In camera di Heath,
Anna non aveva potuto utilizzare l’armadio,
che era troppo piccolo e per di più strapieno. Il piccolo
trolley rosa era
appoggiato sulla cassapanca, aperto.
Neena raccolse da terra una maglietta. La strinse un attimo tra le
mani e l’appoggiò sulla spalliera della sedia.
Con Isaias ne parlavano già da qualche tempo: quando Heath
fosse
andato al college, loro due si sarebbero trasferiti in questa stanza da
letto,
più piccola, e avrebbero affittato la camera matrimoniale ai
turisti in visita
nel parco. Isaias forse avrebbe potuto fare qualche extra come guida, e
i soldi
in più avrebbero fatto decisamente comodo.
La retta universitaria di Heath, per cominciare. C’era un
piccolo
tesoro da parte per lui ma non sarebbe comunque bastato, e Neena si
sarebbe
tagliata una mano piuttosto che privare il figlio della
possibilità di
studiare.
La casa non era pagata. L’assicurazione medica costava, oh se
costava, e loro erano tra i pochissimi fortunati, nella riserva, che se
ne
potevano permettere una decente.
C’erano molte cose che i turisti WASP non vedevano, quando
venivano a respirare la loro annuale boccata d’ossigeno al
Parco. Non si
rendevano conto di quello che avevano, nelle loro città
stressanti e piene di
smog. «Siete fortunati, voi, qui» cantilenavano,
guardando le montagne con la
faccia dolente. La nenia cominciava tre giorni prima della partenza e
finiva al
momento di rimettere in macchina le loro costosissime valigie; a quel
punto gli
smartphone già suonavano e ciao, tutto dimenticato. Vedevano
il verde degli
alberi secolari del parco, il cielo terso, le divise carismatiche di
Isaias e
dei suoi uomini. I colori e i tamburi della Sundance e le autentiche
perline
cinesi dei bracciali tradizionali Lakota. L’alcolismo, il
lavoro scarso o
inesistente, il diabete, le roulottes con il pergolato di lamiera
recuperato in
qualche cantiere dei bianchi, quelli non erano visibili nei dintorni
dell’area
sacra del pow-wow.
Di sicuro i turisti non si mettevano a contare le persone che
incontravano per le poche strade di Highwood. Quanti giovani oltre i
diciassette anni, quanti vecchi oltre i settanta.
Tutti quelli che potevano, alla riserva, si accaparravano uno dei
pochi posti di lavoro legati al Parco oppure se ne andavano. Quelli che
restavano si arrangiavano come potevano. Non sempre legalmente.
Nessuno si faceva un giro su Wikipedia, in vacanza, per
controllare quanto vivevano in media i gloriosi ex guerrieri delle
Grandi
Pianure. Pochi ricordavano che l’aspettativa di vita dei
nativi americani era
di una decina d’anni più bassa rispetto a quella
dei bianchi nella stessa zona.
Parole come «suicidio»,
«metanfetamina», «razzismo» non
si dovevano
pronunciare, durante le due disperate settimane di libertà
della classe media
delle grandi città.
I Riley erano stati molto, molto fortunati e lei, Neena –
«la
forte» – era una donna nata con la camicia. Figlia
e nipote di sciamani, era la
prediletta di suo nonno, l’unica che avesse qualche speranza,
diceva il
vecchio, senza specificare di che speranza si trattasse.
L’uomo aveva venduto
ai bianchi un pezzo di foresta perché lei potesse studiare.
Dopo, Neena aveva
potuto scegliere liberamente di vivere nel Parco, a fianco del suo
uomo: un
testardo orgoglioso arrivato da Mayaguez, Portorico, che al posto del
sangue
aveva nelle vene una gran voglia di riscatto, come tutta la sua
famiglia.
Se la cavavano abbastanza bene, ma di quei soldi in più
adesso
avevano davvero bisogno. Heath avrebbe fatto il salto: avrebbe avuto
più di
loro. Sarebbe andato avanti. Non sarebbero stati loro due a fermarlo, e
gli
avrebbero impedito di fare scelte autolesionistiche.
– Devo cominciare a buttare via roba.
– Non è urgente.
Non l’aveva sentito arrivare, Neena: quel suo enorme marito
poteva
essere delicato e silenzioso come un soffio di vento.
Isaias si sedette accanto alla moglie, sul letto, e la
guardò
dolcemente. Aveva già visto la scatola di cartone azzurro
che lei teneva tra le
mani. La trovava sempre, dannazione. Una volta Isaias l’aveva
chiusa nel
cassettone dei suoi maglioni, coperta da un pile, ma Neena
l’aveva trovata lo
stesso e l’aveva riportata nell’armadio in camera
di Heath. Era lì che doveva
stare, diceva. L’armadio era stato comprato per quello, e ora
scoppiava di
ciarpame e di ricordi.
– Non sai nemmeno se andrà al college. E non devi
buttare niente,
se non te la senti. C’è ancora posto nella rimessa.
Neena non rispose.
La scatola era di cartone pesante, a piccoli fiori azzuri e blu su
uno sfondo grigio chiaro.
– Io devo andare. Non pensarci adesso, non
c’è fretta.
Isaias le posò un bacio sui capelli, incerto se alzarsi e
lasciarla sola o restare a dividere un po’ di dolore con lei.
– Vai. Ti bevi il caffè con gli altri, prima del
giro.
Isaias si alzò piano e la baciò di nuovo,
stavolta sulle labbra.
Poi la lasciò sola coi fantasmi che gridavano per uscire
dalle vecchie scatole.
Butto via tutto.
Quante volte l’aveva detto?
Peccato che poi non avesse mai avuto il coraggio di
farlo.C’erano
due cartelline, una con l’ecografia che si era potuta
permettere grazie
all’assicurazione, l’altra con i biglietti di
congratulazioni che aveva
ricevuto quando, alla fine del terzo mese, aveva detto a tutti che era
incinta.
Perché da quel momento in poi era impossibile che qualcosa
andasse male,
giusto?
C’era il completo di lana azzurra che aveva sferruzzato
durante
l’attesa; non che fosse un’esperta di lavori
femminili, ma il coprifasce le era
venuto bene perché aveva una forma semplice e squadrata. Le
scarpine invece
erano piene di buchi e Isaias l’aveva presa in giro
tantissimo per quello. Due
sgorbi, davvero, ma ne era fiera: le aveva fatte e disfatte almeno
quattro
volte, e alla fine sembravano davvero scarpe in miniatura.
Poi c’era un ciuccio azzurro e delle bavette ricamate a punto
croce, non da lei. Quelle le aveva fatte Jenna. E le aveva regalato
anche il
cappellino con le orecchie d’orso che ora accarezzava.
Sembrava nuovo.
Lo strinse al petto, e le due piccole protuberanze rotonde le
fecere solletico al collo.
Tenere in braccio un bambino così piccolo, così
piccolo da
indossare quella roba, era come stringere il niente, l’aria.
I residui dei
sogni.
– Ma’? Perché quella faccia?
Il cuore fece un salto doloroso; Neena sentì le guance
incendiarsi
e le ci volle un attimo per essere in grado di rispondere. Come fosse
stata
colta in flagrante, a rubare.
Che pensiero assurdo.
– Oh, sei qui. Niente, ricordavo.
– Hai nostalgia di quando ero piccolo?
Neena avvampò di nuovo. Sedeva sul bordo del letto, le gambe
raccolte da una parte, il contenuto della scatola in bella vista, in
parte
disposto secondo un ordine misterioso – che parlava solo a
lei – sul copriletto
colorato.
– Ero davvero così piccolo? Incredibile.
– No, tu…
– Delle volte vorrei potermi sedere ancora in braccio a te.
Non mi
è piaciuto quando sono diventato troppo grosso per farlo.
E Heath si sedette sulle sue gambe e lei
l’abbracciò e protestò
per il peso, e rise nella sua maglietta che puzzava di sudore, ma
resistette.
Anche a lei mancava prenderlo in braccio.
Allora tutto sembrava più semplice. E lo era.
– Ehi, adesso basta. Mi stanno venendo i crampi.
– Ancora un minuto.
– Heath!
Allora lui rise, fece un paio di versi da bambino piccolo e si
attaccò al bordo della scollatura, e chissà se
l’aveva fatto consapevolmente o
se era stato un ricordo inconscio, una vecchia abitudine scritta dentro
di lui.
Avevo ancora il
latte.
– Questa roba però non l’avevo mai
vista. Credevo fosse tutto nel
cassettone in camera mia.
– Ora scendi, ragazzo. Mi stai bloccando la circolazione.
– Delle volte vorrei essere ancora piccolo.
– Se non scendi lo racconto a tutti i tuoi amici.
Neena lo strinse e restarono così, ma le gambe le dolevano e
da
qualche parte, nello stomaco, qualcosa premeva. Era come cibo avariato,
che doveva
uscirsene di lì per non farla più stare male.
– Vado a farmi una doccia.
– Non far fuori tutta l’acqua, devo farmela
anch’io.
Quando la porta dietro a suo figlio si richiuse Neena lasciò
scendere le lacrime.
Poi raccolse uno ad uno i frammenti della sua memoria e li ripose
dove dovevano stare, nella scatola con i fiorellini azzurri e blu; il
coprifasce sotto e poi le scarpine e le bavette e il ciuccio, la busta
dell’eco
e il cappellino con le orecchie d’orso. Li coprì
con la velina bianca che
doveva proteggerli dalla polvere.
Infine rimise il coperchio e ripose la scatola al suo posto, in un
angolo buio.
– …E siamo in vacanza per davvero, cazzo!
I Pearl Jam bucavano l’aria dalle casse e Tony, il
più grande dei
due Beckwith, si dimenava con una birra in mano. Julian, il fratello
piccolo,
si lasciò cadere sul divano letto accanto a Heath e
rovesciò un po’ di Coca
Cola sulla fodera.
– Fai attenzione, animale. Poi mia madre lo fa lavare a me.
Heath non aveva voglia di ridere e a dire il vero anche la musica
gli dava fastidio. Guardava un po’ nel vuoto e un
po’ sul display del telefono.
Essere impegnati con la scuola aveva i suoi lati positivi,
dopotutto. Le giornate adesso erano fin troppo lunghe. Avrebbe dovuto
pensarci
prima e trovarsi un lavoretto, ma con la faccenda degli esami finali
era
arrivato un po’ in ritardo; i soliti posti giù al
campeggio e in hotel erano
tutti presi.
– Nessuno di voi cazzoni mi darebbe una mano? È
più semplice se
non devo saltare continuamente da un lato all’altro.
Jaime era l’unico che faceva qualcosa. Si dava da fare sulla
moto.
Avevano deciso di montarci delle sacche laterali, così una
parte del bagaglio
per la gita a Grand Creek, che avevano in programma la settimana dopo,
l’avrebbe trasportato Heath.
Il quale si stava stufando persino dell’Harley.
E non provava più nessun tipo di attrazione per la gita a
Grand
Creek, dove era stato tipo almeno una volta al mese negli ultimi dieci
anni. E
il suo telefono doveva avere una maledizione perché aveva
smesso di suonare o
bippare o vibrare o a dare un qualsiasi segno di vita. Il mondo si era
dimenticato di lui.
Ma a chi vuoi
darla a bere, cretino?
Rivkah. Era Rivkah che si era scordata di lui.
Heath lanciò lo smartphone nella cassetta degli attrezzi che
aveva
vicino ai piedi, per tenerlo d’occhio. Il lupo stampigliato
sulla custodia
teneva d’occhio lui.
Allora non scherzava.
Tutte quelle stronzate della sera del ballo Rivkah le pensava
veramente.
Heath non ci capiva più niente. Non è che avesse
molta esperienza
di donne; anzi, non ne aveva proprio. C’era stata sempre e
solo Rivkah e un
paio di storielle senza importanza durante una delle loro pause, cose
dimenticate prima del giorno dopo, forse anche subito. Niente che
valesse come
esperienza.
Roba da farsi venire il mal di testa.
Il telefono vibrò e Heath sbirciò il display. Gli
altri tre
ragazzi sbirciavano lui. Si riappoggiò allo schienale, e
comunque non era
niente di niente. Solo una vignetta scema su uno che era appena stato
mollato
dalla ragazza e si faceva... Gliel’aveva mandata Julian
Beckwith.
Che era seduto accanto a lui col telefono in mano e se la rideva a
quattro ganasce.
– Sei un coglione.
– E tu sembri Romeo, un po’ più sfigato
però. Ma ti sei visto? Con
tutte le ragazze che ti potresti fare!
Tony alzò al massimo i Pearl Jam e Buck, che fino a quel
momento
era rimasto buono buono sdraiato sulle scarpe di Heath,
uggiolò, si coprì le
orecchie con le zampe, poi si tirò su e si
trascinò fuori. Heath lo vide
lasciarsi cadere a terra nel suo posto preferito al sole.
– Fanculo, Julian. Anche da parte di Buck.
Heath si alzò, spense la musica e, ancora più
pesante e svogliato
del lupo, lo seguì fuori e si sedette accanto a lui, per
terra. Mentre procedeva
con le solite grattate dietro le orecchie, le risate dei due Beckwith
gli
ricordarono quant’era ridicolo.
Doveva assolutamente trovarsi qualcosa da fare.
Almeno finché non fossero finite la guerra fredda con Neena
e
questa stupida situazione con Rivkah.
Perché sarebbe finita, vero?
– Posso… toccarlo?
Heath alzò gli occhi e si ritrovò davanti al naso
le ginocchie
ossute di Sacco d’Ossa; la ragazzina portava una maglietta
ridicola di Lady
Oscar e un paio di pantaloncini corti. Semivuoti. Heath
pensò alle cosce di
Rivkah.
Dalla rimessa arrivò una serie di latrati così
sguaiati che
perfino Buck tirò su la testa, seccato.
– Ma sì, Heath, faglielo toccare!
– Vuoi toccare il mio, piccola? Non fare complimenti!
– Silenzio, coglioni!
Questo era Jaime.
Sacco d’Ossa – Anna, doveva sforzarsi di chiamarla
Anna – si fece
più rossa di un semaforo. Le vennero gli occhi lucidi.
Si era fatta le trecce. Non era troppo grande, per le treccine?
Non le aveva ancora perdonato la faccenda della camera da letto,
però loro erano proprio una manica di idioti, lui compreso.
Forse era il caso
di scusarsi. Anche perché, se lei si fosse lamentata con
Neena, Heath avrebbe
passato un guaio. Un altro. Non ne aveva proprio bisogno.
Troppo tardi. Sacco d’Ossa era già scappata via.
Heath si lasciò cadere a terra di fianco a Buck, che gli
posò il
testone sulla pancia e sbadigliò.
Sarebbe stata una lunga, lunghissima estate.
Perfino Sacco d’Ossa aveva un lato positivo, a quanto pareva.
Le
cene erano diventate territorio franco: con i Charmaine a tavola, Neena
evitava
di toccare argomenti caldi.
Sacco d’Ossa guardava nel piatto, suo padre pendeva dalle
labbra
di Isaias, che raccontava qualcosa di epico sulla sua vita di
guardaparco, e
Neena si sforzava di fare conversazione.
– Allora, sei pronta per la gita? Hai tutto quello che ti
serve?
A Heath andò per traverso il boccone. Si mise a tossire,
sputacchiò e si trovò gli occhi di tutti puntati
addosso. Arrossì come una ragazzina,
e anche Anna arrossì.
– Vie… viene anche lei a Grand Creek?
– Di cosa stai parlando? Io dicevo di venerdì
prossimo. Arriva tuo
cugino William, non è magnifico? Andiamo tutti alla Cresta
dell’Orso, papà si è
preso il weekend libero.
– William Spina Nel Culo?
– Heath!
– Non conosco un altro Spina Nel Culo. Volevo dire, non
conosco un
altro William. L’hai invitato tu, vero?
Neena diventò rossa come un gambero. Ma perché,
perché sua madre
doveva sempre impicciarsi delle vite di tutti? Chiaro che aveva
invitato
William per un motivo. Forse sperava che facesse ragionare lui, lo
sciagurato
che non voleva andare al college. O magari voleva presentarlo alla
ragazzina
sociopatica?
Donald e Isaias osservavano con attenzione l’uno gli avanzi
di
purè, l’altro le decorazioni del lampadario. Heath
fronteggiò lo sguardo di
fuoco di sua madre e, dall’altro capo del tavolo, giunse una
risatina
soffocata.
Beh, almeno aveva fatto ridere Sacco D’Ossa.
Il cugino William aveva pochi anni più di Heath e per
fortuna era
un pezzo che non si vedevano. Il ricordo più simpatico che
aveva di lui era che
lo chiamava Spina Nel Culo. William allora diventava rosso dalla
rabbia,
correva a dirlo a mammina, mammina riferiva a Neena e Heath si beccava
una
punizione.
Dopo un po’ aveva preso a chiamarlo Spina per
comodità.
William aveva camminato a nove mesi, imparato a leggere a tre anni
e riassunto per iscritto Le avventure di
Tom Sawyer e Huckleberry Finn a sette. Non poteva che finire ad
Harvard, e
allora i suoi genitori si erano trasferiti nel Massachusetts, nel caso
il cucciuolo
avesse bisogno di loro. Era
stato davvero un grande dolore quando si erano trasferiti,
ossì.
Certochesssssì.
Cazzo, il Massachusetts era lontanissimo. Cosa cavolo ci veniva a
fare Spina a Highwood?
Il telefono emise un bip
che risuonò come una fucilata. Poteva essere Rivkah? Memore
di quanto era stato
sfottuto nel pomeriggio, Heath si trattenne. Contò fino a
dieci, si pulì
educatamente la bocca con il tovagliolo e chiese il permesso di
alzarsi.
Nessuno badò a lui, perché Isaias decantava la
bellezza del
paesaggio visibile dalla Cresta dell’Orso e le costine che
avrebbero cotto su
un fuoco acceso da lui.
Heath stabilì che l’Harley aveva bisogno di una
bella corsa, e lui pure.
Il messaggio era solo un promemoria della scuola: dovevano passare
a ritirare i diplomi.
L’aveva seguito.
Poteva essere? Sacco D’Ossa l’aveva seguito. Non
era passato molto
da quanto Jaime aveva smesso di seguirlo come un’ombra, e
adesso ci si metteva
lei?
Stava in piedi vicino all’ingresso della rimessa. La porta
era
spalancata ma lei se ne stava da parte, più fuori che
dentro, appoggiata a uno
stipite, come fosse indecisa tra nascondersi e mostrarsi. Come avesse
paura di
ostacolare il sole che, tramontando, entrava obliquo ad ammorbidire il
buio e
faceva brillare le cromature dell’Harley.
Heath finì di arrotolare il telo, poi fece rientrare il
cavalletto
e girò la moto verso di lei.
– Hai bisogno di qualcosa?
Lei scosse la testa.
– Bene. Allora io vado, eh?
Lei assentì. Non si muoveva. Lo fissava.
Perché non si levava dai piedi?
Heath aveva appena deciso che doveva parlare con Rivkah e aveva
bisogno di rifletterci su. In più non ci stava proprio
dentro, non poteva
mettersi anche a sopportare una tipa stramba di poche parole.
– Com’è quel… come
l’hai chiamato?
– Vuoi dire mio cugino William?
– Non l’hai chiamato così.
Anna Charmaine arrossì e si mise a ridere e poi nascose la
faccia
tra le mani e senza guardarlo pronunciò «Spina Nel
Culo» come se dirlo lo
costasse fatica, come fossero parole di una lingua straniera difficili
da
imparare; tra le dita e i sussulti lievi della risata repressa
diventò ancora
più rossa e Heath si ritrovò a scoppiare a ridere
anche lui. Si stava
rincretinendo, i ragazzi avevano ragione. Come dicevano? Chi va con lo
zoppo…
Dio quant’era ridicola. Si vergognava per lei.
Adesso
penserà
che la trovo spiritosa.
– Senti, cancella tutto, non voglio mica influenzarti. Mio
cugino
è… figo. Vedrai. Ti piacerà tantissimo.
– Lo pensi davvero?
Spalancò gli occhi mentre lo diceva e si coprì la
bocca con le
mani, e la pelle lentigginosa si chiazzò di rosso sul collo.
– Di… di che colore sono i suoi occhi?
Eee pure questo
problema hai, Sacco D’Ossa.
– Non hai mai avuto un ragazzo, vero?
Anna sbarrò gli occhi e assentì.
– Mia madre dice che è pericoloso.
Heath alzò un sopracciglio.
– Chiedi il permesso alla mamma per avere un ragazzo? Non
è
pericoloso, fidati.
Adesso
penserà
che me la voglio fare. Complimenti, scemo.
– Mi ha spiegato. Mia madre mi ha spiegato.
Ma perché diavolo raccontava a lui quelle cose?
– Anna? Anna, tesoro, dove sei? Ah, eccoti.
Ecco fatta la frittata. Donald Charmaine non avrebbe dovuto
beccarli insieme dentro la rimessa.
– Grazie della chiacchierata. Scusatemi, ci si vede.
– No, Heath, non volevo disturbarvi, non devi andare
e…
Certo che doveva andare, e alla svelta anche.
Il tempo di saltare sulla moto e li mollò nella rimessa, e
che si
accomodassero pure sul divano, se credevano.
Le stelle dell’estate si erano accese e la moto scivolava
come su
velluto blu notte. Buck non si vedeva. A Heath parve che un latrato lo
salutasse, ma l’aria era troppo carica di profumi per poter
resistere ancora e
forse il suo amico aveva trovato qualcuno con cui correre.
Qualcuno che non era lui.
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