32.
L’ora più lunga
La camera era
illuminata soltanto dal bagliore della luce della cucina, quel poco che bastava
per vedere la testa di Nathan affondata nel cuscino e le sue labbra schiuse che
gemevano piano.
Mi
abbassai su di lui e gli lasciai un bacio sul collo, con una scia di baci che
risalì fino al mento e lo superò, per poi trovare la sua bocca che si lasciò
assaporare con voracità.
Lui
infilò una mano tra i miei capelli e dopo un movimento disordinato la lasciò
sulla nuca; l’altra invece la fece scorrere sulla schiena nuda, ma la fermò
quando la sua bocca si aprì per invitarmi a usare la lingua. Io obbedii, e la
mia saliva diventò la sua, in quel primordiale tentativo di unirci fino a
diventare una cosa sola. Spostai le mie mani fino ad accarezzare la sua testa,
la bocca invasa dal calore dei suoi ansimi; e mi chiesi come avevo fatto a
vivere per due mesi senza le sue labbra, senza che le mie dita potessero
scivolare sulla sua pelle, e senza sentire le sue, fredde come le ricordavo,
scorrere sul mio petto e poi virare verso il basso, per quel piacere che fino a
quel momento avevo solo immaginato.
Era
bastato entrare in casa e scambiarci un’occhiata per capire che da quella
serata volevamo di più, entrambi. In poco tempo i nostri timidi baci di Central
Park erano diventati solo un ricordo e si erano trasformati in baci veri e
profondi, che ci lasciavano a malapena lo spazio per respirare. Mi ero
ritrovato sbattuto al muro, le mani di Nathan sui bottoni della mia camicia e
le mie dita a vagare sotto la sua maglietta, affamate di quella pelle di cui
avevo sentito solo briciole. Non ci era voluto molto prima di ritrovarci nudi
sul letto, curiosi di assaporarci e sazi dopo averlo fatto; e dal momento in
cui mi ero messo sopra di lui, in mezzo alle sue gambe, intento a esplorare il
suo corpo e a osservare ogni sua risposta di piacere, entrambi - ne ero certo -
avevamo provato quel primordiale desiderio di andare fino in fondo.
La mia
eccitazione crebbe al solo pensiero e sentii la sua fare altrettanto; inarcò la
schiena, si lasciò andare a un gemito e chiuse il bacio, poi mi prese il viso e
lo allontanò per guardarmi negli occhi. Io lo fissai di rimando, perché sapevo
che quell’occhiata voleva dire una sola cosa; così spostai lo sguardo sul
comodino accanto al letto, dove giaceva il lubrificante che avevo aperto e
usato poco prima, poi tornai a guardare Nathan, il cui sguardo non vacillò
nemmeno per un secondo. Indossai il preservativo e versai un po’ di
lubrificante sulle dita, poi massaggiai la sua apertura ed entrai non appena
vidi il suo volto contrarsi in un’espressione di piacere. Studiai ogni sua
smorfia in cerca di tracce di dolore, ma non ce n’erano; e anche i suoi muscoli
erano rilassati, pure quando mi feci largo con un altro dito, perché volevo che
fosse pronto e fargli male era davvero l’ultima cosa che volevo.
Lui era
stupendo, vulnerabile, così rilassato nel suo piacere da farmi sentire custode
del suo corpo. Lo baciai ancora perché volevo che sentisse quanti pezzi di
cuore mi aveva rubato, che desideravo essere suo più di quanto desiderassi che
lui fosse mio. Gemeva di piacere anche con le labbra chiuse dalle mie, così mi
staccai e il suo piacere tornò a riempire la stanza, quelle stesse quattro mura
che erano rimaste silenziose per così tanto tempo.
Sfilai
le dita una a una e gli diedi un ultimo bacio prima di mettermi in posizione
eretta, le sue gambe sulle mie spalle. Lo guardai di nuovo con attenzione per
scovare un minimo segno di incertezza, e ciò che ottenni fu un sorriso che gli
spuntò in faccia tra un gemito e l’altro.
Mi
avvicinai alla sua apertura e feci un po’ di pressione, ma lui continuava a
essere rilassato; così la mia erezione scivolò dentro il suo corpo, che la
avvolse e la strinse facendola sua attimo dopo attimo, finché non fui dentro
fino in fondo. In quel momento ci guardammo un istante, un istante in cui
diventammo consapevoli del fatto che io non ero più solo Alan, e lui non era
più solo Nathan, ma eravamo diventati Alan e Nathan, quella cosa sola
che tanto avevamo desiderato essere.
Gli
lasciai qualche secondo per abituarsi a quella sensazione, dopodiché posai le
mie mani sulle sue cosce e cominciai a spingere, e ogni spinta cementava ciò
che eravamo diventati, ciò che stavamo diventando. Perché non c’era stata
vergogna quando eravamo rimasti nudi l’uno di fronte all’altro, e nemmeno al
momento di scoprire le nostre intimità, ma solo un senso di naturalezza come se
il nostro posto fosse sempre stato lì, insieme. Feci scivolare le sue gambe
all’altezza dei miei fianchi e mi abbassai di nuovo su di lui, perché volevo il
suo viso vicino. Mi prese il volto tra le mani e pensai che volesse baciarmi,
ma invece piantò i suoi occhi nei miei e cominciò a gemere più forte ogni volta
che spingevo. Voleva che lo guardassi mentre provava piacere e si abbandonava a
quella possessione, ma l’attimo dopo tornò ad ansimare come aveva fatto fino a
quel momento e mi diede un bacio, che sembrava voler nascondere l’imbarazzo per
essersi lasciato andare.
Ma
volevo che quella fosse la notte più bella della sua vita, così lo assecondai e
gli sorrisi, per dirgli che se voleva essere guardato, io l’avrei fatto; e il
suo viso, da contratto com’era, a poco a poco tornò a rilassarsi, e i suoi
occhi furono di nuovo piantati su di me, e i suoi gemiti, confusi con i miei, tornarono
a riempire la camera.
Passammo
dieci minuti ad amarci in quel modo viscerale, a contornare quell’unione fisica
con baci e attenzioni l’uno per l’altro, finché non fui sul punto di venire - e
a lui bastò poco per capirlo. Mi fece un cenno di assenso col capo e presi a
spingere più forte, mentre lui si dava piacere da solo, finché non venimmo
entrambi.
Rimanemmo
soli con i nostri ansimi e i nostri sguardi, mentre piano piano la stanza
tornava a essere solo silenzio, intrisa con l’odore del sesso. Posai la fronte
sulla sua e chiusi gli occhi, poi li riaprii e trovai i suoi che mi scrutavano,
forse in cerca di un commento o di una risposta a una domanda che non voleva
pormi.
Abbandonai
il suo corpo con delicatezza e mi sentii vuoto, come se qualcosa non fosse
stato al suo posto; così lo baciai, e lui baciò me, e per un attimo la mia
mente fu attraversata da due parole che non avevo più detto da quella che mi
sembrava una vita. Guardai Nathan e mi fece paura, paura che in soli due mesi
mi avesse ridotto in quel modo, a provare per lui un sentimento che mi
spaventava chiamare col suo nome.
Lui
forse si accorse che ero diventato teso, ma non disse niente; tutto ciò che
fece fu guardarmi mentre mi allontanavo verso il bagno, dopo aver declinato il
mio muto invito a seguirmi. Mi sfilai il preservativo usato e lo gettai nel
cestino che tenevo accanto al lavello, poi alzai gli occhi e fissai la mia
immagine riflessa sullo specchio.
Avevo
le guance arrossate e il viso stanco, ma ci fu un altro dettaglio che non riuscivo
a ignorare: i miei occhi nocciola, quelli che mi fissavano al di là dello
specchio, avevano un guizzo che non vedevo almeno da una decina di mesi. Mi
avvicinai alla mia immagine riflessa e la scrutai, senza trovare una risposta;
poi dalla camera sentii Nathan che si rigirava sotto le coperte, e quando
tornai a guardare lo specchio mi fu chiaro che i miei occhi altro non erano che
quelli di un uomo che stava per dire ti amo a un ragazzo conosciuto due
mesi prima. In una parola: innamorato. Tirai un sorriso e mi chiesi come avevo
fatto a ridurmi in quel modo, perché già mi mancava anche solo il suo respiro,
in una misura tale che sentii l’urgenza di uscire dal bagno e tornare da lui in
camera.
Lo
trovai rannicchiato sotto le coperte con lo sguardo perso, che ritrovò vitalità
non appena mi vide.
«Già
fatto?»
Mi
accovacciai accanto a lui, che avvicinò la testa al bordo del letto.
«No.
Mi mancavi.»
Quella
risposta gli strappò un sorriso, ma i suoi occhi furono di nuovo attraversati
da quella nota di vacuità che gli avevo visto un attimo prima. Con una mano gli
accarezzai la testa e lui chiuse gli occhi.
«Va
tutto bene?», domandai.
Riaprì
gli occhi e mi fissò per un attimo, poi annuì. Tuttavia gli leggevo qualcosa in
faccia, qualcosa che non lo rendeva sereno, e il pensiero che potesse essere
colpa mia mi stava mettendo a disagio.
«Dai,
fammi posto, mi metto qui accanto a te.»
Esitò
un attimo, poi fece come gli avevo chiesto e si spostò, quel poco che bastava
affinché mi potessi distendere di fianco a lui, che intanto seguiva ogni mio
movimento con aria interrogativa. Ci ritrovammo faccia a faccia, ma lui teneva
gli occhi bassi e cominciai a temere davvero di aver fatto qualcosa di
sbagliato.
«Ehi,
che succede?»
Cercai
i suoi occhi e li trovai solo quando gli rizzai appena il mento con un dito.
Lui sostenne il mio sguardo, ma dovette sospirare un paio di volte prima di
trovare le parole.
«Grazie
per essere tornato a vedere come stavo.»
Le
sue parole furono poco più di un sussurro. Io tornai ad accarezzargli il viso,
la spalla, il braccio - qualunque cosa potesse farlo sentire rassicurato.
«Sto
provando una marea di cose», continuò. «E da quando abbiamo finito mi sembra
che mi manchi qualcosa, come se avessi un vuoto dentro. Senza doppi sensi.»
Mi
spuntò un mezzo sorriso e non per la battuta, ma perché lo capivo fin troppo
bene. Gli presi una mano e cominciai a baciarla, poi la incastrai nella mia.
Notai che le sue dita si erano scaldate e anzi, in quel momento erano bollenti.
«Anche
io mi sento così. E non intendo sessualmente…», sussurrai, poi mossi le nostre
mani sul mio cuore, «… ma qui.»
L’espressione
sul suo viso si rilassò, poi fece spazio a un sorriso, non solo sulle labbra,
ma anche nei suoi occhi. Si avvicinò a me e mi baciò, poi sciolse l’intreccio
delle nostre mani e una la mise dietro la mia nuca per tirarmi a lui. Le sue
labbra avevano un vago e leggero aroma di tabacco, di cui non mi ero accorto
nei baci precedenti. Lo assaggiai e lo sentii così mio, e indugiai sulle sue
labbra perché volevo sentirlo ancora, così rallentai il ritmo e assaporai la
sua lingua, perché quell’aroma volevo che mi entrasse dentro, che diventasse
mio come lo era stato lui, come volevo che lo fosse. E nella mente rividi il
mio riflesso di uomo innamorato, di un uomo che sulla punta della lingua non
aveva solo il sapore di tabacco, ma anche quelle due parole che scalpitavano
per uscire, perché Nathan se le meritava più di ogni altra cosa. Ma forse lo
avrebbero spaventato o, peggio, lo avrebbero indotto a rinunciare a
quell’opportunità di mangiarsi il mondo che sembrava tanto importante per lui,
e io d’altro canto, se fosse rimasto, sarei diventato il responsabile della sua
felicità nella Grande Mela, un peso che sarebbe stato ingiusto sia per me che
per lui.
Fu
così che quando quel bacio terminò, io lo guardai negli occhi e decisi che
quelle parole le avrei tenute per me, almeno per il momento, o forse per
sempre, con la consolazione che niente avrebbe potuto impedirmi di amarlo anche
da lontano, in maniera silenziosa.
D’un
tratto lo vidi spostare lo sguardo sul suo busto e percorrere con le dita una
scia che partiva dal pube e risaliva fino al petto. Per un attimo, la sua bocca
si contrasse in un’espressione tra il fastidio e il disgusto.
«Mi
sa che ho bisogno di una doccia. L’invito è ancora valido?»
Osservai
meglio la scia che aveva seguito e mi resi conto solo in quel momento che era
venuto senza preservativo, un dettaglio che avevo dimenticato e che lo aveva
costretto a sporcarsi. L’attimo dopo le mie dita erano sulla sua pancia, là
dove la chiazza era più ampia, e il tocco di quel liquido ormai tiepido e
viscoso intrappolò i miei pensieri nel desiderio di assaporare Nathan non solo
con baci appassionati.
Quel
pensiero mi imbarazzò - anche perché non lo avrei mai fatto con qualcuno di
diverso da un partner fisso -, così ritirai la mano e provai a dissimulare.
«Scusa,
colpa mia. Andiamo?»
Il
suo volto si aprì in un sorriso e tirai un sospiro di sollievo. Mi misi in
piedi davanti al letto e gli tesi una mano per aiutarlo a fare altrettanto; e
quando lui si alzò e me lo ritrovai nudo davanti a me, avvertii un brivido per
quella carica sessuale che emanava, la stessa che con ogni probabilità mi aveva
spinto, fin dall’inizio, a ronzargli intorno per un motivo o per un altro. Lo
lasciai passare e lo guardai camminare verso il bagno, quando l’occhio mi cadde
verso il lubrificante aperto e, più sopra, verso una zona del comodino che era
stranamente vuota, la stessa zona dalla quale, prima di uscire, avevo tolto la foto
di Oliver e l’avevo chiusa nel primo cassetto.
L’avevo
presa senza pensarci troppo, e l’avevo fissata a lungo prima che l’idea di
spostarla da lì prendesse piede nella mia testa. Ed era stato un caso, perché
quel cassetto era lo stesso dove tenevo anche il lubrificante, e ci avevo
pensato solo perché mi erano tornate in mente le parole di Ash sul dopo-festa.
Per cui era apparso così, spontaneo, il pensiero che forse ci potevo tenere
anche qualcos’altro, tipo la foto che stringevo tra le dita. Un pensiero che
non aveva niente di eccezionale, ma che mi aveva fatto rendere conto che se il
ricordo di Oliver continuava a consumarmi con i sensi di colpa, era solo perché
io glielo permettevo; e che non c’era niente di male nel pensare che il sorriso
di Oliver, quello che mi aveva fatto compagnia in quei lunghi mesi, non mi
bastava più. Perché la verità era molto più semplice e altrettanto banale:
volevo vivere, volevo amare di nuovo. Quindi avevo aperto quel cassetto, avevo
tolto un attimo il lubrificante per mettere la foto in piano, lo avevo rimesso
dov’era e avevo chiuso il cassetto. Avevo impiegato dieci mesi per compiere
quella sequenza di azioni che sul momento mi erano sembrate qualcosa di
straordinario.
«Vieni?»
Alzai
gli occhi verso Nathan e sorrisi ripensando a quei momenti dove credevo
impossibile innamorarmi ancora. Aveva compiuto un miracolo.
Non
me lo feci ripetere due volte e lo raggiunsi, poi lo strinsi a me e lo baciai,
dandomi intanto dello stupido per averlo fatto aspettare così tanto.
Uscimmo dalla
doccia stanchi e stremati, reduci da un altro rapporto che aveva preso entrambi
un po’ alla sprovvista. Perché se la prima volta era stata abbastanza
prevedibile (d’altronde, eravamo venuti a casa per un motivo), la seconda era
cresciuta piano, col desiderio crescente di appartenerci di nuovo e al contempo
la voglia di lasciare spazio al romanticismo. Ma era bastato lavarci a vicenda,
spazzare via i segni di ciò che era avvenuto per riportarlo alla mente più
vivido che mai, e fu questione di un attimo ritrovarci di nuovo legati dalla
passione. E sebbene trovassi un po’ impersonale farlo guardando la schiena
dell’altro, con Nathan quel dettaglio aveva assunto il sapore di un’intesa
immediata, che per esistere non aveva bisogno che ci guardassimo negli occhi.
Accesi
la piccola luce del comodino e spensi quelle nelle altre stanze, poi prestai a
Nathan un mio pigiama e, entrambi vestiti, ci distendemmo sul letto, sotto le
coperte. Fissai il soffitto e mi portai una mano sul petto, per scoprire che si
alzava e abbassava a ritmo regolare, quello di chi è sazio della giornata
vissuta e si gode il meritato riposo, e chiusi gli occhi.
Avevamo
fatto l’amore. Due volte. Ancora non riuscivo a crederci. E se non fosse stato
per la sua partenza, ero certo che ce ne sarebbero state molte altre, ma ero
altrettanto sicuro che forse era proprio la sua partenza ad avermi spinto a
fare quel passo. Ripensai alla chiacchierata con Ash di qualche giorno prima, a
tutte le mie insicurezze, alla mia indecisione. Sbuffai. Ma non potevo
biasimarmi: se non l’avevo fatto prima, era perché non mi sentivo pronto.
Sentii
Nathan muoversi e aprii gli occhi, poi lui si voltò verso di me e si sollevò
appena posando la testa sul palmo della mano. Io lo guardai e lo trovai
bellissimo. Percorsi con lo sguardo tutti i lineamenti del suo viso, che se da
una parte cominciava ad avere i tratti di un giovane adulto, dall’altra
conservava ancora le ultime tracce di un’adolescenza che presto sarebbe
svanita.
«Ti
prego, non guardarmi così.»
Lui
ridacchiò e io aggrottai le sopracciglia.
«Cioè?»
«Hai
l’aria di chi vorrebbe il terzo round… mi spiace dirtelo, ma domani ho sei ore
da passare seduto.»
Lo
fissai un attimo e scoppiammo entrambi a ridere, un’azione che mi sembrava di
non compiere da un secolo.
«Comunque
non è l’aria di chi vorrebbe il terzo round.»
Nathan
mi rifilò uno dei suoi sorrisetti maliziosi, e in un attimo fui catapultato nel
ricordo della sua prima dichiarazione in centrale e al battibecco tra me e quel
ragazzino irritante. Dio, sembrava passata un’eternità. E sembrava
impossibile che fossimo arrivati a quel punto.
«Ah
no? E quindi perché mi guardavi in quel modo?»
Sospirai.
Avrei voluto dirgli la verità, quello che mi passava per la testa… ma ancora
una volta mi ripetei che non sarebbe stato giusto.
«Perché
sei stupendo.»
Si
mise a pancia in giù, reggendo il suo peso sui gomiti, e avvicinò il suo viso
al mio.
«Quindi
è questo che pensavi tutte le volte che ti ho beccato a fissarmi in questi due
mesi?», bisbigliò.
Fui
colto da un pizzico di imbarazzo e tornai a fissare il soffitto. Me l’aveva
pure detto, una volta, che ogni tanto lo fissavo. E c’era da dire che non
sempre lo avevo fatto pensando che fosse stupendo - benché lo fosse.
Nathan
avvicinò ancora di più il suo viso al mio, con un’espressione divertita che
cominciavo ad amare.
«Allora?»
«Be’»,
risposi, e ci pensai un attimo, «più o meno era quello che pensavo.»
«Uhm.
Più o meno.»
Arricciò
le labbra e mi rifilò uno sguardo, quello sì, da terzo round. Io provai
a sostenerlo senza dargli corda, ma bastarono pochi secondi per capire che era
tutto inutile. Scoppiammo di nuovo a ridere entrambi, io perché avevo detto una
bugia, e lui perché non ci era cascato neanche per un secondo. Quando le nostre
risate si spensero, però, lui rimase di nuovo con quell’espressione persa che
gli avevo visto al momento di uscire dal bagno. Abbassò gli occhi, poi li
rialzò, e le sue labbra si contrassero in un sorriso forzato.
«Quindi
è così che finisce?»
La
sua domanda fu come uno schiaffo che mi fece tornare con prepotenza alla
realtà. Avevamo riso, avevamo scherzato, ma sapevamo che quello somigliava
molto all’incantesimo di Cenerentola e che il nostro tempo stava per finire.
Sospirai
e non dissi niente per un po’. Nemmeno lui lo fece. Ci limitammo a osservarci
come in cerca di una risposta l’uno nell’altro, e sapevo che io gliene dovevo
una. Raccolsi tutto il coraggio che avevo, quello che mi serviva per
distruggere ciò che avevamo costruito e condiviso.
Sospirai
di nuovo.
«È
così che finisce.»
Nathan
abbassò di nuovo lo sguardo e annuì piano. Lo vidi stuzzicarsi una pellicina
intorno al pollice, poi alzò gli occhi per lasciarli vagare per la stanza,
finché non mi accorsi che gli stavano diventando lucidi. D’istinto portai una
mano sulla sua guancia e lo accarezzai, e feci altrettanto per rimuovere le
lacrime dal suo viso, come avevo fatto solo qualche ora prima.
«Allora
ne approfitto per dirti una cosa.»
La
sua voce era spezzata dall’emozione, e lo sarebbe stata anche la mia se avessi
detto qualcosa. Tirò su col naso e continuò.
«Grazie
per questa serata. È stato tutto perfetto, dal primo all’ultimo momento. E in
generale, non so dove sarei adesso se non ci fossi stato tu. Ti devo veramente
tanto. Grazie.»
Le
sue parole mi lasciarono senza una risposta. Perché più lo guardavo, più mi
rendevo conto di quanto in quei due mesi fossimo stati la stampella l’uno
dell’altro, in un’accoppiata improbabile su cui nessuno avrebbe scommesso, a
cominciare da quei mondi diversi a cui appartenevamo e che invece si erano
incastrati alla perfezione. Quanto era stato il caso e quanto eravamo stati
fautori del nostro destino?
Nathan
aveva smesso di piangere, così gli diedi un’ultima carezza; e intanto avevo
trovato, dentro di me, parole degne delle sue.
«Tu
sai che per me è lo stesso. Sei un ragazzo straordinario e credo che sia
rimasto solo tu a non essertene accorto», dissi, e quell’ultima frase lo
imbarazzò appena. «Ti ricordi com’ero quando mi hai conosciuto? Ecco, guardami
ora. È solo merito tuo. E se tu devi qualcosa a me, io devo altrettanto a te.»
Lui
tirò un sorriso, poi si rimise disteso e adagiò la sua testa nell’incavo della
mia spalla. Lo circondai con un braccio e gli accarezzai la testa, poi nessuno
dei due disse più niente. Passarono diversi minuti di silenzio, durante i quali
avevo continuato ad accarezzarlo e ad ascoltare il ritmo del suo respiro. Ogni
tanto soffiava in maniera più rumorosa ed ebbi l’impressione che stesse
piangendo. Lo strinsi a me un po’ più forte, e lui fece altrettanto.
Spensi
la luce sul comodino e lasciai che l’oscurità avvolgesse entrambi. Andammo a
dormire così, stretti l’uno nell’altro, io solo con i miei pensieri e Nathan
con i suoi.
Lui
cedette al sonno dopo poco, e me ne accorsi perché il suo respiro divenne più
pesante e cadenzato. Passai il mio tempo ad ascoltarlo, a sentire il suo petto
che si alzava e abbassava, e a chiedermi se stesse sognando. Cercai di
imprimere nella mente il rumore del suo respiro e quella sensazione di
completezza che provavo nello stringerlo tra le mie braccia, ma sapevo che non
era possibile. Provai a resistere al sonno ancora un po’, perché chiudere gli
occhi avrebbe spezzato l’incantesimo, e quella magia, quella chimica che non
c’era mai stata con nessun altro, sarebbe volata via con un soffio di vento.
Quando
le palpebre cominciarono a calare, e i pensieri si fecero confusi, mi sentii
assalire da un senso di sconfitta e impotenza, perché avevo ceduto allo
sfinimento; e mi apparve chiaro che quella sarebbe stata, senza dubbio,
l’ultima volta che avrei potuto stringere Nathan tra le mie braccia.
Chiusi
gli occhi, e quello fu il mio addio… a lui e a noi.
La radiosveglia
segnava le 5:58. Per un attimo sobbalzai pensando che fosse tardi, e invece
mancava ancora un’oretta alla sveglia che avevamo messo perché potessi
accompagnarlo in aeroporto in tutta calma.
Nathan
aveva il respiro ingrossato, e pensai che con ogni probabilità era stato quel
rumore a svegliarmi. Non si trattava di un vero e proprio russare, ma solo
un’espirazione secca intervallata ogni tanto da qualche gemito sommesso.
Sorrisi, e mi chiesi quante altre piccole cose c’erano di lui che non sapevo,
ma quel sorriso morì subito quando mi resi conto che non lo avrei mai saputo.
Lasciai
che i miei occhi si abituassero al buio e notai che Nathan stava stringendo il
cuscino. In qualche modo, durante il sonno, ci eravamo separati e ora riposava
sulla parte del letto che per un paio d’anni era stata quella di Oliver.
Potevano
esistere due persone più diverse di così?
Se
avessi dovuto riassumere Oliver in una parola, avrei detto che era perfetto. Un
ragazzo studioso e con una scintillante carriera davanti a sé, educato nei
modi, cordiale, candidato ideale da presentare ai genitori. Non che ci trovassi
niente di male: mi piaceva che fosse perfetto in quel modo, dava un’idea di ordine
e stabilità. E quindi com’ero finito a innamorarmi di Nathan, la persona più
incasinata dell’universo?
Quasi
come se avesse sentito i miei pensieri, Nathan mugolò qualcosa, poi si
risistemò nel letto rubandomi una consistente fetta di spazio. Forse non era
abituato a dormire con qualcuno, o forse il suo letto non era così grande… o
forse era fatto così e basta, e si prendeva la porzione di letto che riteneva
più consona per poter dormire bene.
Mi
scappò un sorriso, perché sapevo che avrei amato pure quel piccolo dettaglio.
Provai
a riaddormentarmi di nuovo in quel quarto di letto che mi era rimasto, ma più
mi impegnavo a liberare la mente per riprendere sonno, più si affollava di quei
pensieri che vengono a farti visita solo di notte.
Per
tutta la sera lui era stato il mio ragazzo e io il suo, fin dal primo istante
che l’avevo visto davanti al Royale, anche se non ce lo eravamo detti, perché
comportarci come una coppia era venuto spontaneo a entrambi. E quel dettaglio
mi sembrò così incredibile e potente che il pensiero di rinunciare a lui mi
sembrava quasi inconcepibile. C’era qualcosa che potevo fare per far
sopravvivere quel noi che tanto avevamo desiderato per settimane?
Avrei
potuto implorarlo di restare, certo. Forse avrebbe anche accettato senza tentennare
troppo, ma sapevo che New York era una città che non lo rendeva sereno. Aveva
vissuto tanto dal punto di vista emotivo in quei due mesi, per non parlare di
tutto il pregresso di cui mi aveva solo raccontato, un passato che lo aveva
intrappolato spesso in un ruolo che non sentiva più suo. Andarsene non sempre è
una soluzione, e io lo sapevo bene, ma nel suo caso sapevo anche che poteva
rappresentare un toccasana per fargli ritrovare un po’ di equilibrio. Il punto
era: quanto ci avrebbe messo? Un mese? Un anno? La vita intera? E se anche
avesse ritrovato un po’ di benessere, sarebbe mai tornato per me?
Ripensai
a quello che era successo tra di noi quella sera. Non avevo parole per
descriverlo senza che suonasse banale, ma in ogni caso sapevo che era stata una
delle esperienze più belle della mia vita. Non mi piaceva fare paragoni, ma
Nathan si meritava un’eccezione, perché la naturale chimica che c’era tra noi
aveva reso tutto incredibile.
Non
lo volevo perdere. Ma le soluzioni erano poche e nessuna di queste era
praticabile. Avrei potuto seguirlo, per dirne una, ma la sola idea mi faceva
sentire un intruso. Lo scopo della sua partenza era riordinare il casino nella
sua testa, farcela da solo, e se fossi stato con lui ero certo che lo avrei
solo ostacolato nel suo obiettivo.
In
alternativa c’era sempre l’opzione della storia a distanza, ma quanto avremmo
retto? Ci sarebbe bastato vedersi ogni quindici giorni o una volta al mese? La
verità era che anche quella possibilità mi rendeva invadente nei confronti di
Nathan, perché era abbastanza chiaro che dove c’era la California, non c’ero
io. Eravamo proprio due elementi incompatibili, e cercare di forzarli insieme
avrebbe solo potuto peggiorare le cose.
Rimuginai
ancora un po’ su quelle opzioni, poi giunsi alla conclusione che il coltello
dalla parte del manico ce l’aveva lui. Era necessario che partisse e che
ritrovasse se stesso se volevo avere anche solo una minima possibilità di stare
insieme. Tutto ciò che potevo fare era aspettare e osservare la situazione.
Potevo
darmi un termine, dopo il quale rinunciare alla possibilità di un suo ritorno…
magari la fine dell’anno. Sapevo che sarebbe stato uno strazio, ma conoscevo
anche bene il potere della speranza.
Guardai
di nuovo la radiosveglia e vidi che segnava le 6:47. Era passata quasi un’ora
da quando mi ero svegliato, l’ora più lunga della mia vita. La sveglia sarebbe
suonata di lì a pochi minuti; sapevo che non sarei riuscito a dormire, ma
potevo sempre sperare.
In quei tredici
minuti ero riuscito, non so come, a schiacciare un pisolino. Mi svegliai di
soprassalto e spensi la sveglia, mentre Nathan blaterava qualcosa e abbracciava
di più il cuscino, rivolto verso la finestra. Stette immobile per un po’, poi
girò la testa verso di me e aprì gli occhi. Sbatté le palpebre un paio di
volte, fece uno sbadiglio e si mise supino, dopodiché si stiracchiò e si voltò
ancora verso di me.
«Buongiorno»,
disse lui, con un sorriso da parte a parte.
«Ben
svegliato.»
Il
suo sorriso si ridusse appena. Poi venne verso di me, si abbassò, e provò a
darmi un bacio. Io mi spostai appena proprio un attimo prima che posasse le sue
labbra sulle mie. Il suo sorriso sparì del tutto. Mi fissava, e il suo sguardo
si induriva secondo dopo secondo, finché il suo viso non assunse un’espressione
accigliata. Sapevo che non l’avrebbe presa bene.
«Ah,
quindi è così. Ieri non è successo niente per te. Che risveglio di merda.»
Si
ributtò nella sua parte di letto e si rifugiò sotto le coperte, dandomi la
schiena. Provai a sfiorargli una spalla, ma si scostò in modo brusco; ritirai
la mano, non volevo farlo arrabbiare ulteriormente.
«Nathan…»
«Vaffanculo.»
Non
sapevo bene che dire, perché non sapevo bene cosa stavo provando in quel
momento. Non era stato gentile rispondere con così poco entusiasmo al suo
“Buongiorno” ed era stato crudele rifiutare il suo bacio, ma avevo di nuovo
paura, paura di essere travolto da quel ciclone che avevo davanti a me.
«Non…
non è vero che non è successo niente, ieri sera.»
Lui
si girò verso di me, con le guance rigate dalle lacrime e lo stesso sguardo
duro che gli avevo visto poco prima.
«Ah
no? Perché a me sembra che tu sia tornato a trattarmi come hai sempre fatto,
con quell’aria da vorrei ma non posso. A questo punto puoi fare
direttamente finta di non conoscermi, forse è più semplice.»
Si
liberò dalle coperte e digrignò tra i denti un “Che stupido”, poi fece per
uscire di scatto dal letto, ma lo afferrai per un braccio e lo bloccai.
«Aspetta,
vieni qui. Vieni qui.»
Mi
resi conto che avevo stretto un po’ troppo e lasciai la presa. Nathan alzò gli
occhi al cielo, ma nonostante questo si sedette a braccia conserte e mise su
un’espressione insofferente. Mi avvicinai a lui e mi sedetti vicino, e provai
comunque a scusarmi, anche se di guardarmi non ne aveva proprio l’intenzione.
«Mi
dispiace, Nathan, va bene? Ma finiremmo per farci del male, se mi comportassi
come ho fatto ieri.»
«A
me fa male anche così», rispose secco.
Faceva
male anche a me. Essere tanto distanti dopo essere stati così vicini era
frustrante, specie perché quello che aveva detto era vero: lo stavo trattando
come avevo sempre fatto, con un muro tra me e lui per mantenere quella distanza
di sicurezza che mi teneva al riparo da ogni dolore. Mi sembrava di aver fatto
dieci passi indietro.
Osservai
il suo viso illuminato dalle prime luci del mattino che filtravano dalle tende,
e quell’espressione più incazzata che corrucciata mi fece pensare che forse
avevamo perso tutto. Soffiai con un pizzico di rassegnazione.
«Quello
che c’è stato tra di noi è stato bellissimo, Nathan. Ho solo paura di
abituarmici, tutto qui.»
Lui
reagì con una smorfia e flettendo appena le sopracciglia.
«Ho
capito, ma mica significa che devi diventare uno stronzo.»
«Scusa»,
bisbigliai.
Più
passavano i minuti e più mi sentivo in imbarazzo per come mi ero comportato.
Sì, ero stato proprio uno stronzo, come diceva lui, perché avrei potuto
spiegare invece di farlo sentire rifiutato in quel modo. Provai a mettermi nei
suoi panni e mi sentii ancora di più uno schifo, in entrambi i ruoli.
Fissavo
le mie mani senza alcun interesse, accarezzando la pelle e la sagoma delle
unghie; poi nel mio campo visivo entrò anche la mano di Nathan, che si posò
sulle mie. Alzai gli occhi e notai che il suo viso si era disteso, condito da
un’espressione di dispiacere che mi spinse ad avvicinarmi per dargli un bacio.
Per un attimo temetti che lo rifiutasse come avevo fatto io poco prima, ma lui
non si scansò, non ci pensò nemmeno, e si lasciò baciare a fior di labbra più e
più volte. L’ultimo bacio durò più a lungo e Nathan lo chiuse lento, staccando
piano le sue labbra dalle mie, così come piano riaprimmo gli occhi. Ci
guardammo per un attimo, o forse due, e fu sufficiente per sentire esplodere in
me tutto ciò che avevo sentito per lui, che si manifestò con un battito
accelerato e il desiderio di riavvolgere il nastro della vita alla sera prima,
e vivere per sempre quelle ore che avevano azzerato ogni distanza tra noi.
Nathan
si buttò su di me e mi strinse forte; io feci altrettanto e alzai gli occhi al
cielo perché sapevo che quella era una strada senza ritorno. Sentire di nuovo
il suo corpo tra le mie braccia, il suo calore o anche solo il modo in cui si
incastrava col mio fu inebriante. Lo accarezzai come avevo fatto spesso in
quelle ore e bastò quel gesto perché lui mi stringesse di più.
«Non
mi trattare più in quel modo, ti prego. È stato orribile.»
Gli
lasciai un bacio dove potevo, e un altro, e un altro ancora.
«Per
un attimo ho pensato che mi avessi preso in giro per tutto questo tempo e che
il tuo unico scopo fosse solo fare sesso con me. Mi hai spaventato. Non lo fare
più, ti prego.»
A
volte avevo la sensazione che Nathan fosse una bambola di cristallo, fragile e
pronta a rompersi al minimo tocco. E poi ripensai a quella nostra prima volta e
a quanto lo avessi visto vulnerabile - sì, avevo usato proprio questo
termine. Mi resi conto che non era un aspetto che mostrava a chiunque e che con
ogni probabilità aveva avuto paura di aver fatto un errore di valutazione. Mi
sentii pessimo, più di quanto non mi sentissi già.
«Mi
dispiace. Scusami.»
Ci
cullammo in quell’abbraccio per qualche minuto, e il solo sentire il suo
respiro o l’odore della sua pelle aveva l’effetto di rilassarmi, perché con lui
tra le mie braccia mi sentivo in pace. Non avevo bisogno d’altro.
«Sono
già le sette e venti», disse dal nulla.
Quelle
parole mi fecero perdere un battito. Il tempo passava, che io l’avessi voluto o
meno, e si mangiava, istante per istante, quel poco che stava rimanendo di noi.
L’amore spesso non aveva un lieto fine, ed era una lezione che avevo imparato
fin troppo bene.
Provai
a tenere a bada ciò che mi suggeriva di fare il cuore e provai a ragionare col
cervello. Più o meno funzionò.
«Allora
è meglio se cominciamo a prepararci.»
Nathan
mise il suo viso davanti al mio, ed eccolo lì… quel suo sorrisetto.
«Serve
aiuto per la doccia?»
Entrambi
trattenemmo una risata e vederlo sorridere di nuovo mi provocò una scarica di
calore proprio all’altezza del cuore.
«Non
se vuoi prendere quell’aereo.»
«Ma
faccio il bravo, lo giuro. Promesso.»
Lo
sfidai. Avevo proprio voglia di vedere se sapeva mantenere promesse di quel
tipo.
Nathan fu di
parola. La doccia andò liscia come l’olio e lui si limitò a lavarsi e lavarmi,
senza alcun tipo di approccio interessato da parte sua. Si limitò solo a dire
che non era mai stato così pulito come in quelle ore, battuta che mi divertì e
mi fece anche un po’ arrossire.
Uscimmo
dal bagno e rientrammo in camera per prendere vestiti puliti, ma quando mi
voltai verso di lui e lo vidi nudo e illuminato dalla luce del giorno, mi resi
conto che i momenti intimi tra di noi erano sempre stati prerogativa della
notte. In quel momento, invece, era come se avessimo trovato il coraggio di
uscire allo scoperto e di guardare in faccia ciò che ci univa, senza confortarci
con la complicità del buio. Lasciai quindi scorrere il mio sguardo sul suo
corpo, che solo in quel momento avevo l’opportunità di osservare meglio.
Era
magro, anche se non in maniera eccessiva, ma avrebbe potuto comunque mettere su
un paio di chili senza che nessuno se ne accorgesse; non aveva muscoli scolpiti
ma il suo fisico era in ogni caso asciutto, tonico. Sul petto aveva solo una
piccola scia di peli biondi che scendevano giù fino al pube a incorniciare la
sua intimità, per poi infoltirsi sulle gambe lunghe e dritte, soprattutto sugli
stinchi. Mi tornò in mente il suo racconto di quel tizio che voleva
fotografargli i piedi - non avevo feticismi di quel genere, ma mi domandai che
numero di scarpe portasse. Ci pensai un attimo e ipotizzai tra un quarantuno e
un quarantadue, anche se forse la seconda opzione era più probabile. Sorrisi.
Era davvero un dettaglio insignificante… eppure non è proprio di dettagli che
vivono le relazioni più intime, di quei piccoli segreti degli amanti
sconosciuti ai più?
Lo
osservai di nuovo per intero e mi beccò a guardarlo, ma sembrava a suo agio,
così come lo ero io.
«Stai
pensando che sono stupendo?»
Lui
si avvicinò a me, e mi venne spontaneo chiudergli le mie braccia dietro al
collo.
«Questa
volta sì.»
Mi
cinse i fianchi con le mani, poi si avvicinò al mio collo e cominciò a leccarmi
dal basso verso l’alto, con movimenti lenti e sensuali, forse perché voleva che
mi immaginassi altro - e ci riuscì piuttosto bene.
«Stai
fermo con quella lingua...»
«Quale?
Quella che uso per leccare gelati?»
La
fece scorrere ancora una volta dal basso all’alto, poi trovò il mio orecchio e
cominciò a succhiarlo e mordicchiarlo.
«Nathan…
Avevi detto che avresti fatto il bravo.»
«Oh,
sì», rispose, e cominciò a lasciare un bacio dopo l’altro dall’orecchio fino a
sotto il mento. «Ma io dicevo dentro la doccia», e si fermò ancora per dare
altri baci. «Sul resto non ho specificato.»
Le
mie mani si mossero da sole. Sciolsi quell’abbraccio con un colpo brusco e lo
presi per i fianchi per invertire le posizioni, poi con uno scatto secco lo
buttai sul letto, con sua somma sorpresa e un pizzico di compiacimento. Gli
montai sopra e mi avventai sulla sua bocca, con la stessa voracità con cui
l’avevo immaginato tante e tante volte.
Ci
amammo in maniera graffiante, rude, quasi selvaggia. I nostri ansimi erano
rumorosi, disallineati, le mie spinte convulse e profonde. Mi ficcò le unghie
nella schiena ma al tempo stesso premeva coi piedi sulle mie natiche perché
voleva di più, più forte, più violento, e io lo accontentavo ogni volta. E
bastarono pochi minuti e un’occhiata perché lui si lasciasse prendere per i
fianchi, i miei occhi che risalivano la sua schiena per poi chiudersi verso il
soffitto, il cigolio del letto che accompagnava i nostri movimenti. Lasciai che
le mie dita scorressero sulla sua pelle sudata e che affondassero nella carne
quando il piacere si faceva più intenso e chiassoso, in un’eco di gemiti secchi
e stonati. C’era irruenza nel mio possederlo e c’era abbandono nel suo
lasciarsi fare, ma ci fu anche amore quando si rizzò e si torse per scambiarci
un bacio umido, forse l’ultimo che ci saremmo dati in una situazione del
genere, e che lasciò salde le mie mani sui suoi fianchi e portò il mio bacino a
muoversi con più dolcezza. La sua bocca si separò dalla mia che rimase schiusa
e ansimante, e lui sbatté le palpebre su quegli occhi lucidi, poi tornammo ad
ascoltare i nostri istinti, in una sincronia di azioni e reazioni che lasciava
fluire la consapevolezza di quell’ultima volta da me a lui, da lui a me.
Il
terzo round si concluse senza che nessuno dei due avvertisse l’altro; lui venne
e io lo seguii a ruota. Ero esausto, con un fiato tale che mi sembrava di aver
corso la maratona di New York due volte. Crollai sulla sua schiena e gli
lasciai dei baci tra le scapole, con quel leggero sapore di sale della sua
pelle sudata. Mi rialzai, uscii da lui e Nathan si lasciò cadere sul letto, poi
si mise supino, mentre entrambi cercavamo di riprendere fiato. I nostri sguardi
si incrociarono e lui cercò di buttar fuori un po’ d’aria ridacchiando.
«Wow.
Che scopata.»
«Già,
proprio wow», risposi, e pensai che era la prima volta che avevo trovato
il coraggio di farlo in maniera più rozza, più animalesca, riuscendo a
considerarlo comunque romantico. E pensai anche che sarebbe stata l’ultima,
almeno con lui. «Ti ho fatto male?»
Lui
scosse il capo. Mi avvicinai e gli lasciai un bacetto a stampo, poi mi persi a
guardare quegli occhi inteneriti e al contempo velati di tristezza. Nathan era
veramente in grado di scardinare ogni mia convinzione, ma d’altronde era ciò
che aveva fatto dal primo giorno. Lanciai un’occhiata al letto dove eravamo
distesi e divenni consapevole che presto sarebbe diventato freddo, e che la
notte successiva e quelle dopo ancora ci sarei tornato da solo. Non riuscivo a
trovare le parole per descrivere la sensazione di aver avuto di nuovo qualcuno
nell’altra piazza, specie se quel qualcuno era Nathan.
Ma
non potevo e non volevo crollare in quel momento, non volevo cedere il passo
all'egoismo e a ciò che provavo per lui. Forzai un sorriso e mi alzai da letto.
«Bene»,
aggiunsi senza tentennamenti. «Allora forse dovremmo prepararci. Per davvero,
intendo.»
Passammo da casa
di Nathan a prendere le sue cose, poi ci dirigemmo all’aeroporto dove ci
coccolammo con una ricca colazione. Io avevo lo stomaco chiuso, ma mi sforzai
di mangiare lo stesso, mentre lui ingurgitava di tutto e di più. Lo osservai
avventarsi su quel cibo come fosse stata l’ultima cena, poi lui si accorse che
lo stavo guardando e si fermò.
«Che
c’è?»
Lasciai
scorrere lo sguardo sui suoi occhi, il suo naso, la sua bocca unta. Avrei
sentito la sua mancanza… e in quel momento sapevo che l’avrei sentita per un
motivo in più.
Avvicinai
un dito alla sua guancia e la sfiorai.
«Hai
qualcosa qui.»
Non
era vero, volevo solo toccarlo. Solo stringerlo tra le mie braccia, ma sapevo
che non sarebbe stato più possibile. Mi tornarono in mente i maschioni
della California. Oh, sì, ne avrebbe avuti a bizzeffe ai suoi piedi. Ed era
giusto che ne approfittasse, per quanto quel pensiero mi facesse male. Era
giovane, bello, passionale, aveva tutte le carte in regola per essere
desiderabile. E in più quella sua testolina lavorava, e lavorava tanto,
pensava, rifletteva, capiva più di quanto non capissero tante altre persone.
Forse qualcuno si sarebbe lasciato spaventare da quelle sue qualità; ma ero
certo che tanti altri le avrebbero apprezzate, così come le avevo apprezzate
io.
Lasciai
che continuasse la colazione e che il mio sguardo vagasse sul menù di quel bar,
sulle luci, sugli altri tavoli, sul viavai di valigie e persone, perché non volevo
che Nathan mi leggesse dentro come faceva di solito. Non riuscivo a essere
davvero felice di quell’epilogo - per quanto fossi felice per lui - e non ero
bravo nemmeno a nasconderlo, nonostante mi sforzassi; per questo mi aspettavo
che da un momento all’altro mi riprendesse dicendomi che ero stronzo a
non godermi gli ultimi attimi con lui e che potevo impegnarmi un pochino di
più. Invece continuò a ingozzarsi di cibo e non disse niente di significativo,
lasciando che il tempo passasse, in un’atmosfera di fibrillazione che riuscivo
soltanto a fingere.
«Mi mancherai.»
Nathan
mi gettò le braccia al collo e lasciai che si cullasse nel mio abbraccio.
«Anche
tu mi mancherai», risposi, quasi in maniera meccanica. La verità era che mi
mancava già, e averlo così vicino non aiutava a rendere quel distacco più
semplice.
Poco
distante da noi c’era una famigliola che si stava salutando. I genitori
stritolarono la figlia col suo gigantesco zaino in spalla per l’ennesima volta,
poi osservai la malinconia negli occhi di loro mentre la ragazza si
allontanava, pronta a partire per il suo viaggio. I due rimasero soli e si
scambiarono un sorriso dolceamaro, poi lei lo prese per un braccio e si
diressero chissà dove.
Nathan
mi strinse un po’ più forte e io feci altrettanto. Gli accarezzai la testa, gli
lasciai dei baci sulla guancia, e mi ricordò tanto, forse troppo, quello che
era successo al Royale, prima e dopo l’aperitivo. Solo che quella non era la
sua festa di addio… ma il suo addio e basta. Lo amavo, lo amavo come non
credevo fosse possibile in soli due mesi, lo amavo così tanto da aver rimesso
in discussione tutto. Lo amavo e avrei desiderato essere un pizzico più
egoista, quel poco che bastava per cadere letteralmente ai suoi piedi come uno
tra quei mille ragazzi e implorarlo di restare, di non lasciarmi. Lo amavo e
non era giusto che finisse così, ma la giustizia non è cosa di questo mondo,
sono solo eventi, casualità che si incastrano tra loro, che a volte combaciano
e a volte saltano, pezzi di un puzzle che insieme sembrano perfetti e poi
scoprono che il loro posto è altrove.
Ci
sciogliemmo dall’abbraccio e trovai il coraggio di guardarlo, di lasciare che
mi leggesse dentro, che forse anticipasse quel bisogno che avevo di lui e che
dicesse solo “Ho cambiato idea, rimango, perché tu hai bisogno di me e io di
te, e sarebbe un crimine separarci, non credi?”, senza farmi attraversare
quella landa desolata di strazio e dolore dove avevo già camminato, sporco fino
alle ginocchia, fino al busto, quasi fino a soffocare.
Non
te ne andare, avrei voluto dirgli, farò di tutto
per te, avrei aggiunto, mentre cercavo di trattenere quel groppo in gola
che diventava troppo ogni secondo di più. Ti amo, avrei sussurrato col
cuore in mano, e poi l’avrei detto di nuovo, più forte, anche gridando se
necessario.
Ti
amo, e gli piantai un bacio sulle labbra, mentre
le mie mani accarezzavano i suoi fianchi, la mia bocca sentiva il suo calore
un’ultima volta, in cerca di quell’aroma di tabacco che non c’era più. Svanito,
come sarebbe svanito lui.
Quel
bacio finì e mi imposi di non dargliene più, di darmi un freno. Provai a
schiudere le labbra per dire qualcosa, quel qualcosa, mi allontanai da
lui quel poco che bastava per non sentirlo più così vicino, forse mi sarebbe
bastato far scivolare fuori quelle due parole e magari lui, chissà…
«Devo
andare», sussurrò.
Con
quei suoi occhi lucidi provò a sorridere, e io morii dentro. Tentai di
sorridere anch’io, ma non mi venne bene, perché le mie labbra erano tese, a
tratti tremavano, spaventate all’idea di confessare a Nathan ciò che provavo
per lui e spaventate all’idea di perdere quell’occasione.
«Non
mi auguri buona fortuna?»
Di
nuovo forzò un sorriso, e mi sentii sciocco perché nei suoi occhi leggevo
tristezza ma anche un pizzico di eccitazione per quella nuova avventura, e
presto ci avrei visto anche delusione se non mi fossi deciso a mettere da parte
il mio egoismo. Alla fine c’era solo una cosa che dovevo dirgli, perché gli
avevo promesso la mia amicizia e il mio appoggio, e se c’era qualcosa che dovevo
desiderare in quel momento era solo e unicamente la sua felicità. Tutto il
resto non era importante, tutto il resto poteva aspettare.
«Buona
fortuna, Nathan. Vai e spacca tutto.»
Lui
rise per quella frase che di sicuro non era appropriata per l’Alan Scottfield
che aveva conosciuto quel trenta luglio, ma che di certo lo era per quello che
aveva lì di fronte, quello che ormai aveva condiviso più di un pezzo di cuore
con lui.
«Lo
farò, promesso.»
Il
suo viso si rilassò e si lasciò sopraffare per il fremito di ciò che stava per
vivere. Lui ormai era in California; io ero rimasto lì, nella Grande Mela.
«Ciao»,
disse lui, poi afferrò la valigia per il manico.
«Ciao.»
Le
ruote della valigia cominciarono a fare rumore sulle piastrelle. Procedeva
all’indietro e mi salutava col braccio alzato, così come facevo io. Poi la sua
mano si abbassò. Prese la valigia con l’altra, mi diede un’ultima occhiata e si
voltò verso i banchi del check-in, fiero verso la sua meta.
La
mia mano continuò a salutarlo, poi perse vitalità e tornò accanto al mio corpo.
Seguii i passi di Nathan con un’occhiata finché mi fu possibile; poi sparì
nella calca di gente, persi di vista la sua valigia e pure la sua testolina
bionda. Persi di vista tutto.
Dovetti
resistere all’impulso di seguirlo, di corrergli dietro, perché più passavano i
minuti senza di lui e più mi sentivo perso. Mi mancò l’aria e provai il
desiderio di uscire, ma mi dissi anche che non potevo farlo, perché se fosse
tornato indietro per un colpo di testa e non mi avesse visto avrebbe potuto
pensare che non lo desideravo abbastanza lì accanto a me. Così rimasi, anche se
l’aeroporto brulicava di persone e mi faceva soffocare, perché nessuno di loro
era Nathan, perché nessuna valigia era la sua. Ogni rumore di ruote sulle
piastrelle mi faceva voltare da una parte e dall’altra, ogni annuncio speravo
lo riguardasse, ogni testa bionda mi faceva perdere un battito per poi
pugnalarmi, e lo sentivo, sentivo il dolore di quella stilettata che affondava
nella carne e lenta squarciava i tessuti, sentivo il mio corpo tremare, sentivo
la voglia di urlare.
Sentivo
quel senso di vuoto, sentivo l’impossibilità di ritrovare in altri ciò che era
stato solo suo, un qualcosa di essenziale, vitale, un’astinenza che smaniavo di
colmare lì, in quell’istante, in quel momento, subito, ma non sapevo come - non
era possibile. Avrei dovuto imparare a convivere senza, a cibarmi dei ricordi,
ad attendere che non fossero più così vividi e pulsanti, a ritrovare in altri
tracce di lui. Sentii l’impulso di comprare un pacchetto di Marlboro per
tenerlo con me, ma mi dissi che lo avrei fatto più tardi, perché se fosse
tornato indietro…?
La
cruda verità si abbatté su di me come uno scroscio di acqua gelida: nessun
pacchetto di Marlboro mi avrebbe restituito Nathan, così come nessuna preghiera
mi aveva restituito Oliver. Ero solo, di nuovo, a spostare lo sguardo ora a
destra ora a sinistra in quella misera illusione che la situazione potesse cambiare,
che Nathan potesse riprendere i pezzi del mio cuore infranto e rimetterli
insieme come se non lo avesse mai spezzato.
Una
voce dentro di me rise di gusto, come a farsi beffe di un sognatore che spera
ancora in uno scenario migliore, e rise ancora, finché non nascosi il viso tra
le mani e cominciai a piangere, e subito dopo a singhiozzare; un’altra voce
dentro di me implorò l’altra di smetterla, di non distruggere le mie illusioni,
di lasciarmi sperare ancora un po’ e di risparmiarmi tutta quella sofferenza,
anche fosse stato per un minuto. Lasciai che le lacrime mi scuotessero per un
tempo che non riuscii a quantificare, le mani sul viso che speravano di sentire
un tocco caldo e familiare a consolarmi, un tocco che non arrivò mai. Quando i
singhiozzi tornarono a essere solo respiri secchi e affannati, tolsi le mani e
riaprii gli occhi, che poterono osservare solo il vuoto davanti a me. Nathan
non c’era. Mi ero illuso di nuovo.
Gli
strascichi di quel pianto si portarono via la risata nella mia mente e un
pizzico delle mie illusioni, finché non rimase niente, né dell’una né
dell’altro. Tutto ciò che restò fu un involucro col viso rigato dalle lacrime,
un uomo che ancora una volta aveva il compito di chiedersi dove avrebbe trovato
la forza per vivere un’altra giornata.
I
miei occhi intravidero sullo schermo che l’aereo era decollato e qualcosa
dentro di me si mosse. Sottovoce, piano piano, mi dissi che forse ci aveva
ripensato all’ultimo minuto, che come nei film si era alzato all’ultimo
momento, aveva sgomitato, lasciato tutti di stucco ed era sceso dall’aereo
correndo a perdifiato da me.
Lasciai
passare qualche minuto.
Sospirai.
Non
lo aveva fatto.
La prima settimana
dopo la sua partenza continuai a nutrire una certa speranza che potesse tornare
di lì a poco. Magari il lavoro faceva schifo, o il clima, o i ragazzi del
posto… e invece, dato che il mio telefono non aveva squillato neanche una
volta, immaginai che dovesse essere tutto bellissimo, tutto come lo aveva
sognato.
Non lo
avevo cercato neanch’io, non avrei saputo cosa dirgli. Le uniche parole che mi
sembravano degne di essere pronunciate ora giacevano in una parte sempre più
remota del mio cuore, e presto le avrei chiuse sottochiave per non farle uscire
mai più.
Il
lavoro tornò a farmi buona compagnia. Anche Ash, tutto sommato. Si sforzava di
essere amichevole con me, così come io mi sforzavo di apprezzare i suoi
tentativi di starmi vicino, ma non serviva a granché. Mi sentivo ogni giorno
sprofondare sempre più in quell’apatia che era stata mia compagna per tanti,
lunghi mesi, solo che mi faceva molta meno paura. La conoscevo ormai, sapevo
quanto in basso poteva trascinarmi, e sapevo anche come evitare che lo facesse.
Un
giorno di dicembre, proprio quando stavo per mettermi a dormire, ripensai a
quella foto nel cassetto. Non lo avevo più aperto da quando avevo fatto l’amore
con Nathan, non ce n’era stato bisogno. Ma quando rividi il viso di Oliver, mi
salì l’istinto e la necessità di rimettere quella foto lì dov’era sempre stata,
al suo posto sul comodino. E così ce la rimisi. E così ricominciai a parlarci.
Natale
era ormai alle porte. Sarebbe stato il secondo che avrei passato da solo, il
secondo col cuore a pezzi, anche se per motivi diversi. I miei genitori mi
avevano proposto di tornare a Brighton per le feste, nella speranza che il
chiasso familiare potesse distrarmi un po’. Avevo accettato e comprato il
biglietto di andata, e quasi esitato nel prendere quello di ritorno.
Anche se
mancava ancora qualche settimana, il mio pensiero volò alla fine dell’anno, e a
quella scadenza silenziosa che avevo dato ai miei sentimenti per Nathan. Non
che i sentimenti potessero avere davvero una scadenza, ma sapevo che non potevo
continuare in quel modo in eterno.
Allo
scoccare dell’anno nuovo avrei messo da parte ogni speranza di un suo ritorno e
avrei abbassato il sipario su quel fuoco di paglia che era stata la nostra
relazione, che aveva fatto in tempo ad ardere giusto per qualche ora, prima di
sgretolarsi e diventare cenere.
Avrei
cominciato a dimenticarlo. O, quantomeno, ci avrei provato.
La neve
cominciò a scendere e la osservavo cadere alla finestra, fiocco dopo fiocco,
ogni volta che ne avevo l’occasione. Era lenta e ipnotica, mi assorbiva e non
mi dava il tempo di pensare a nient’altro, se non a quei piccoli fiocchi che
sembravano volersi rincorrere finché non cadevano a terra.
… E
intanto i giorni passavano…
Angolo
autrice
Salve a tutti!
E siamo già arrivati
al penultimo capitolo… non mi sembra quasi vero! Sono molto soddisfatta di come
è uscito, spero sia piaciuto anche a voi :D E ovviamente non poteva mancare la
punta di angst, perché sennò non sono contenta! Che dite? Nathan rimarrà per sempre
in California o per questi due c’è speranza? Chissà… Si accettano scommesse :D
Ah, non c’entra
niente, ma forse (FORSE) c’è la possibilità che a giugno faccia il mio primo
viaggio a New York! Sono agitata ma anche emozionata, perché avrò l’opportunità
di vedere dal vivo tanti luoghi di questa storia! E sono certa che se questa
esperienza andrà in porto poi ritoccherò una marea di descrizioni nella
speranza di renderle più realistiche.
Ringrazio come
sempre tutti i lettori silenziosi e non (Alexandra, ti meriti una statua! XD),
e ricordate che ogni commento è il benvenuto! Ahahah :D
Be’, a lunedì
allora, con l’ultimo capitolo e un messaggio strappalacrime di chiusura <3
Simona