando dal piano di sotto udii una voce fin troppo familiare, di cui però non riuscivo a distinguere le parole. Non era aggressiva, né arrabbiata, ma il solo sentirla aveva messo il mio corpo in allerta. E poi cominciò a scapparmi la pipì. Come potevo andare in bagno senza farmi beccare?

Feci un respiro profondo. Inspira, espira, inspira, espira…

Non volevo sgattaiolare fuori da quella casa come fossi stato un criminale. Ok, ero entrato senza l’esplicito permesso dei padroni di casa e non era una bella cosa, ma di certo non avrebbero chiamato la polizia per una sciocchezza del genere.

Almeno speravo.

Mi ributtai sulla schiena e mi stropicciai gli occhi, poi sospirai. Quando la sera prima ero accorso da Jimmy e avevo deciso di addormentarmi in quel letto, non avevo proprio pensato a come affrontare la mattinata che sarebbe inevitabilmente seguita.

Era strano, comunque, svegliarsi con la voce di qualcuno. Erano anni ormai che trovavo solo silenzio quando aprivo gli occhi la mattina, e a dire la verità trovavo solo silenzio anche in tutto il resto della giornata. La TV mi faceva più compagnia che a un ottantenne, quindi non era raro trovarmi sul divano avvolto dalle coperte come un bozzolo di farfalla, visto che il riscaldamento era rotto una volta sì e l’altra pure. Ecco perché svegliarmi la mattina con accanto un altro essere umano e un nugolo di voci dal piano di sotto mi sembrò la cosa più strana dell’universo. Strana, ma anche bella.

Lo stomaco mi si contorse appena, se pensavo a quanto avevo desiderato tornare in quella casa e a quanto, in fondo, era stato facile. Era bastato mettere da parte l’orgoglio e rendere Jimmy una priorità perché tutto andasse liscio. Sorrisi pensando a quella soluzione che avevo faticato tanto a trovare, ma che in quel momento mi parve così ovvia.

Ascoltai il placido respirare di mio fratello, e il soffio sommesso che emanava si confuse poco dopo col rumore di…

… passi. Ancora. Davanti alla porta.

Passi che si fermarono proprio di fronte alla stanza dove eravamo e che lasciarono presto spazio al cigolio di una maniglia che si abbassava e a quello dei cardini di una porta che si apriva.

Mio padre sobbalzò e soffocò un urlo.

Scattai in piedi alla velocità della luce.

«Posso spiegare, giuro.»

La bocca di mio padre era spalancata, la mano ancora sulla maniglia. Bastò un attimo perché la sua sorpresa lasciasse spazio a un’espressione più corrucciata.

«… Nathan.»

Tirai un sorriso nella speranza di non sembrare quello beccato con le mani nella marmellata. Lo sguardo di mio padre rimase immutato, tanto per cambiare.

«Jimmy mi ha chiamato ieri sera in lacrime e–»

«Basta», e fece un cenno col capo verso il corridoio. «Esci.»

Mi lasciai andare a un sospiro che esprimeva tutto il mio disappunto per quella spiegazione che non ero riuscito a dare, ma l’unico risultato che ottenni fu mio padre accanto alla porta con un’espressione impaziente sul viso, prossima a diventare omicida se non avessi obbedito di lì a poco.

Feci come mi aveva ordinato, lasciando Jimmy sepolto tra le coperte e le mie Converse slacciate ai piedi del letto. Con la coda dell’occhio lo vidi seguire ogni mio movimento e mi sembrò tornato lo stesso padre di sempre. Stronzo. Mi domandai dove fosse finito quel suo alter ego che mi aveva parlato in ospedale e, ancora più curioso, cosa lo avesse indotto a manifestarsi. Ma come nuovo Nathan mi ero ripromesso di restare indifferente a lui e a tutto ciò che gli orbitava intorno; così cominciai a seguirlo al piano di sotto e, per tutti e diciassette gli scalini, provai a ignorare quel senso d’ansia che ancora era capace di incutermi.

 

In cucina trovai mia madre. Non appena mi vide, mollò i bicchieri che stava asciugando e si precipitò verso di me. Io la abbracciai e con la coda dell’occhio notai mio padre sedersi al tavolo e afferrare il giornale che stava lì sopra. Ebbi come la sensazione che lui fosse stato alla stregua di un corriere - io ero la consegna per mia madre e lui mi aveva smollato lì come un pacco, per poi tornare a farsi gli affari propri.

Mia madre sciolse l’abbraccio e mi passò una mano tra i capelli.

«Tesoro, che ci fai qui?»

Provai a dissimulare l’imbarazzo per quella situazione.

«Mi ha chiamato Jimmy ieri sera e–»

Mia madre aggrottò le sopracciglia.

«Jimmy? Tuo fratello?» Feci spallucce e annuii. «Perché ti ha chiamato?»

Lanciai un’occhiata a mia madre e subito dopo a mio padre, che ancora leggeva il giornale. O quantomeno era ciò che sembrava.

«Non riusciva a dormire.»

Mia madre mi fissò per un attimo, poi la sua espressione pensosa si tramutò prima in imbarazzo e vergogna, poi in dispiacere. Con ogni probabilità aveva capito. Si voltò verso mio padre, che ricambiò l’occhiata - interessante, pensai. Giunsi alla conclusione che si accorgeva benissimo di ciò che accadeva intorno a lui, dargli peso o meno era una scelta personale.

Una voce dal piano di sopra interruppe sia i miei pensieri che l’occhiata tra i miei genitori. A quanto pareva, Jimmy voleva la mamma.

Lei mi guardò ancora con sguardo compassionevole, perché andare da Jimmy avrebbe significato lasciarmi sola con mio padre. Io le feci cenno di andare e, mentre la sentivo allontanarsi, avvertii il gelo avvicinarsi ed entrarmi dentro, benché cercassi di negarlo.

Il giornale doveva essere davvero molto interessante. Per tutto il tempo in cui mia madre si era allontanata e aveva salito le scale, lui non aveva distolto lo sguardo nemmeno per mezzo secondo. Non potevo esserne certo, ma sapevo che c’era qualcosa di strano nel suo atteggiamento. In effetti non capitava così spesso di riuscire ad avere un rapporto civile con lui, senza insulti e schiaffi.

Se lui però non riusciva a distogliere lo sguardo dal suo giornale, io non riuscivo a ignorare il mio disagio, che mi aveva fatto stare ritto in piedi per una quantità di tempo che ormai potevo definire imbarazzante. Le mie gambe erano come congelate, ben piantate sul pavimento, e per quanto mi sforzassi non riuscivo a muovere neanche mezzo muscolo. Non era così che mi ero immaginato l’indifferenza verso mio padre, non era così che volevo fosse il nuovo Nathan. Rimasi in attesa di un commento acido da parte sua da un momento all’altro, commento che però non arrivò e che andò ad aggiungersi alle stranezze che aveva deciso di riservarmi in quell’ultimo periodo.

Sentii in lontananza la vocina di Jimmy e fu lì però che ebbi un’intuizione. Il gelo dentro si sciolse appena e cominciai a muovermi verso la dispensa. La aprii e trovai subito quello che cercavo, nel punto esatto in cui l’avevo trovato l’ultima volta. Afferrai il preparato per pancake e mi appuntai nella mente che dovevo aggiungere solo uova e latte.

Aprii il frigo e presi ciò che mi serviva, più una terrina per lavorare le uova. Posai tutto sul bancone della cucina e cominciai a darmi da fare; poi, munito di forchetta, mi misi a sbattere le uova. Inclinai la terrina e con un movimento di polso cominciai a mescolare tuorli e chiare, ancora e ancora, finché non li ritenni ben amalgamati. Aggiunsi la miscela e il latte poco alla volta, sempre mescolando con la forchetta, con la quale mi premurai di raccattare anche quell’impasto che aveva deciso di scappare sui bordi.

Un fruscio di fogli improvviso mi fece sobbalzare appena, ma continuai ad amalgamare - la parola d’ordine era “indifferenza”, d’altronde. Il rumore della carta sbattuta sul tavolo - no, non era carta, era il giornale - mi fece però fermare per un istante. Cazzo. Strinsi la forchetta e ripresi a miscelare in maniera meccanica, senza preoccuparmi dell’impasto sui bordi della terrina, con le orecchie ben tese per captare ogni movimento.

Lo sentii spostare la sedia e alzarsi, poi cominciò a camminare, e il rumore dei suoi passi divenne più intenso attimo dopo attimo, finché non avvertii la sua presenza dietro di me. I miei battiti accelerarono e fui attraversato da un brivido che risalì per tutta la schiena e si fermò alla nuca. Mi sentii indifeso, con un nemico alle spalle che non potevo controllare.

Quando però notai mio padre di fianco a me che buttava un occhio a quello che stavo facendo, il cuore mi uscì dal petto, alla faccia dell’indifferenza. La mano che mescolava cominciò a tremare. Sentii tutto il peso delle sue aspettative tradite e mi sembrò che quella preparazione fosse quasi un esame di riparazione. La vocina del me diciottenne mi suggerì che dovevo fare bene, altrimenti mio padre non mi avrebbe mai più amato. Subito dopo spuntò anche quella del me ventunenne, che non aveva bisogno di dimostrare un bel niente e che mi disse che l’affetto di un padre per un figlio non aveva bisogno di pancake.

Nonostante questo, cominciò a tremare anche la mano con cui tenevo la terrina. Il mio corpo si irrigidì tutto e così anche il mio viso che divenne teso e contratto. Sentivo gli occhi di mio padre ancora lì. Erano lì. E il mio corpo in realtà era in attesa di una punizione, e il mio viso in allerta per non lasciarsi sopraffare dalle emozioni.

Ma proprio mentre le gambe cominciavano a diventare molli, con la coda dell’occhio lo vidi aprire il mobile sopra la sua testa e prenderne qualcosa, qualcosa che tirò fuori dalla scatola e che attaccò alla corrente. L’attimo dopo mi sfilò da sotto al naso la terrina e ci infilò quel qualcosa… le fruste elettriche. Le azionò alla velocità minima e cominciò a mescolare con movimenti lenti e circolari.

Non poteva essere vero. Mi stava… aiutando? Stava facendo qualcosa di carino per me? Forse aveva sbattuto la testa, oltre che le uova?

Gli scoccai un’occhiata, ma era concentrato su ciò che stava facendo, e l’attimo dopo mi chiesi se si fosse accorto che lo stavo fissando. Ovvio. Perché lo avevo guardato? Ricacciai lo sguardo sulla mia forchetta, che nel frattempo aveva cominciato a gocciolare sul ripiano, e mi domandai a cosa stesse pensando lui. Perché lo stava facendo? Non era una dimostrazione di forza. Non era nemmeno una dichiarazione di guerra. Era qualcos’altro che non capivo e che mi faceva impazzire i battiti.

Stavamo facendo qualcosa insieme, come padre e figlio? Non riuscivo a crederci. Lui, che per tanti anni mi aveva nutrito a pane e insulti, ora stava lì con le fruste in mano ad aiutarmi coi pancake. Mi accorsi che avevo paura a fidarmi di quell’immagine, quella in cui mi sembrava di rivedere il padre che era stato. Non mi volevo illudere, perché sapevo che se lo avessi fatto, anche solo per un momento, sarebbe stata la fine. Tuttavia non riuscii a trattenere un istinto innaturale e inaspettato, l’istinto di essere di nuovo suo figlio, il Nathan che aveva tanto amato. Se si fosse voltato, anche solo per un momento, ero certo che avrebbe letto nei miei occhi tutto ciò che sentivo per lui e forse lui mi avrebbe rivelato ciò che sentiva per me.

Lo guardai ancora, ma mio padre continuava a osservare l’impasto che si mescolava, indifferente, proprio come io mi ero ripromesso di essere con lui. Mi soffermai sulla sua barba accennata e su quel taglio degli occhi che avevamo in comune, poi notai lo sguardo concentrato, la fronte corrucciata. Ripensai a tutte le persone che mi avevano detto che mio padre era un coglione e che non avrei dovuto perderci tempo; eppure non era quello che mi diceva la ragione, né quel ritrovato istinto.

Desiderai per un attimo che mi guardasse, che rivedesse in me quel figlio prediletto… ma non accadde nulla.

Continuai a osservarlo per un altro istante ancora, poi i miei occhi si arresero al suo ignorarmi e si abbassarono per seguire il movimento circolare delle sue mani guidate dalle fruste. Sospirai ancora, e quel respiro portò via con sé pensieri e parole.

Mi vuoi bene, papà?

… Ma non uscì niente. Solo aria e un battito perso.

Passò un minuto buono, forse di più, forse di meno, poi lui spense le fruste, le sbatté sulla terrina per liberarle da quell’intruglio, staccò la presa e le mise nel lavello. Senza dire una parola, lo sentii sedersi al tavolo e riprendere la lettura del giornale. Gettai un’occhiata al preparato e come lo guardai sentii un nodo risalirmi su per la gola, per poi fermarsi proprio in mezzo. Riportai la terrina davanti a me e la afferrai con entrambe le mani; feci scorrere i polpastrelli sulla sua superficie ruvida, proprio come il rapporto con mio padre, finché il nodo che avevo alla gola si sciolse, così come il gelo che sentivo dentro. Lacrime silenziose mi rigarono il viso, così strizzai gli occhi per cercare di trattenerle, ma fu tutto inutile: continuavano a scendere, lente e costanti come fiocchi di neve, e io lasciai che raggiungessero il mento e cadessero a terra, come a liberarmi di un peso che avevo portato troppo a lungo.

Finii di preparare i pancake senza più alcun intervento da parte di mio padre, che aveva continuato imperterrito a leggere il giornale senza proferire parola. Misi tutto nel lavello, poi pensai a cosa lavare per primo.

Gettai uno sguardo alla terrina, ma un pensiero improvviso mi bloccò.

… Era infatti possibile che quel gesto non fosse stato altro che una muta risposta a quelle parole che avevo solo pensato?

 

Non ricordavo neanche più quand’era stata l’ultima volta che avevamo fatto colazione tutti insieme, come una vera famiglia. Be’, oddio, forse “vera famiglia” era un’espressione un po’ esagerata, visto che mio padre mi ignorava con cognizione di causa sia negli sguardi che nei discorsi, eppure sapevo che non avrei dimenticato facilmente quanto era accaduto. Forse non lo avrebbe dimenticato neanche lui.

Lanciavo occhiate a mio padre e continuavo a chiedermi perché mi avesse aiutato a preparare i pancake e cosa si nascondesse dietro la sua ostinazione a non interagire con me. Ripensai a ciò che era successo nelle ultime settimane e mi vennero in mente solo il pestaggio e la litigata con mia madre. Possibile che una di queste due cose - o entrambe - lo avessero spinto a cambiare atteggiamento nei miei confronti?

Osservai ancora una volta quel quadretto quasi irreale, con mia madre che passava lo sciroppo d’acero a mio padre e Jimmy che si stringeva a me contento ogni volta che non aveva la bocca piena. Sentii per la prima volta qualcosa di simile al calore e all’affetto, un timido accenno di felicità dopo tutta la merda a palate che la vita mi aveva lanciato addosso; e siccome avevo imparato a vivere alla giornata, non me lo feci scappare e lo acchiappai.

 

«Quindi te ne vai davvero?»

Stavo finendo di allacciarmi le scarpe, quando mia madre irruppe con questa domanda. Mi alzai in piedi e mi risistemai il giubbotto, poi annuii.

«Ho bisogno di mettere ordine qua e là. Ma tornerò, non preoccuparti.»

In realtà non ne ero così sicuro, ma sapevo che era quello che voleva sentirsi dire. Subito dopo mi abbracciò per poi stringermi forte a sé, e io feci altrettanto. Nello stringerla fui invaso dalla sensazione di pace che dà un capitolo che si chiude, una linea tracciata a terra che delimita il passato dal presente. Quella partenza, che era cominciata come un’idea per fuggire dai miei problemi, stava diventando l’opportunità per iniziare qualcosa di nuovo, per imparare a stare al mondo.

Ci sciogliemmo dall’abbraccio e lei mi tirò un buffetto, seguito da un sorriso che forse voleva trattenere delle lacrime.

«Mi mancherai, tesoro.»

«Anche tu mi mancherai.»

Dalle scale arrivò il rumore di passettini rapidi, così mi voltai e vidi Jimmy vestito di tutto punto con uno zainetto sulle spalle. Nostra madre gli si avvicinò e si accovacciò alla sua altezza.

«Amore, ma che ci fai tutto vestito a quest’ora? Non devi andare a scuola, oggi.»

Le labbra di Jimmy si aprirono in un sorriso.

«A scuola no, ma io e Naty dobbiamo andare nel bosco a raccogliere le bacche!»

Si avvicinò a me e strinse la sua piccola mano nella mia. Mi ricordai della storia che gli avevo raccontato per farlo addormentare e mi stupì notare quanto l’avesse presa sul serio. O forse vedeva soltanto l’opportunità per stare lontano per un po’ da quella gabbia di matti, ma non ero certo che un bambino di cinque anni potesse già pensare una cosa simile.

«Giusto, le bacche. E poi dobbiamo anche vedere le formiche!»

I suoi occhi si illuminarono e, ancora con la sua mano nella mia, cominciò a saltellare e gridare pieno di entusiasmo, con quello zainetto un po’ troppo grande per lui e anche piuttosto pieno - di cosa lo avrei scoperto presto.

Ricevuta la benedizione da nostra madre per il piano che avevamo in mente, la salutammo entrambi con baci e abbracci. Ci aprì la porta di casa e ne approfittai per darle un ultimo saluto. La coda dell’occhio mi cadde però su mio padre, davanti all’ingresso della cucina, a braccia conserte. Una scena che non aveva niente di speciale e che avrei forse ignorato, se non fosse stato per un piccolo, fugace particolare.

Per la prima volta, infatti, mio padre non aveva rifuggito il mio sguardo.

 

 

 

Angolo autrice

Salve a tutti! Come vedete, alla fine sono riuscita a infittire la pubblicazione come anticipato, nonostante i mille impegni che questo lunedì aveva in serbo per me.

Qui torniamo un attimo su Nathan e la sua famiglia, e sul non-rapporto tra lui e suo padre, che però in qualche modo trova una sua distensione. E poi c’è sempre Jimmino-del-mio-cuore che ha il potere di rubare sempre la scena ogni volta che compare ahahah XD

Dal prossimo capitolo potremmo dire che cominciamo a entrare nel finale. Son quattro capitoli separati ma credo che emotivamente stiano un po’ tutti insieme, e io non vedo l’ora che arrivino i prossimi giovedì e lunedì per poterli pubblicare!

Volevo anche dirvi che ho cominciato a fare un giro di preventivi per l’editing di questa storia, visto che mi piacerebbe metterla su Amazon. Se mi sono decisa è stato solo grazie al vostro supporto, altrimenti sarei ancora qui a piangermi addosso e a pensare di fare schifo XD Per cui GRAZIE!

 

Al solito ne approfitto anche per ringraziare tutti coloro che mi hanno lasciato un commento, siete la mia forza, letteralmente!

 

A giovedì <3

Simona

 

   
 
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