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Autore: holls    07/04/2022    6 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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32. L’ora più lunga

 

 

La camera era illuminata soltanto dal bagliore della luce della cucina, quel poco che bastava per vedere la testa di Nathan affondata nel cuscino e le sue labbra schiuse che gemevano piano.

Mi abbassai su di lui e gli lasciai un bacio sul collo, con una scia di baci che risalì fino al mento e lo superò, per poi trovare la sua bocca che si lasciò assaporare con voracità.

          Lui infilò una mano tra i miei capelli e dopo un movimento disordinato la lasciò sulla nuca; l’altra invece la fece scorrere sulla schiena nuda, ma la fermò quando la sua bocca si aprì per invitarmi a usare la lingua. Io obbedii, e la mia saliva diventò la sua, in quel primordiale tentativo di unirci fino a diventare una cosa sola. Spostai le mie mani fino ad accarezzare la sua testa, la bocca invasa dal calore dei suoi ansimi; e mi chiesi come avevo fatto a vivere per due mesi senza le sue labbra, senza che le mie dita potessero scivolare sulla sua pelle, e senza sentire le sue, fredde come le ricordavo, scorrere sul mio petto e poi virare verso il basso, per quel piacere che fino a quel momento avevo solo immaginato.

          Era bastato entrare in casa e scambiarci un’occhiata per capire che da quella serata volevamo di più, entrambi. In poco tempo i nostri timidi baci di Central Park erano diventati solo un ricordo e si erano trasformati in baci veri e profondi, che ci lasciavano a malapena lo spazio per respirare. Mi ero ritrovato sbattuto al muro, le mani di Nathan sui bottoni della mia camicia e le mie dita a vagare sotto la sua maglietta, affamate di quella pelle di cui avevo sentito solo briciole. Non ci era voluto molto prima di ritrovarci nudi sul letto, curiosi di assaporarci e sazi dopo averlo fatto; e dal momento in cui mi ero messo sopra di lui, in mezzo alle sue gambe, intento a esplorare il suo corpo e a osservare ogni sua risposta di piacere, entrambi - ne ero certo - avevamo provato quel primordiale desiderio di andare fino in fondo.

          La mia eccitazione crebbe al solo pensiero e sentii la sua fare altrettanto; inarcò la schiena, si lasciò andare a un gemito e chiuse il bacio, poi mi prese il viso e lo allontanò per guardarmi negli occhi. Io lo fissai di rimando, perché sapevo che quell’occhiata voleva dire una sola cosa; così spostai lo sguardo sul comodino accanto al letto, dove giaceva il lubrificante che avevo aperto e usato poco prima, poi tornai a guardare Nathan, il cui sguardo non vacillò nemmeno per un secondo. Indossai il preservativo e versai un po’ di lubrificante sulle dita, poi massaggiai la sua apertura ed entrai non appena vidi il suo volto contrarsi in un’espressione di piacere. Studiai ogni sua smorfia in cerca di tracce di dolore, ma non ce n’erano; e anche i suoi muscoli erano rilassati, pure quando mi feci largo con un altro dito, perché volevo che fosse pronto e fargli male era davvero l’ultima cosa che volevo.

          Lui era stupendo, vulnerabile, così rilassato nel suo piacere da farmi sentire custode del suo corpo. Lo baciai ancora perché volevo che sentisse quanti pezzi di cuore mi aveva rubato, che desideravo essere suo più di quanto desiderassi che lui fosse mio. Gemeva di piacere anche con le labbra chiuse dalle mie, così mi staccai e il suo piacere tornò a riempire la stanza, quelle stesse quattro mura che erano rimaste silenziose per così tanto tempo.

          Sfilai le dita una a una e gli diedi un ultimo bacio prima di mettermi in posizione eretta, le sue gambe sulle mie spalle. Lo guardai di nuovo con attenzione per scovare un minimo segno di incertezza, e ciò che ottenni fu un sorriso che gli spuntò in faccia tra un gemito e l’altro.

Mi avvicinai alla sua apertura e feci un po’ di pressione, ma lui continuava a essere rilassato; così la mia erezione scivolò dentro il suo corpo, che la avvolse e la strinse facendola sua attimo dopo attimo, finché non fui dentro fino in fondo. In quel momento ci guardammo un istante, un istante in cui diventammo consapevoli del fatto che io non ero più solo Alan, e lui non era più solo Nathan, ma eravamo diventati Alan e Nathan, quella cosa sola che tanto avevamo desiderato essere.

Gli lasciai qualche secondo per abituarsi a quella sensazione, dopodiché posai le mie mani sulle sue cosce e cominciai a spingere, e ogni spinta cementava ciò che eravamo diventati, ciò che stavamo diventando. Perché non c’era stata vergogna quando eravamo rimasti nudi l’uno di fronte all’altro, e nemmeno al momento di scoprire le nostre intimità, ma solo un senso di naturalezza come se il nostro posto fosse sempre stato lì, insieme. Feci scivolare le sue gambe all’altezza dei miei fianchi e mi abbassai di nuovo su di lui, perché volevo il suo viso vicino. Mi prese il volto tra le mani e pensai che volesse baciarmi, ma invece piantò i suoi occhi nei miei e cominciò a gemere più forte ogni volta che spingevo. Voleva che lo guardassi mentre provava piacere e si abbandonava a quella possessione, ma l’attimo dopo tornò ad ansimare come aveva fatto fino a quel momento e mi diede un bacio, che sembrava voler nascondere l’imbarazzo per essersi lasciato andare.

Ma volevo che quella fosse la notte più bella della sua vita, così lo assecondai e gli sorrisi, per dirgli che se voleva essere guardato, io l’avrei fatto; e il suo viso, da contratto com’era, a poco a poco tornò a rilassarsi, e i suoi occhi furono di nuovo piantati su di me, e i suoi gemiti, confusi con i miei, tornarono a riempire la camera.

Passammo dieci minuti ad amarci in quel modo viscerale, a contornare quell’unione fisica con baci e attenzioni l’uno per l’altro, finché non fui sul punto di venire - e a lui bastò poco per capirlo. Mi fece un cenno di assenso col capo e presi a spingere più forte, mentre lui si dava piacere da solo, finché non venimmo entrambi.

Rimanemmo soli con i nostri ansimi e i nostri sguardi, mentre piano piano la stanza tornava a essere solo silenzio, intrisa con l’odore del sesso. Posai la fronte sulla sua e chiusi gli occhi, poi li riaprii e trovai i suoi che mi scrutavano, forse in cerca di un commento o di una risposta a una domanda che non voleva pormi.

Abbandonai il suo corpo con delicatezza e mi sentii vuoto, come se qualcosa non fosse stato al suo posto; così lo baciai, e lui baciò me, e per un attimo la mia mente fu attraversata da due parole che non avevo più detto da quella che mi sembrava una vita. Guardai Nathan e mi fece paura, paura che in soli due mesi mi avesse ridotto in quel modo, a provare per lui un sentimento che mi spaventava chiamare col suo nome.

Lui forse si accorse che ero diventato teso, ma non disse niente; tutto ciò che fece fu guardarmi mentre mi allontanavo verso il bagno, dopo aver declinato il mio muto invito a seguirmi. Mi sfilai il preservativo usato e lo gettai nel cestino che tenevo accanto al lavello, poi alzai gli occhi e fissai la mia immagine riflessa sullo specchio.

Avevo le guance arrossate e il viso stanco, ma ci fu un altro dettaglio che non riuscivo a ignorare: i miei occhi nocciola, quelli che mi fissavano al di là dello specchio, avevano un guizzo che non vedevo almeno da una decina di mesi. Mi avvicinai alla mia immagine riflessa e la scrutai, senza trovare una risposta; poi dalla camera sentii Nathan che si rigirava sotto le coperte, e quando tornai a guardare lo specchio mi fu chiaro che i miei occhi altro non erano che quelli di un uomo che stava per dire ti amo a un ragazzo conosciuto due mesi prima. In una parola: innamorato. Tirai un sorriso e mi chiesi come avevo fatto a ridurmi in quel modo, perché già mi mancava anche solo il suo respiro, in una misura tale che sentii l’urgenza di uscire dal bagno e tornare da lui in camera.

Lo trovai rannicchiato sotto le coperte con lo sguardo perso, che ritrovò vitalità non appena mi vide.

«Già fatto?»

Mi accovacciai accanto a lui, che avvicinò la testa al bordo del letto.

«No. Mi mancavi.»

Quella risposta gli strappò un sorriso, ma i suoi occhi furono di nuovo attraversati da quella nota di vacuità che gli avevo visto un attimo prima. Con una mano gli accarezzai la testa e lui chiuse gli occhi.

«Va tutto bene?», domandai.

Riaprì gli occhi e mi fissò per un attimo, poi annuì. Tuttavia gli leggevo qualcosa in faccia, qualcosa che non lo rendeva sereno, e il pensiero che potesse essere colpa mia mi stava mettendo a disagio.

«Dai, fammi posto, mi metto qui accanto a te.»

Esitò un attimo, poi fece come gli avevo chiesto e si spostò, quel poco che bastava affinché mi potessi distendere di fianco a lui, che intanto seguiva ogni mio movimento con aria interrogativa. Ci ritrovammo faccia a faccia, ma lui teneva gli occhi bassi e cominciai a temere davvero di aver fatto qualcosa di sbagliato.

«Ehi, che succede?»

Cercai i suoi occhi e li trovai solo quando gli rizzai appena il mento con un dito. Lui sostenne il mio sguardo, ma dovette sospirare un paio di volte prima di trovare le parole.

«Grazie per essere tornato a vedere come stavo.»

Le sue parole furono poco più di un sussurro. Io tornai ad accarezzargli il viso, la spalla, il braccio - qualunque cosa potesse farlo sentire rassicurato.

«Sto provando una marea di cose», continuò. «E da quando abbiamo finito mi sembra che mi manchi qualcosa, come se avessi un vuoto dentro. Senza doppi sensi.»

Mi spuntò un mezzo sorriso e non per la battuta, ma perché lo capivo fin troppo bene. Gli presi una mano e cominciai a baciarla, poi la incastrai nella mia. Notai che le sue dita si erano scaldate e anzi, in quel momento erano bollenti.

«Anche io mi sento così. E non intendo sessualmente…», sussurrai, poi mossi le nostre mani sul mio cuore, «… ma qui.»

L’espressione sul suo viso si rilassò, poi fece spazio a un sorriso, non solo sulle labbra, ma anche nei suoi occhi. Si avvicinò a me e mi baciò, poi sciolse l’intreccio delle nostre mani e una la mise dietro la mia nuca per tirarmi a lui. Le sue labbra avevano un vago e leggero aroma di tabacco, di cui non mi ero accorto nei baci precedenti. Lo assaggiai e lo sentii così mio, e indugiai sulle sue labbra perché volevo sentirlo ancora, così rallentai il ritmo e assaporai la sua lingua, perché quell’aroma volevo che mi entrasse dentro, che diventasse mio come lo era stato lui, come volevo che lo fosse. E nella mente rividi il mio riflesso di uomo innamorato, di un uomo che sulla punta della lingua non aveva solo il sapore di tabacco, ma anche quelle due parole che scalpitavano per uscire, perché Nathan se le meritava più di ogni altra cosa. Ma forse lo avrebbero spaventato o, peggio, lo avrebbero indotto a rinunciare a quell’opportunità di mangiarsi il mondo che sembrava tanto importante per lui, e io d’altro canto, se fosse rimasto, sarei diventato il responsabile della sua felicità nella Grande Mela, un peso che sarebbe stato ingiusto sia per me che per lui.

Fu così che quando quel bacio terminò, io lo guardai negli occhi e decisi che quelle parole le avrei tenute per me, almeno per il momento, o forse per sempre, con la consolazione che niente avrebbe potuto impedirmi di amarlo anche da lontano, in maniera silenziosa.

D’un tratto lo vidi spostare lo sguardo sul suo busto e percorrere con le dita una scia che partiva dal pube e risaliva fino al petto. Per un attimo, la sua bocca si contrasse in un’espressione tra il fastidio e il disgusto.

«Mi sa che ho bisogno di una doccia. L’invito è ancora valido?»

Osservai meglio la scia che aveva seguito e mi resi conto solo in quel momento che era venuto senza preservativo, un dettaglio che avevo dimenticato e che lo aveva costretto a sporcarsi. L’attimo dopo le mie dita erano sulla sua pancia, là dove la chiazza era più ampia, e il tocco di quel liquido ormai tiepido e viscoso intrappolò i miei pensieri nel desiderio di assaporare Nathan non solo con baci appassionati.

Quel pensiero mi imbarazzò - anche perché non lo avrei mai fatto con qualcuno di diverso da un partner fisso -, così ritirai la mano e provai a dissimulare.

«Scusa, colpa mia. Andiamo?»

Il suo volto si aprì in un sorriso e tirai un sospiro di sollievo. Mi misi in piedi davanti al letto e gli tesi una mano per aiutarlo a fare altrettanto; e quando lui si alzò e me lo ritrovai nudo davanti a me, avvertii un brivido per quella carica sessuale che emanava, la stessa che con ogni probabilità mi aveva spinto, fin dall’inizio, a ronzargli intorno per un motivo o per un altro. Lo lasciai passare e lo guardai camminare verso il bagno, quando l’occhio mi cadde verso il lubrificante aperto e, più sopra, verso una zona del comodino che era stranamente vuota, la stessa zona dalla quale, prima di uscire, avevo tolto la foto di Oliver e l’avevo chiusa nel primo cassetto.

L’avevo presa senza pensarci troppo, e l’avevo fissata a lungo prima che l’idea di spostarla da lì prendesse piede nella mia testa. Ed era stato un caso, perché quel cassetto era lo stesso dove tenevo anche il lubrificante, e ci avevo pensato solo perché mi erano tornate in mente le parole di Ash sul dopo-festa. Per cui era apparso così, spontaneo, il pensiero che forse ci potevo tenere anche qualcos’altro, tipo la foto che stringevo tra le dita. Un pensiero che non aveva niente di eccezionale, ma che mi aveva fatto rendere conto che se il ricordo di Oliver continuava a consumarmi con i sensi di colpa, era solo perché io glielo permettevo; e che non c’era niente di male nel pensare che il sorriso di Oliver, quello che mi aveva fatto compagnia in quei lunghi mesi, non mi bastava più. Perché la verità era molto più semplice e altrettanto banale: volevo vivere, volevo amare di nuovo. Quindi avevo aperto quel cassetto, avevo tolto un attimo il lubrificante per mettere la foto in piano, lo avevo rimesso dov’era e avevo chiuso il cassetto. Avevo impiegato dieci mesi per compiere quella sequenza di azioni che sul momento mi erano sembrate qualcosa di straordinario.

«Vieni?»

Alzai gli occhi verso Nathan e sorrisi ripensando a quei momenti dove credevo impossibile innamorarmi ancora. Aveva compiuto un miracolo.

Non me lo feci ripetere due volte e lo raggiunsi, poi lo strinsi a me e lo baciai, dandomi intanto dello stupido per averlo fatto aspettare così tanto.

 

Uscimmo dalla doccia stanchi e stremati, reduci da un altro rapporto che aveva preso entrambi un po’ alla sprovvista. Perché se la prima volta era stata abbastanza prevedibile (d’altronde, eravamo venuti a casa per un motivo), la seconda era cresciuta piano, col desiderio crescente di appartenerci di nuovo e al contempo la voglia di lasciare spazio al romanticismo. Ma era bastato lavarci a vicenda, spazzare via i segni di ciò che era avvenuto per riportarlo alla mente più vivido che mai, e fu questione di un attimo ritrovarci di nuovo legati dalla passione. E sebbene trovassi un po’ impersonale farlo guardando la schiena dell’altro, con Nathan quel dettaglio aveva assunto il sapore di un’intesa immediata, che per esistere non aveva bisogno che ci guardassimo negli occhi.

Accesi la piccola luce del comodino e spensi quelle nelle altre stanze, poi prestai a Nathan un mio pigiama e, entrambi vestiti, ci distendemmo sul letto, sotto le coperte. Fissai il soffitto e mi portai una mano sul petto, per scoprire che si alzava e abbassava a ritmo regolare, quello di chi è sazio della giornata vissuta e si gode il meritato riposo, e chiusi gli occhi.

Avevamo fatto l’amore. Due volte. Ancora non riuscivo a crederci. E se non fosse stato per la sua partenza, ero certo che ce ne sarebbero state molte altre, ma ero altrettanto sicuro che forse era proprio la sua partenza ad avermi spinto a fare quel passo. Ripensai alla chiacchierata con Ash di qualche giorno prima, a tutte le mie insicurezze, alla mia indecisione. Sbuffai. Ma non potevo biasimarmi: se non l’avevo fatto prima, era perché non mi sentivo pronto.

Sentii Nathan muoversi e aprii gli occhi, poi lui si voltò verso di me e si sollevò appena posando la testa sul palmo della mano. Io lo guardai e lo trovai bellissimo. Percorsi con lo sguardo tutti i lineamenti del suo viso, che se da una parte cominciava ad avere i tratti di un giovane adulto, dall’altra conservava ancora le ultime tracce di un’adolescenza che presto sarebbe svanita.

«Ti prego, non guardarmi così.»

Lui ridacchiò e io aggrottai le sopracciglia.

«Cioè?»

«Hai l’aria di chi vorrebbe il terzo round… mi spiace dirtelo, ma domani ho sei ore da passare seduto.»

Lo fissai un attimo e scoppiammo entrambi a ridere, un’azione che mi sembrava di non compiere da un secolo.

«Comunque non è l’aria di chi vorrebbe il terzo round.»

Nathan mi rifilò uno dei suoi sorrisetti maliziosi, e in un attimo fui catapultato nel ricordo della sua prima dichiarazione in centrale e al battibecco tra me e quel ragazzino irritante. Dio, sembrava passata un’eternità. E sembrava impossibile che fossimo arrivati a quel punto.

«Ah no? E quindi perché mi guardavi in quel modo?»

Sospirai. Avrei voluto dirgli la verità, quello che mi passava per la testa… ma ancora una volta mi ripetei che non sarebbe stato giusto.

«Perché sei stupendo.»

Si mise a pancia in giù, reggendo il suo peso sui gomiti, e avvicinò il suo viso al mio.

«Quindi è questo che pensavi tutte le volte che ti ho beccato a fissarmi in questi due mesi?», bisbigliò.

Fui colto da un pizzico di imbarazzo e tornai a fissare il soffitto. Me l’aveva pure detto, una volta, che ogni tanto lo fissavo. E c’era da dire che non sempre lo avevo fatto pensando che fosse stupendo - benché lo fosse.

Nathan avvicinò ancora di più il suo viso al mio, con un’espressione divertita che cominciavo ad amare.

«Allora?»

«Be’», risposi, e ci pensai un attimo, «più o meno era quello che pensavo.»

«Uhm. Più o meno

Arricciò le labbra e mi rifilò uno sguardo, quello sì, da terzo round. Io provai a sostenerlo senza dargli corda, ma bastarono pochi secondi per capire che era tutto inutile. Scoppiammo di nuovo a ridere entrambi, io perché avevo detto una bugia, e lui perché non ci era cascato neanche per un secondo. Quando le nostre risate si spensero, però, lui rimase di nuovo con quell’espressione persa che gli avevo visto al momento di uscire dal bagno. Abbassò gli occhi, poi li rialzò, e le sue labbra si contrassero in un sorriso forzato.

«Quindi è così che finisce?»

La sua domanda fu come uno schiaffo che mi fece tornare con prepotenza alla realtà. Avevamo riso, avevamo scherzato, ma sapevamo che quello somigliava molto all’incantesimo di Cenerentola e che il nostro tempo stava per finire.

Sospirai e non dissi niente per un po’. Nemmeno lui lo fece. Ci limitammo a osservarci come in cerca di una risposta l’uno nell’altro, e sapevo che io gliene dovevo una. Raccolsi tutto il coraggio che avevo, quello che mi serviva per distruggere ciò che avevamo costruito e condiviso.

Sospirai di nuovo.

«È così che finisce.»

Nathan abbassò di nuovo lo sguardo e annuì piano. Lo vidi stuzzicarsi una pellicina intorno al pollice, poi alzò gli occhi per lasciarli vagare per la stanza, finché non mi accorsi che gli stavano diventando lucidi. D’istinto portai una mano sulla sua guancia e lo accarezzai, e feci altrettanto per rimuovere le lacrime dal suo viso, come avevo fatto solo qualche ora prima.

«Allora ne approfitto per dirti una cosa.»

La sua voce era spezzata dall’emozione, e lo sarebbe stata anche la mia se avessi detto qualcosa. Tirò su col naso e continuò.

«Grazie per questa serata. È stato tutto perfetto, dal primo all’ultimo momento. E in generale, non so dove sarei adesso se non ci fossi stato tu. Ti devo veramente tanto. Grazie.»

Le sue parole mi lasciarono senza una risposta. Perché più lo guardavo, più mi rendevo conto di quanto in quei due mesi fossimo stati la stampella l’uno dell’altro, in un’accoppiata improbabile su cui nessuno avrebbe scommesso, a cominciare da quei mondi diversi a cui appartenevamo e che invece si erano incastrati alla perfezione. Quanto era stato il caso e quanto eravamo stati fautori del nostro destino?

Nathan aveva smesso di piangere, così gli diedi un’ultima carezza; e intanto avevo trovato, dentro di me, parole degne delle sue.

«Tu sai che per me è lo stesso. Sei un ragazzo straordinario e credo che sia rimasto solo tu a non essertene accorto», dissi, e quell’ultima frase lo imbarazzò appena. «Ti ricordi com’ero quando mi hai conosciuto? Ecco, guardami ora. È solo merito tuo. E se tu devi qualcosa a me, io devo altrettanto a te.»

Lui tirò un sorriso, poi si rimise disteso e adagiò la sua testa nell’incavo della mia spalla. Lo circondai con un braccio e gli accarezzai la testa, poi nessuno dei due disse più niente. Passarono diversi minuti di silenzio, durante i quali avevo continuato ad accarezzarlo e ad ascoltare il ritmo del suo respiro. Ogni tanto soffiava in maniera più rumorosa ed ebbi l’impressione che stesse piangendo. Lo strinsi a me un po’ più forte, e lui fece altrettanto.

Spensi la luce sul comodino e lasciai che l’oscurità avvolgesse entrambi. Andammo a dormire così, stretti l’uno nell’altro, io solo con i miei pensieri e Nathan con i suoi.

Lui cedette al sonno dopo poco, e me ne accorsi perché il suo respiro divenne più pesante e cadenzato. Passai il mio tempo ad ascoltarlo, a sentire il suo petto che si alzava e abbassava, e a chiedermi se stesse sognando. Cercai di imprimere nella mente il rumore del suo respiro e quella sensazione di completezza che provavo nello stringerlo tra le mie braccia, ma sapevo che non era possibile. Provai a resistere al sonno ancora un po’, perché chiudere gli occhi avrebbe spezzato l’incantesimo, e quella magia, quella chimica che non c’era mai stata con nessun altro, sarebbe volata via con un soffio di vento.

Quando le palpebre cominciarono a calare, e i pensieri si fecero confusi, mi sentii assalire da un senso di sconfitta e impotenza, perché avevo ceduto allo sfinimento; e mi apparve chiaro che quella sarebbe stata, senza dubbio, l’ultima volta che avrei potuto stringere Nathan tra le mie braccia.

Chiusi gli occhi, e quello fu il mio addio… a lui e a noi.

 

La radiosveglia segnava le 5:58. Per un attimo sobbalzai pensando che fosse tardi, e invece mancava ancora un’oretta alla sveglia che avevamo messo perché potessi accompagnarlo in aeroporto in tutta calma.

Nathan aveva il respiro ingrossato, e pensai che con ogni probabilità era stato quel rumore a svegliarmi. Non si trattava di un vero e proprio russare, ma solo un’espirazione secca intervallata ogni tanto da qualche gemito sommesso. Sorrisi, e mi chiesi quante altre piccole cose c’erano di lui che non sapevo, ma quel sorriso morì subito quando mi resi conto che non lo avrei mai saputo.

Lasciai che i miei occhi si abituassero al buio e notai che Nathan stava stringendo il cuscino. In qualche modo, durante il sonno, ci eravamo separati e ora riposava sulla parte del letto che per un paio d’anni era stata quella di Oliver.

Potevano esistere due persone più diverse di così?

Se avessi dovuto riassumere Oliver in una parola, avrei detto che era perfetto. Un ragazzo studioso e con una scintillante carriera davanti a sé, educato nei modi, cordiale, candidato ideale da presentare ai genitori. Non che ci trovassi niente di male: mi piaceva che fosse perfetto in quel modo, dava un’idea di ordine e stabilità. E quindi com’ero finito a innamorarmi di Nathan, la persona più incasinata dell’universo?

Quasi come se avesse sentito i miei pensieri, Nathan mugolò qualcosa, poi si risistemò nel letto rubandomi una consistente fetta di spazio. Forse non era abituato a dormire con qualcuno, o forse il suo letto non era così grande… o forse era fatto così e basta, e si prendeva la porzione di letto che riteneva più consona per poter dormire bene.

Mi scappò un sorriso, perché sapevo che avrei amato pure quel piccolo dettaglio.

Provai a riaddormentarmi di nuovo in quel quarto di letto che mi era rimasto, ma più mi impegnavo a liberare la mente per riprendere sonno, più si affollava di quei pensieri che vengono a farti visita solo di notte.

Per tutta la sera lui era stato il mio ragazzo e io il suo, fin dal primo istante che l’avevo visto davanti al Royale, anche se non ce lo eravamo detti, perché comportarci come una coppia era venuto spontaneo a entrambi. E quel dettaglio mi sembrò così incredibile e potente che il pensiero di rinunciare a lui mi sembrava quasi inconcepibile. C’era qualcosa che potevo fare per far sopravvivere quel noi che tanto avevamo desiderato per settimane?

Avrei potuto implorarlo di restare, certo. Forse avrebbe anche accettato senza tentennare troppo, ma sapevo che New York era una città che non lo rendeva sereno. Aveva vissuto tanto dal punto di vista emotivo in quei due mesi, per non parlare di tutto il pregresso di cui mi aveva solo raccontato, un passato che lo aveva intrappolato spesso in un ruolo che non sentiva più suo. Andarsene non sempre è una soluzione, e io lo sapevo bene, ma nel suo caso sapevo anche che poteva rappresentare un toccasana per fargli ritrovare un po’ di equilibrio. Il punto era: quanto ci avrebbe messo? Un mese? Un anno? La vita intera? E se anche avesse ritrovato un po’ di benessere, sarebbe mai tornato per me?

Ripensai a quello che era successo tra di noi quella sera. Non avevo parole per descriverlo senza che suonasse banale, ma in ogni caso sapevo che era stata una delle esperienze più belle della mia vita. Non mi piaceva fare paragoni, ma Nathan si meritava un’eccezione, perché la naturale chimica che c’era tra noi aveva reso tutto incredibile.

Non lo volevo perdere. Ma le soluzioni erano poche e nessuna di queste era praticabile. Avrei potuto seguirlo, per dirne una, ma la sola idea mi faceva sentire un intruso. Lo scopo della sua partenza era riordinare il casino nella sua testa, farcela da solo, e se fossi stato con lui ero certo che lo avrei solo ostacolato nel suo obiettivo.

In alternativa c’era sempre l’opzione della storia a distanza, ma quanto avremmo retto? Ci sarebbe bastato vedersi ogni quindici giorni o una volta al mese? La verità era che anche quella possibilità mi rendeva invadente nei confronti di Nathan, perché era abbastanza chiaro che dove c’era la California, non c’ero io. Eravamo proprio due elementi incompatibili, e cercare di forzarli insieme avrebbe solo potuto peggiorare le cose.

Rimuginai ancora un po’ su quelle opzioni, poi giunsi alla conclusione che il coltello dalla parte del manico ce l’aveva lui. Era necessario che partisse e che ritrovasse se stesso se volevo avere anche solo una minima possibilità di stare insieme. Tutto ciò che potevo fare era aspettare e osservare la situazione.

Potevo darmi un termine, dopo il quale rinunciare alla possibilità di un suo ritorno… magari la fine dell’anno. Sapevo che sarebbe stato uno strazio, ma conoscevo anche bene il potere della speranza.

Guardai di nuovo la radiosveglia e vidi che segnava le 6:47. Era passata quasi un’ora da quando mi ero svegliato, l’ora più lunga della mia vita. La sveglia sarebbe suonata di lì a pochi minuti; sapevo che non sarei riuscito a dormire, ma potevo sempre sperare.

 

In quei tredici minuti ero riuscito, non so come, a schiacciare un pisolino. Mi svegliai di soprassalto e spensi la sveglia, mentre Nathan blaterava qualcosa e abbracciava di più il cuscino, rivolto verso la finestra. Stette immobile per un po’, poi girò la testa verso di me e aprì gli occhi. Sbatté le palpebre un paio di volte, fece uno sbadiglio e si mise supino, dopodiché si stiracchiò e si voltò ancora verso di me.

«Buongiorno», disse lui, con un sorriso da parte a parte.

«Ben svegliato.»

Il suo sorriso si ridusse appena. Poi venne verso di me, si abbassò, e provò a darmi un bacio. Io mi spostai appena proprio un attimo prima che posasse le sue labbra sulle mie. Il suo sorriso sparì del tutto. Mi fissava, e il suo sguardo si induriva secondo dopo secondo, finché il suo viso non assunse un’espressione accigliata. Sapevo che non l’avrebbe presa bene.

«Ah, quindi è così. Ieri non è successo niente per te. Che risveglio di merda.»

Si ributtò nella sua parte di letto e si rifugiò sotto le coperte, dandomi la schiena. Provai a sfiorargli una spalla, ma si scostò in modo brusco; ritirai la mano, non volevo farlo arrabbiare ulteriormente.

«Nathan…»

«Vaffanculo.»

Non sapevo bene che dire, perché non sapevo bene cosa stavo provando in quel momento. Non era stato gentile rispondere con così poco entusiasmo al suo “Buongiorno” ed era stato crudele rifiutare il suo bacio, ma avevo di nuovo paura, paura di essere travolto da quel ciclone che avevo davanti a me.

«Non… non è vero che non è successo niente, ieri sera.»

Lui si girò verso di me, con le guance rigate dalle lacrime e lo stesso sguardo duro che gli avevo visto poco prima.

«Ah no? Perché a me sembra che tu sia tornato a trattarmi come hai sempre fatto, con quell’aria da vorrei ma non posso. A questo punto puoi fare direttamente finta di non conoscermi, forse è più semplice.»

Si liberò dalle coperte e digrignò tra i denti un “Che stupido”, poi fece per uscire di scatto dal letto, ma lo afferrai per un braccio e lo bloccai.

«Aspetta, vieni qui. Vieni qui.»

Mi resi conto che avevo stretto un po’ troppo e lasciai la presa. Nathan alzò gli occhi al cielo, ma nonostante questo si sedette a braccia conserte e mise su un’espressione insofferente. Mi avvicinai a lui e mi sedetti vicino, e provai comunque a scusarmi, anche se di guardarmi non ne aveva proprio l’intenzione.

«Mi dispiace, Nathan, va bene? Ma finiremmo per farci del male, se mi comportassi come ho fatto ieri.»

«A me fa male anche così», rispose secco.

Faceva male anche a me. Essere tanto distanti dopo essere stati così vicini era frustrante, specie perché quello che aveva detto era vero: lo stavo trattando come avevo sempre fatto, con un muro tra me e lui per mantenere quella distanza di sicurezza che mi teneva al riparo da ogni dolore. Mi sembrava di aver fatto dieci passi indietro.

Osservai il suo viso illuminato dalle prime luci del mattino che filtravano dalle tende, e quell’espressione più incazzata che corrucciata mi fece pensare che forse avevamo perso tutto. Soffiai con un pizzico di rassegnazione.

«Quello che c’è stato tra di noi è stato bellissimo, Nathan. Ho solo paura di abituarmici, tutto qui.»

Lui reagì con una smorfia e flettendo appena le sopracciglia.

«Ho capito, ma mica significa che devi diventare uno stronzo.»

«Scusa», bisbigliai.

Più passavano i minuti e più mi sentivo in imbarazzo per come mi ero comportato. Sì, ero stato proprio uno stronzo, come diceva lui, perché avrei potuto spiegare invece di farlo sentire rifiutato in quel modo. Provai a mettermi nei suoi panni e mi sentii ancora di più uno schifo, in entrambi i ruoli.

Fissavo le mie mani senza alcun interesse, accarezzando la pelle e la sagoma delle unghie; poi nel mio campo visivo entrò anche la mano di Nathan, che si posò sulle mie. Alzai gli occhi e notai che il suo viso si era disteso, condito da un’espressione di dispiacere che mi spinse ad avvicinarmi per dargli un bacio. Per un attimo temetti che lo rifiutasse come avevo fatto io poco prima, ma lui non si scansò, non ci pensò nemmeno, e si lasciò baciare a fior di labbra più e più volte. L’ultimo bacio durò più a lungo e Nathan lo chiuse lento, staccando piano le sue labbra dalle mie, così come piano riaprimmo gli occhi. Ci guardammo per un attimo, o forse due, e fu sufficiente per sentire esplodere in me tutto ciò che avevo sentito per lui, che si manifestò con un battito accelerato e il desiderio di riavvolgere il nastro della vita alla sera prima, e vivere per sempre quelle ore che avevano azzerato ogni distanza tra noi.

Nathan si buttò su di me e mi strinse forte; io feci altrettanto e alzai gli occhi al cielo perché sapevo che quella era una strada senza ritorno. Sentire di nuovo il suo corpo tra le mie braccia, il suo calore o anche solo il modo in cui si incastrava col mio fu inebriante. Lo accarezzai come avevo fatto spesso in quelle ore e bastò quel gesto perché lui mi stringesse di più.

«Non mi trattare più in quel modo, ti prego. È stato orribile.»

Gli lasciai un bacio dove potevo, e un altro, e un altro ancora.

«Per un attimo ho pensato che mi avessi preso in giro per tutto questo tempo e che il tuo unico scopo fosse solo fare sesso con me. Mi hai spaventato. Non lo fare più, ti prego.»

A volte avevo la sensazione che Nathan fosse una bambola di cristallo, fragile e pronta a rompersi al minimo tocco. E poi ripensai a quella nostra prima volta e a quanto lo avessi visto vulnerabile - sì, avevo usato proprio questo termine. Mi resi conto che non era un aspetto che mostrava a chiunque e che con ogni probabilità aveva avuto paura di aver fatto un errore di valutazione. Mi sentii pessimo, più di quanto non mi sentissi già.

«Mi dispiace. Scusami.»

Ci cullammo in quell’abbraccio per qualche minuto, e il solo sentire il suo respiro o l’odore della sua pelle aveva l’effetto di rilassarmi, perché con lui tra le mie braccia mi sentivo in pace. Non avevo bisogno d’altro.

«Sono già le sette e venti», disse dal nulla.

Quelle parole mi fecero perdere un battito. Il tempo passava, che io l’avessi voluto o meno, e si mangiava, istante per istante, quel poco che stava rimanendo di noi. L’amore spesso non aveva un lieto fine, ed era una lezione che avevo imparato fin troppo bene.

Provai a tenere a bada ciò che mi suggeriva di fare il cuore e provai a ragionare col cervello. Più o meno funzionò.

«Allora è meglio se cominciamo a prepararci.»

Nathan mise il suo viso davanti al mio, ed eccolo lì… quel suo sorrisetto.

«Serve aiuto per la doccia?»

Entrambi trattenemmo una risata e vederlo sorridere di nuovo mi provocò una scarica di calore proprio all’altezza del cuore.

«Non se vuoi prendere quell’aereo.»

«Ma faccio il bravo, lo giuro. Promesso.»

Lo sfidai. Avevo proprio voglia di vedere se sapeva mantenere promesse di quel tipo.

 

Nathan fu di parola. La doccia andò liscia come l’olio e lui si limitò a lavarsi e lavarmi, senza alcun tipo di approccio interessato da parte sua. Si limitò solo a dire che non era mai stato così pulito come in quelle ore, battuta che mi divertì e mi fece anche un po’ arrossire.

Uscimmo dal bagno e rientrammo in camera per prendere vestiti puliti, ma quando mi voltai verso di lui e lo vidi nudo e illuminato dalla luce del giorno, mi resi conto che i momenti intimi tra di noi erano sempre stati prerogativa della notte. In quel momento, invece, era come se avessimo trovato il coraggio di uscire allo scoperto e di guardare in faccia ciò che ci univa, senza confortarci con la complicità del buio. Lasciai quindi scorrere il mio sguardo sul suo corpo, che solo in quel momento avevo l’opportunità di osservare meglio.

Era magro, anche se non in maniera eccessiva, ma avrebbe potuto comunque mettere su un paio di chili senza che nessuno se ne accorgesse; non aveva muscoli scolpiti ma il suo fisico era in ogni caso asciutto, tonico. Sul petto aveva solo una piccola scia di peli biondi che scendevano giù fino al pube a incorniciare la sua intimità, per poi infoltirsi sulle gambe lunghe e dritte, soprattutto sugli stinchi. Mi tornò in mente il suo racconto di quel tizio che voleva fotografargli i piedi - non avevo feticismi di quel genere, ma mi domandai che numero di scarpe portasse. Ci pensai un attimo e ipotizzai tra un quarantuno e un quarantadue, anche se forse la seconda opzione era più probabile. Sorrisi. Era davvero un dettaglio insignificante… eppure non è proprio di dettagli che vivono le relazioni più intime, di quei piccoli segreti degli amanti sconosciuti ai più?

Lo osservai di nuovo per intero e mi beccò a guardarlo, ma sembrava a suo agio, così come lo ero io.

«Stai pensando che sono stupendo?»

Lui si avvicinò a me, e mi venne spontaneo chiudergli le mie braccia dietro al collo.

«Questa volta sì.»

Mi cinse i fianchi con le mani, poi si avvicinò al mio collo e cominciò a leccarmi dal basso verso l’alto, con movimenti lenti e sensuali, forse perché voleva che mi immaginassi altro - e ci riuscì piuttosto bene.

«Stai fermo con quella lingua...»

«Quale? Quella che uso per leccare gelati

La fece scorrere ancora una volta dal basso all’alto, poi trovò il mio orecchio e cominciò a succhiarlo e mordicchiarlo.

«Nathan… Avevi detto che avresti fatto il bravo.»

«Oh, sì», rispose, e cominciò a lasciare un bacio dopo l’altro dall’orecchio fino a sotto il mento. «Ma io dicevo dentro la doccia», e si fermò ancora per dare altri baci. «Sul resto non ho specificato.»

Le mie mani si mossero da sole. Sciolsi quell’abbraccio con un colpo brusco e lo presi per i fianchi per invertire le posizioni, poi con uno scatto secco lo buttai sul letto, con sua somma sorpresa e un pizzico di compiacimento. Gli montai sopra e mi avventai sulla sua bocca, con la stessa voracità con cui l’avevo immaginato tante e tante volte.

Ci amammo in maniera graffiante, rude, quasi selvaggia. I nostri ansimi erano rumorosi, disallineati, le mie spinte convulse e profonde. Mi ficcò le unghie nella schiena ma al tempo stesso premeva coi piedi sulle mie natiche perché voleva di più, più forte, più violento, e io lo accontentavo ogni volta. E bastarono pochi minuti e un’occhiata perché lui si lasciasse prendere per i fianchi, i miei occhi che risalivano la sua schiena per poi chiudersi verso il soffitto, il cigolio del letto che accompagnava i nostri movimenti. Lasciai che le mie dita scorressero sulla sua pelle sudata e che affondassero nella carne quando il piacere si faceva più intenso e chiassoso, in un’eco di gemiti secchi e stonati. C’era irruenza nel mio possederlo e c’era abbandono nel suo lasciarsi fare, ma ci fu anche amore quando si rizzò e si torse per scambiarci un bacio umido, forse l’ultimo che ci saremmo dati in una situazione del genere, e che lasciò salde le mie mani sui suoi fianchi e portò il mio bacino a muoversi con più dolcezza. La sua bocca si separò dalla mia che rimase schiusa e ansimante, e lui sbatté le palpebre su quegli occhi lucidi, poi tornammo ad ascoltare i nostri istinti, in una sincronia di azioni e reazioni che lasciava fluire la consapevolezza di quell’ultima volta da me a lui, da lui a me.

Il terzo round si concluse senza che nessuno dei due avvertisse l’altro; lui venne e io lo seguii a ruota. Ero esausto, con un fiato tale che mi sembrava di aver corso la maratona di New York due volte. Crollai sulla sua schiena e gli lasciai dei baci tra le scapole, con quel leggero sapore di sale della sua pelle sudata. Mi rialzai, uscii da lui e Nathan si lasciò cadere sul letto, poi si mise supino, mentre entrambi cercavamo di riprendere fiato. I nostri sguardi si incrociarono e lui cercò di buttar fuori un po’ d’aria ridacchiando.

«Wow. Che scopata.»

«Già, proprio wow», risposi, e pensai che era la prima volta che avevo trovato il coraggio di farlo in maniera più rozza, più animalesca, riuscendo a considerarlo comunque romantico. E pensai anche che sarebbe stata l’ultima, almeno con lui. «Ti ho fatto male?»

Lui scosse il capo. Mi avvicinai e gli lasciai un bacetto a stampo, poi mi persi a guardare quegli occhi inteneriti e al contempo velati di tristezza. Nathan era veramente in grado di scardinare ogni mia convinzione, ma d’altronde era ciò che aveva fatto dal primo giorno. Lanciai un’occhiata al letto dove eravamo distesi e divenni consapevole che presto sarebbe diventato freddo, e che la notte successiva e quelle dopo ancora ci sarei tornato da solo. Non riuscivo a trovare le parole per descrivere la sensazione di aver avuto di nuovo qualcuno nell’altra piazza, specie se quel qualcuno era Nathan.

Ma non potevo e non volevo crollare in quel momento, non volevo cedere il passo all'egoismo e a ciò che provavo per lui. Forzai un sorriso e mi alzai da letto.

«Bene», aggiunsi senza tentennamenti. «Allora forse dovremmo prepararci. Per davvero, intendo.»

 

Passammo da casa di Nathan a prendere le sue cose, poi ci dirigemmo all’aeroporto dove ci coccolammo con una ricca colazione. Io avevo lo stomaco chiuso, ma mi sforzai di mangiare lo stesso, mentre lui ingurgitava di tutto e di più. Lo osservai avventarsi su quel cibo come fosse stata l’ultima cena, poi lui si accorse che lo stavo guardando e si fermò.

«Che c’è?»

Lasciai scorrere lo sguardo sui suoi occhi, il suo naso, la sua bocca unta. Avrei sentito la sua mancanza… e in quel momento sapevo che l’avrei sentita per un motivo in più.

Avvicinai un dito alla sua guancia e la sfiorai.

«Hai qualcosa qui.»

Non era vero, volevo solo toccarlo. Solo stringerlo tra le mie braccia, ma sapevo che non sarebbe stato più possibile. Mi tornarono in mente i maschioni della California. Oh, sì, ne avrebbe avuti a bizzeffe ai suoi piedi. Ed era giusto che ne approfittasse, per quanto quel pensiero mi facesse male. Era giovane, bello, passionale, aveva tutte le carte in regola per essere desiderabile. E in più quella sua testolina lavorava, e lavorava tanto, pensava, rifletteva, capiva più di quanto non capissero tante altre persone. Forse qualcuno si sarebbe lasciato spaventare da quelle sue qualità; ma ero certo che tanti altri le avrebbero apprezzate, così come le avevo apprezzate io.

Lasciai che continuasse la colazione e che il mio sguardo vagasse sul menù di quel bar, sulle luci, sugli altri tavoli, sul viavai di valigie e persone, perché non volevo che Nathan mi leggesse dentro come faceva di solito. Non riuscivo a essere davvero felice di quell’epilogo - per quanto fossi felice per lui - e non ero bravo nemmeno a nasconderlo, nonostante mi sforzassi; per questo mi aspettavo che da un momento all’altro mi riprendesse dicendomi che ero stronzo a non godermi gli ultimi attimi con lui e che potevo impegnarmi un pochino di più. Invece continuò a ingozzarsi di cibo e non disse niente di significativo, lasciando che il tempo passasse, in un’atmosfera di fibrillazione che riuscivo soltanto a fingere.

 

«Mi mancherai.»

          Nathan mi gettò le braccia al collo e lasciai che si cullasse nel mio abbraccio.

«Anche tu mi mancherai», risposi, quasi in maniera meccanica. La verità era che mi mancava già, e averlo così vicino non aiutava a rendere quel distacco più semplice.

Poco distante da noi c’era una famigliola che si stava salutando. I genitori stritolarono la figlia col suo gigantesco zaino in spalla per l’ennesima volta, poi osservai la malinconia negli occhi di loro mentre la ragazza si allontanava, pronta a partire per il suo viaggio. I due rimasero soli e si scambiarono un sorriso dolceamaro, poi lei lo prese per un braccio e si diressero chissà dove.

Nathan mi strinse un po’ più forte e io feci altrettanto. Gli accarezzai la testa, gli lasciai dei baci sulla guancia, e mi ricordò tanto, forse troppo, quello che era successo al Royale, prima e dopo l’aperitivo. Solo che quella non era la sua festa di addio… ma il suo addio e basta. Lo amavo, lo amavo come non credevo fosse possibile in soli due mesi, lo amavo così tanto da aver rimesso in discussione tutto. Lo amavo e avrei desiderato essere un pizzico più egoista, quel poco che bastava per cadere letteralmente ai suoi piedi come uno tra quei mille ragazzi e implorarlo di restare, di non lasciarmi. Lo amavo e non era giusto che finisse così, ma la giustizia non è cosa di questo mondo, sono solo eventi, casualità che si incastrano tra loro, che a volte combaciano e a volte saltano, pezzi di un puzzle che insieme sembrano perfetti e poi scoprono che il loro posto è altrove.

Ci sciogliemmo dall’abbraccio e trovai il coraggio di guardarlo, di lasciare che mi leggesse dentro, che forse anticipasse quel bisogno che avevo di lui e che dicesse solo “Ho cambiato idea, rimango, perché tu hai bisogno di me e io di te, e sarebbe un crimine separarci, non credi?”, senza farmi attraversare quella landa desolata di strazio e dolore dove avevo già camminato, sporco fino alle ginocchia, fino al busto, quasi fino a soffocare.

Non te ne andare, avrei voluto dirgli, farò di tutto per te, avrei aggiunto, mentre cercavo di trattenere quel groppo in gola che diventava troppo ogni secondo di più. Ti amo, avrei sussurrato col cuore in mano, e poi l’avrei detto di nuovo, più forte, anche gridando se necessario.

Ti amo, e gli piantai un bacio sulle labbra, mentre le mie mani accarezzavano i suoi fianchi, la mia bocca sentiva il suo calore un’ultima volta, in cerca di quell’aroma di tabacco che non c’era più. Svanito, come sarebbe svanito lui.

Quel bacio finì e mi imposi di non dargliene più, di darmi un freno. Provai a schiudere le labbra per dire qualcosa, quel qualcosa, mi allontanai da lui quel poco che bastava per non sentirlo più così vicino, forse mi sarebbe bastato far scivolare fuori quelle due parole e magari lui, chissà…

«Devo andare», sussurrò.

Con quei suoi occhi lucidi provò a sorridere, e io morii dentro. Tentai di sorridere anch’io, ma non mi venne bene, perché le mie labbra erano tese, a tratti tremavano, spaventate all’idea di confessare a Nathan ciò che provavo per lui e spaventate all’idea di perdere quell’occasione.

«Non mi auguri buona fortuna?»

Di nuovo forzò un sorriso, e mi sentii sciocco perché nei suoi occhi leggevo tristezza ma anche un pizzico di eccitazione per quella nuova avventura, e presto ci avrei visto anche delusione se non mi fossi deciso a mettere da parte il mio egoismo. Alla fine c’era solo una cosa che dovevo dirgli, perché gli avevo promesso la mia amicizia e il mio appoggio, e se c’era qualcosa che dovevo desiderare in quel momento era solo e unicamente la sua felicità. Tutto il resto non era importante, tutto il resto poteva aspettare.

«Buona fortuna, Nathan. Vai e spacca tutto.»

Lui rise per quella frase che di sicuro non era appropriata per l’Alan Scottfield che aveva conosciuto quel trenta luglio, ma che di certo lo era per quello che aveva lì di fronte, quello che ormai aveva condiviso più di un pezzo di cuore con lui.

«Lo farò, promesso.»

Il suo viso si rilassò e si lasciò sopraffare per il fremito di ciò che stava per vivere. Lui ormai era in California; io ero rimasto lì, nella Grande Mela.

«Ciao», disse lui, poi afferrò la valigia per il manico.

«Ciao.»

Le ruote della valigia cominciarono a fare rumore sulle piastrelle. Procedeva all’indietro e mi salutava col braccio alzato, così come facevo io. Poi la sua mano si abbassò. Prese la valigia con l’altra, mi diede un’ultima occhiata e si voltò verso i banchi del check-in, fiero verso la sua meta.

La mia mano continuò a salutarlo, poi perse vitalità e tornò accanto al mio corpo. Seguii i passi di Nathan con un’occhiata finché mi fu possibile; poi sparì nella calca di gente, persi di vista la sua valigia e pure la sua testolina bionda. Persi di vista tutto.

Dovetti resistere all’impulso di seguirlo, di corrergli dietro, perché più passavano i minuti senza di lui e più mi sentivo perso. Mi mancò l’aria e provai il desiderio di uscire, ma mi dissi anche che non potevo farlo, perché se fosse tornato indietro per un colpo di testa e non mi avesse visto avrebbe potuto pensare che non lo desideravo abbastanza lì accanto a me. Così rimasi, anche se l’aeroporto brulicava di persone e mi faceva soffocare, perché nessuno di loro era Nathan, perché nessuna valigia era la sua. Ogni rumore di ruote sulle piastrelle mi faceva voltare da una parte e dall’altra, ogni annuncio speravo lo riguardasse, ogni testa bionda mi faceva perdere un battito per poi pugnalarmi, e lo sentivo, sentivo il dolore di quella stilettata che affondava nella carne e lenta squarciava i tessuti, sentivo il mio corpo tremare, sentivo la voglia di urlare.

Sentivo quel senso di vuoto, sentivo l’impossibilità di ritrovare in altri ciò che era stato solo suo, un qualcosa di essenziale, vitale, un’astinenza che smaniavo di colmare lì, in quell’istante, in quel momento, subito, ma non sapevo come - non era possibile. Avrei dovuto imparare a convivere senza, a cibarmi dei ricordi, ad attendere che non fossero più così vividi e pulsanti, a ritrovare in altri tracce di lui. Sentii l’impulso di comprare un pacchetto di Marlboro per tenerlo con me, ma mi dissi che lo avrei fatto più tardi, perché se fosse tornato indietro…?

La cruda verità si abbatté su di me come uno scroscio di acqua gelida: nessun pacchetto di Marlboro mi avrebbe restituito Nathan, così come nessuna preghiera mi aveva restituito Oliver. Ero solo, di nuovo, a spostare lo sguardo ora a destra ora a sinistra in quella misera illusione che la situazione potesse cambiare, che Nathan potesse riprendere i pezzi del mio cuore infranto e rimetterli insieme come se non lo avesse mai spezzato.

Una voce dentro di me rise di gusto, come a farsi beffe di un sognatore che spera ancora in uno scenario migliore, e rise ancora, finché non nascosi il viso tra le mani e cominciai a piangere, e subito dopo a singhiozzare; un’altra voce dentro di me implorò l’altra di smetterla, di non distruggere le mie illusioni, di lasciarmi sperare ancora un po’ e di risparmiarmi tutta quella sofferenza, anche fosse stato per un minuto. Lasciai che le lacrime mi scuotessero per un tempo che non riuscii a quantificare, le mani sul viso che speravano di sentire un tocco caldo e familiare a consolarmi, un tocco che non arrivò mai. Quando i singhiozzi tornarono a essere solo respiri secchi e affannati, tolsi le mani e riaprii gli occhi, che poterono osservare solo il vuoto davanti a me. Nathan non c’era. Mi ero illuso di nuovo.

Gli strascichi di quel pianto si portarono via la risata nella mia mente e un pizzico delle mie illusioni, finché non rimase niente, né dell’una né dell’altro. Tutto ciò che restò fu un involucro col viso rigato dalle lacrime, un uomo che ancora una volta aveva il compito di chiedersi dove avrebbe trovato la forza per vivere un’altra giornata.

I miei occhi intravidero sullo schermo che l’aereo era decollato e qualcosa dentro di me si mosse. Sottovoce, piano piano, mi dissi che forse ci aveva ripensato all’ultimo minuto, che come nei film si era alzato all’ultimo momento, aveva sgomitato, lasciato tutti di stucco ed era sceso dall’aereo correndo a perdifiato da me.

Lasciai passare qualche minuto.

Sospirai.

Non lo aveva fatto.

 

La prima settimana dopo la sua partenza continuai a nutrire una certa speranza che potesse tornare di lì a poco. Magari il lavoro faceva schifo, o il clima, o i ragazzi del posto… e invece, dato che il mio telefono non aveva squillato neanche una volta, immaginai che dovesse essere tutto bellissimo, tutto come lo aveva sognato.

          Non lo avevo cercato neanch’io, non avrei saputo cosa dirgli. Le uniche parole che mi sembravano degne di essere pronunciate ora giacevano in una parte sempre più remota del mio cuore, e presto le avrei chiuse sottochiave per non farle uscire mai più.

          Il lavoro tornò a farmi buona compagnia. Anche Ash, tutto sommato. Si sforzava di essere amichevole con me, così come io mi sforzavo di apprezzare i suoi tentativi di starmi vicino, ma non serviva a granché. Mi sentivo ogni giorno sprofondare sempre più in quell’apatia che era stata mia compagna per tanti, lunghi mesi, solo che mi faceva molta meno paura. La conoscevo ormai, sapevo quanto in basso poteva trascinarmi, e sapevo anche come evitare che lo facesse.

          Un giorno di dicembre, proprio quando stavo per mettermi a dormire, ripensai a quella foto nel cassetto. Non lo avevo più aperto da quando avevo fatto l’amore con Nathan, non ce n’era stato bisogno. Ma quando rividi il viso di Oliver, mi salì l’istinto e la necessità di rimettere quella foto lì dov’era sempre stata, al suo posto sul comodino. E così ce la rimisi. E così ricominciai a parlarci.

          Natale era ormai alle porte. Sarebbe stato il secondo che avrei passato da solo, il secondo col cuore a pezzi, anche se per motivi diversi. I miei genitori mi avevano proposto di tornare a Brighton per le feste, nella speranza che il chiasso familiare potesse distrarmi un po’. Avevo accettato e comprato il biglietto di andata, e quasi esitato nel prendere quello di ritorno.

          Anche se mancava ancora qualche settimana, il mio pensiero volò alla fine dell’anno, e a quella scadenza silenziosa che avevo dato ai miei sentimenti per Nathan. Non che i sentimenti potessero avere davvero una scadenza, ma sapevo che non potevo continuare in quel modo in eterno.

          Allo scoccare dell’anno nuovo avrei messo da parte ogni speranza di un suo ritorno e avrei abbassato il sipario su quel fuoco di paglia che era stata la nostra relazione, che aveva fatto in tempo ad ardere giusto per qualche ora, prima di sgretolarsi e diventare cenere.

          Avrei cominciato a dimenticarlo. O, quantomeno, ci avrei provato.

          La neve cominciò a scendere e la osservavo cadere alla finestra, fiocco dopo fiocco, ogni volta che ne avevo l’occasione. Era lenta e ipnotica, mi assorbiva e non mi dava il tempo di pensare a nient’altro, se non a quei piccoli fiocchi che sembravano volersi rincorrere finché non cadevano a terra.

          … E intanto i giorni passavano…

 

 

Angolo autrice

Salve a tutti!

E siamo già arrivati al penultimo capitolo… non mi sembra quasi vero! Sono molto soddisfatta di come è uscito, spero sia piaciuto anche a voi :D E ovviamente non poteva mancare la punta di angst, perché sennò non sono contenta! Che dite? Nathan rimarrà per sempre in California o per questi due c’è speranza? Chissà… Si accettano scommesse :D

Ah, non c’entra niente, ma forse (FORSE) c’è la possibilità che a giugno faccia il mio primo viaggio a New York! Sono agitata ma anche emozionata, perché avrò l’opportunità di vedere dal vivo tanti luoghi di questa storia! E sono certa che se questa esperienza andrà in porto poi ritoccherò una marea di descrizioni nella speranza di renderle più realistiche.

Ringrazio come sempre tutti i lettori silenziosi e non (Alexandra, ti meriti una statua! XD), e ricordate che ogni commento è il benvenuto! Ahahah :D

 

Be’, a lunedì allora, con l’ultimo capitolo e un messaggio strappalacrime di chiusura <3

Simona

 

   
 
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