Sei
Si
appoggiò allo stipite della porta, attenta a non fare alcun
rumore.
Sua
madre falciava
a grandi passi lo spazio fra
l’armadio il
letto
matrimoniale, e poi all’inverso, e intanto
borbottava
improperi in spagnolo. Ad ogni viaggio, l’enorme valigia
rossa si
riempiva di nuovi effetti personali.
«Mamá?»
La
chiamò e lei si bloccò a metà strada,
con un carico di camicie di
seta tra le sue braccia. Anche con gli occhi arrossati dal pianto,
era la donna più bella che Courtney avesse mai visto.
«Stai
andando via?»
Non
era la prima volta che lei e papà litigavano. Il copione era
sempre
lo stesso: si accusavano a vicenda di cose terribili, si riempivano
di insulti fino a perdere la voce, e infine lui andava via per un
paio d’ore, premurandosi di sbattere per bene la porta,
mentre lei
si chiudeva in camera a preparare i bagagli. Non appena calava la
sera, era come se nulla fosse mai successo.
Stavolta,
Courtney sapeva già che la risposta alla sua domanda sarebbe
stata
affermativa. C’erano state parole più pesanti del
normale e suo
padre aveva alzato le mani – aveva sbirciato la scena dalle
scale,
trattenendo un urlo di terrore nell’istante in cui
l’aveva
colpita sulla guancia.
«Sì,
mi
vida»
mormorò, sistemando i panni in un angolo della valigia.
«Voglio
venire con te.»
La
guardò teneramente, prima di avvicinarsi e di chinarsi verso
il suo
volto.
«Non
ora. Qui hai la scuola, i corsi extracurricolari, e sia io che
papà
vogliamo che termini gli studi. Un domani, sarai libera di
scegliere.»
Poi,
la abbracciò.
«Olvidame,
mi vida»
le disse fra un singhiozzo e l’altro. «Sei
l’unica ragiona per
cui non sono andata via anni fa, e mi spezza il cuore abbandonarti,
ma non riesco più a stringere i denti e subire.»
Dal
lato opposto, non ci fu nemmeno una lacrima. Avrebbe capito quella
scelta solo da adulta, ma allora non poté fare a meno di
serbarle
rancore. Non riusciva a credere che volesse davvero lasciarla
lì.
«Mi
fai una promessa?» le domandò
all’orecchio. «Mi prometti che non
ti accontenterai mai? Che farai sempre il possibile per essere felice
e stare in pace con te stessa? Non voglio che tu finisca come
me.»
«Sì,
mamá»
affermò, senza avere una chiara idea di cosa le avesse
realmente
promesso.
Anche
quelle parole le avrebbe capite solo da adulta.
[
Sabato
24 aprile – Toronto, Ontario
]
«Allora?
Quand’è che avresti intenzione di
parlarmene?»
«Parlarti
di cosa?»
Il
riflesso di Heather nella specchiera teneva la piastra in una mano e
una ciocca dei suoi capelli nell’altra; le stava lanciando
uno
sguardo piuttosto eloquente, non riusciva a capire se stesse
scherzando o meno.
«Della
sfilza di messaggi disperati che mi hai mandato stanotte,
naturalmente!» esclamò, prima di riprendere il suo
compito.
«Ricordi? Quelli in cui ammetti di provare qualcosa per lo
scappato
di casa con cui hai viaggiato? O vogliamo far finta che nulla di
questo sia mai successo?»
Era
proprio ciò che Courtney intendeva fare.
Quella
mattina era stata svegliata da un invitante odore di uova
strapazzate, che Scott le aveva preparato con tanto amore assieme ad
una spremuta di arance. Avevano fatto colazione, seduti l’uno
affianco all’altra sul divano, e lei gli aveva raccontato le
avventure degli ultimi giorni, glissando completamente sugli
avvenimenti di Niagara Falls.
Non
aveva pensato a Duncan nemmeno per un secondo. Non aveva riguardato
per l’ennesima volta le loro foto, né aveva
riascoltato il vocale
in cui le confessava i suoi sentimenti. Non gli aveva dato il
buongiorno e non lo aveva chiamato per fargli l’in bocca al
lupo.
Avrebbe voluto fare ognuna di quelle cose, ma si era imposta di non
cedere – non le era nemmeno risultato troppo difficile. In
fondo,
aveva passato quasi tutta la sua vita a non cedere alle tentazioni.
Così
com’era entrato, doveva uscire dalla sua vita:
all’improvviso e
il più in fretta possibile.
Con
gli anni aveva imparato quanto fosse fondamentale il tempismo, e loro
si erano conosciuti nel peggiore dei momenti. Gli ultimi mesi avevano
messo a dura prova la sua salute mentale, aveva faticato a tenere
assieme i pezzi, e ciò di cui aveva bisogno era equilibrio.
Non
l’avrebbe mai trovato in lui, avevano esigenze troppo
diverse, che
nemmeno i sentimenti avrebbero potuto annullare.
Doveva
andare così.
«Non
c’è nulla da dire. Ero ubriaca, non intendevo
nessuna delle cose
che ho scritto.»
«Sicura?
Perché, se hai dei ripensamenti, questo è il
momento di
esternarli.»
Non
c’era stato un solo attimo in cui avrebbe voluto giurare
amore
incondizionato ed eterna fedeltà a Scott. Ma, nella costante
lotta
con se stessa, ad avere la meglio era sempre l’urgenza di
apparire
perfetta, crogiolandosi nella zona di comfort che si era creata con
duro lavoro e sacrifici, a discapito della sua felicità.
Avrebbe
voluto continuare a prendere lezioni di canto, avrebbe voluto
lasciare giurisprudenza per andarsene oltreoceano a studiare
criminologia, avrebbe voluto dare una chance a lei e Duncan. Quello,
però, non era il sentiero più comodo, non era la
via che gli altri
si sarebbero aspettati che percorresse.
Dunque,
aveva stretto i denti e continuato a soddisfare le loro aspettative,
nella ricerca costante di quei valori che le erano stati presentati
come ideali, con la speranza che un domani avrebbe potuto dirsi
appagata al cento per cento.
Doveva
andare così.
«Ne
sono sicura.»
Heather
annuì.
Non
si parlarono per i minuti successivi.
Courtney
ne approfittò per constatare quanto la sua amica stesse
facendo un
ottimo lavoro. I capelli, che spesso teneva raccolti per
comodità o
perché non aveva abbastanza tempo per lavarli, avevano
assunto una
forma ben definita e le ricadevano morbidamente sulle spalle. Il
trucco leggero le accentuava in maniera naturale i connotati,
alimentando l’illusione che la sua pelle fosse priva di
imperfezioni, quando in realtà era servito più
correttore del
necessario per nascondere le borse sotto gli occhi. A farla sentire
ancora più bella, ci pensava il vestito color champagne,
semplice ma
impreziosito da gioielli dorati, e che metteva in risalto i risultati
della sua dieta.
Un
raggio di sole le squarciò il viso. Mancava poco al tramonto
e,
fuori, il cielo si era tinto di rosa pallido.
La
camera d’albergo ridava sul lago. Non c’erano
nuvole
all’orizzonte, cosa inusuale per essere fine aprile, e, se
avesse
aguzzato lo sguardo, avrebbe potuto scorgere le spiagge di Centre
Island, dove l’indomani si sarebbe tenuta la cerimonia.
L’ansia
le strinse la bocca dello stomaco. Non dovette nemmeno applicarsi per
ignorarla.
Qualcuno
bussò. Heather spense la piastra, quasi la lanciò
sulla specchiera
e, mentre uno sbuffo lasciava le sue labbra, varcò
l’anticamera a
grandi passi, aprendo la porta quanto bastava per affacciarsi sul
corridoio.
«Non
siamo ancora pronte» sbottò in direzione di una
figura più alta di
lei.
«Sono
passato a salutare la futura sposa» si scusò una
voce maschile
dall’inconfondibile accento latino. «Due minuti e
tolgo il
disturbo.»
Courtney
allungò il collo al di là della lunga chioma
corvina dell’amica,
alla ricerca degli occhi smeraldo di Alejandro. Li trovò, e
in essi
erano riflessi un sorriso che sapeva di sicurezza.
S’incontrarono
a metà strada; lei si alzò sulle punte per
abbracciarlo meglio.
«Eres
muy hermosa»
le sussurrò all’orecchio.
«Gracias»
mormorò in risposta.
Sarebbe
stato bello se si fosse sentita pure felice.
*
* *
«Quello
sarebbe
il discografico? Sul serio?»
Duncan
ritirò il braccio dietro le quinte del minuscolo
palcoscenico, e
rigirò il tablet in modo tale da riprendere la sua faccia.
Dall’altra
parte dello schermo, Geoff e Bridgette erano seduti sul divano del
loro appartamento, stretti l’uno affianco all’altra
per entrare
meglio nell’inquadratura. Non era di certo un metodo
ottimale, ma
almeno avrebbero potuto assistere al concerto da ottocento chilometri
di distanza.
«A
quanto pare» rispose con una scrollata di spalle.
Dalla
voce profonda con cui aveva parlato al telefono, si era figurato un
uomo di mezza età in giacca e cravatta, che nella sua
carriera
decennale doveva aver sentito ed esaminato migliaia di band come la
loro. Invece, a presentarsi e stringergli la mano con vigore, era
stato un suo coetaneo dai capelli castani raccolti in un codino, la
barba incolta e abiti oversize.
In
un’ipotetica folla accalcata sotto a un suo palco, di
individui del
genere avrebbe potuto scorgerne a bizzeffe; ciò,
anziché
rassicurarlo, l’aveva mandato in paranoia.
Nello
stanzino adibito a camerino, la tensione era palpabile. Chase era
immobile nel suo angolino e teneva la testa ricurva sulla punta delle
scarpe; la zazzera di ricci scuri gli impediva di scorgere la sua
espressione. Nell’angolo opposto, Ziggy giocherellava con uno
dei
tanti braccialetti sul suo polso sinistro, e borbottava a denti
stretti la stessa litania – forse una preghiera, forse una
scarica
di bestemmie – da circa un quarto d’ora. A pochi
passi di
distanza, Cole, il batterista, ripassava freneticamente le partiture
con delle bacchette immaginarie, senza curarsi dei ciuffi biondi
sfuggiti dalla bandana e incollati col sudore sulla sua fronte.
Avevano
suonato assieme centinaia di volte, ma non li aveva mai visti
così
agitati. Pure loro sentivano la schiacciante pressione di dover
convincere qualcuno che, con ogni probabilità, usufruiva di
quel
genere di musica un giorno sì e l’altro pure, e
che per forza di
cose sarebbe stato più esigente del normale.
Si
sentì in dovere di intervenire, di improvvisare un discorso
di
incoraggiamento. Rimase con la bocca spalancata per qualche secondo,
prima di richiuderla e assottigliare le labbra in una smorfia.
«C’è
qualcosa che non va?»
Il
tono preoccupato di Bridgette gli rimembrò di essere ancora
in
videochiamata.
«È
tutto a posto» rispose, puntando gli occhi sullo schermo e
incurvando gli angoli della bocca in un sorriso poco convincente.
«Solo un po’ d’ansia da
prestazione.»
A
dire la verità, Duncan non ci stava con la testa.
Fisicamente era
lì, dietro le quinte di un palco, consapevole che quella
serata
avrebbe potuto svoltare le sorti della sua carriera, ed intenzionato
a dare il massimo. Mentalmente, però, non si era smosso
dall’istante
in cui Courtney aveva appoggiato le labbra sulle sue.
Quando
le aveva detto di cercarlo, semmai l’indomani non avesse
cambiato
idea, il suo cervello era annebbiato dall’alcol e dal
desiderio,
eppure intendeva ogni singola parola di quella frase, a tal punto da
convincersi che, anziché dai soliti sintomi post-sbornia,
sarebbe
stato svegliato da una sua chiamata.
La
giornata era trascorsa veloce, il cellulare aveva suonato
più volte,
ma mai per annunciare un cenno da parte sua. Minuto dopo minuto, era
divenuto sempre più chiaro che aveva fatto la sua scelta e
avrebbe
dovuto rassegnarsi – e ciò fece più
male del previsto.
Non
aveva mai provato tutte quelle sensazioni contrastanti. Si era illuso
che potesse essere l’inizio di una bella storia, sebbene le
possibilità che essa avesse potuto realizzarsi erano sempre
state
esigue, se non pari a zero. Eppure, il pensiero che
l’indomani lei
avrebbe sposato un altro uomo lo infastidiva, gli provocava un moto
di quella che era a tutti gli effetti gelosia – ma, ehi!
Che diritto aveva lui di essere geloso?
A
dir la verità, non sapeva nemmeno cosa provasse realmente
per
Courtney – o meglio, non voleva accettarlo, perché
aveva provato
qualcosa del genere solo per un’altra persona, e quella non
s’era
fatta scrupoli a rimpiazzarlo alla prima occasione buona.
E,
se non poteva averla, tanto valeva reprimere quel sentimento senza
sforzarsi di dargli un nome. Non era sua intenzione aggiungere
un’altra cicatrice alla collezione, non quando
l’ultima non s’era
nemmeno rimarginata del tutto.
«Beh,
ci credo!» intervenne Geoff. «Ti stai per giocare
il tutto per
tutto!»
La
gomitata che gli assestò Bridgette sullo stomaco lo fece
rantolare
per un po’.
La
porta del camerino si aprì con un cigolio; quattro paia di
occhi si
mossero di scatto.
Il
loro manager li guardò uno per uno, con un sorriso che
voleva
indurre conforto, prima di aprire bocca.
«Dieci
minuti e siamo pronti. Forse i tuoi amici vogliono lasciarti il tempo
di prepararti a dovere?» chiese in direzione di Duncan,
indicando il
tablet con un cenno del capo. Dopodiché, sollevò
il braccio destro,
in cui teneva un enorme mazzo di fiori, e aggiunse: «E questi
sono
per te.»
Non
prestò attenzione alle ultime rassicurazioni di Geoff e
Bridgette,
né al breve discorso motivazionale del manager. Si era
incantato a
guardare le camelie, incartate in un foglio di tessuto blu notte.
Incastrati nel fiocco che le teneva assieme, vi erano una singola
sigaretta e un talloncino di carta, su cui era scritto il suo nome in
un corsivo elegante.
Una
risata gli rimase incastrata fra le corde vocali. Fra tutti i
momenti, Gwen aveva deciso di farglieli recapitare nel peggiore di
tutti – o nel migliore. Dipendeva dai punti di vista.
Aspettò
che la stanza ripiombasse nel silenzio. Poi, accertatosi che i suoi
colleghi non stessero ficcanasando, sfilò il biglietto dalla
sua
busta e cominciò a leggere.
Una
Marlboro rossa e un mazzo di camelie – simbolicamente,
l’inizio e
la fine della nostra relazione. Mi sembrava il modo più
adatto per
darle una degna conclusione.
Non
c’è molto altro da dire, se non che mi dispiace.
Spero che un
giorno tu possa perdonarmi.
Buona
fortuna per stasera e buona vita.
Gwen
*
* *
Tutto
era come se l’era immaginato.
La
sala era piccolina, asettica, ed elegante. Il
pavimento lucido, le tovaglie, ogni singola decorazione –
tutto era
fra i toni del banco e del beige, il che a lungo andare avrebbe
potuto nauseare.
A dar colore, ci pensavano le splendide composizioni floreali
posizionate al centro di ogni tavolata. Dulcis in fundo,
l’atmosfera
era animata dal
complesso di musica leggera messo in dotazione dal hotel.
Talmente
perfetto da sembrare un sogno. Il sogno di qualcun altro.
La
serata era a malapena alle battute iniziali e Courtney aveva
già
dovuto salutare e ringraziare gli invitati uno per uno, tenendo la
mano sudaticcia di Scott, che di tanto in tanto si chinava per farle
un complimento o per stamparle un bacio sulla guancia. Aveva dovuto
sopportare le lacrime di commozione e le reazioni esagerate dei
parenti messicani, girare su se stessa svariate volte per farsi
ammirare in tutto il suo splendore, ed evitare di rispondere a tono
alle provocazioni della suocera, che non l’aveva mai vista di
buon
grado per via della sua classe sociale.
Heather,
che non l’aveva persa di vista nemmeno per un secondo,
sottolineò
con un sorrisetto mellifluo che nemmeno erano stati serviti gli
antipasti, e la sua reazione spontanea fu di vuotare il bicchiere di
spumante di fronte a sé con un solo sorso, sotto lo sguardo
attonito
degli altri seduti a quel tavolo – Alberta coi suoi bambini,
Alejandro, e naturalmente il suo futuro sposo. Il cameriere
passò di
nuovo a riempirle il bicchiere qualche istante più tardi,
intimandole con voce sottile e vago imbarazzo che fosse per il
brindisi.
Si
girò immediatamente verso il suo testimone, con
l’intento di
dissuaderlo dal pronunciare le parole che gli aveva chiesto di
scrivere per l’occasione – era l’ultima
cosa di cui aveva
bisogno, sentirlo mentre millantava idiozie sulla sua splendida e
purissima storia d’amore.
Egli
era in piedi e, prima che avesse potuto tirarlo per la manica della
giacca e costringerlo a risedersi, aveva richiamato
l’attenzione
dei presenti battendo il lato della forchetta sul calice di vetro.
Colse
solo i punti salienti del bel discorso, che stava facendo emozionare
anche i cuori di pietra – due persone all’apparenza
opposte ma
complementari, una relazione idilliaca basata su sentimenti genuini e
fiducia reciproca, Courtney non è mai stata così
serena come nei
due anni passati al fianco di Scott. Tutte stronzate, insomma.
Ebbe
come la sensazione che l’anello attorno
all’anulare, più stretto
e opprimente del solito, le stesse bloccando la circolazione
sanguigna. Con la coda dell’occhio, controllò che
non ci fosse
nulla di anomalo; successivamente, si diede della stupida per aver
assecondato quel frangente di irrazionalità.
Due
cose erano ormai lapalissiane. Uno, se era riuscita ad ingannare
anche coloro che la conoscevano come le proprie tasche, doveva essere
una bugiarda da far invidia al migliore degli attori. Due, mentire
era sfiancante, e non era sicura che sarebbe stata in grado di farlo
“finché
morte non vi separi”.
Alejandro
non aveva ancora chiamato il brindisi, quando si alzò in
piedi. La
sala rimase coi bicchieri sospesi a mezz’aria,
nell’attesa che
aggiungesse qualcosa. Ma, le sue labbra rimasero sigillate, il
silenzio stava diventando schiacciante e qualcuno cominciò a
comprendere che non sarebbe seguito nulla di buono.
Se
si fosse guardata attorno, si sarebbe accorta degli sguardi carichi
d’astio che i genitori, la sorella e svariati parenti di
Scott le
stavano rivolgendo; non parevano troppo sorpresi, era esattamente
ciò
che si aspettavano da una come lei. Pure suo padre e la sua matrigna
non le staccavano gli occhi di dosso, confusi dalla situazione e a
tratti preoccupati. Avrebbe trovato più conforto in Heather
e
Alejandro, entrambi incapaci di indorare la pillola, ma che mai
l’avrebbero giudicata per le sue scelte, e non avrebbero
osato
nemmeno in un momento tanto critico.
Courtney,
però, non considero nessuno di loro. Rivolta verso un tavolo
alla
sua destra, guardava con insistenza sua madre – incredibile,
pensò:
pure con qualche capello bianco e le rughe d’espressione era
la
donna più bella che avesse mai visto.
Anche
lei la stava guardando, con un timido sorriso di incoraggiamento
dipinto sul volto, e seppe subito che anche la sua mente era corsa a
quello specifico ricordo, a ciò che le aveva promesso il
pomeriggio
in cui era andata via di casa.
Mi
prometti che non ti accontenterai mai?
Fu
allora che qualcosa scattò.
Nessuno
aveva chissà quali aspettative su di lei, se non lei stessa.
Ergo,
non doveva dimostrar loro di avere costantemente in mano le redini
della sua vita.
Il
successo e la perfezione non erano tutto ciò che importava,
né le
uniche strade verso la tanto ambita stabilità.
Gli
ultimi tre giorni erano stati un’avventura memorabile, e non
immaginava che a quasi trent’anni, con un bel fardello di
responsabilità gravante sulle sue spalle, fosse ancora
possibile
provare cotanta spensieratezza – e non voleva più
privarsene.
Fece
un respiro profondo e abbassò il capo, individuando il
proprio
riflesso negli occhi grigi di Scott. Non vi colse nessun tipo di
reazione.
«Mi
dispiace.»
Lui
non proferì parola, né si mosse, permettendole di
recuperare la
borsa e il cappotto appesi allo schienale della sedia, e di
precipitarsi fuori di lì, sotto i versi stizziti e i
commenti
borbottati a denti stretti, facendo attenzione a schivare
l’orda di
camerieri che stava portando gli antipasti.
Courtney
non si voltò fino a che non fu nel parcheggio del hotel e la
voce di
Scott non le giunse alle spalle, distante, quasi fosse
un’allucinazione.
Era
davvero lì, qualche metro più indietro, nel
completo nero che gli
aveva regalato per il loro primo anniversario. Non aveva alcuna
intenzione di fare una sceneggiata, o di supplicarla a tornare
dentro. Era stoico, oserebbe dire rassegnato.
«Cos’è
cambiato?»
Tutto,
fu la risposta immediata.
«Nulla»,
fu quello che disse. «Ho solo realizzato un po’ di
cose in queste
ultime settimane.»
«Hai
realizzato che non mi ami.»
Scosse
il capo.
«Non
quanto tu ami me.»
Lui
schioccò la lingua contro il palato.
«Capisco.»
L’evidente
delusione sul suo volto la mise a disagio. Avrebbe volentieri girato
i tacchi e messo fine a quella sofferenza, ma sapeva che gli doveva
una spiegazione più esaustiva, una degna conclusione per
quegli anni
in cui l’aveva posta davanti a tutto e tutti.
«Ho
provato a restituirti, fin dove il mio carattere cinico me lo
permetteva, almeno un decimo di quanto mi hai dato. Mi sono sforzata
perché ero consapevole che me ne sarei pentita, se ti avessi
fatto
scappare. Mi dispiace di non esserci riuscita.»
Si
avvicinò di qualche passo, sotto lo sguardo vigile di Scott,
il cui
guscio di indifferenza stava crollando di secondo in secondo.
«Sarebbe
da egoisti obbligarti a stare con me. Mi troverei in un perenne stato
di insoddisfazione e, a lungo andare, contagerei pure te. Meriti
qualcuno che possa renderti davvero felice.»
Con
lentezza disarmante, si tolse l’anello di fidanzamento e,
tenendolo
fra il pollice e l’indice, glielo stese.
Egli,
titubante, lo prese e lo porse in uno dei taschini interni della
giacca, quello destro. Boccheggiò diverse volte, prendendosi
il
tempo di formulare una risposta adeguata – non era mai stato
un
tipo di molte parole, lui.
«Non
sei cinica» affermò, dopo un silenzio che parve
infinito. «E anche
tu meriti di essere felice. Mi dispiace che non possa essere con me,
ma imparerò a farmene una ragione.»
Venne
spontaneo colmare i pochi centimetri fra di loro e, stretti in un
abbraccio, concedersi un altro minuto per dirsi addio. Courtney
inspirò a fondo, inalando il forte odore del suo dopobarba
che aveva
sempre detestato, ma che forse un po’ le sarebbe mancato.
«Sei
stato davvero il partner perfetto» mormorò, con il
mento poggiato
sul suo omero sinistro.
«Buona
fortuna per tutto» le augurò Scott, prima di
lasciarla andare.
L’attimo
dopo era accasciata sul sedile della sua macchina, ancora stordita
dall’accaduto e con l’adrenalina le pompava nelle
sue vene.
Buttò
fuori tutta l’aria che aveva incanalato nei polmoni, come se
fosse
stata in apnea per tutto quel tempo, di preciso da quando aveva
deliberatamente mandato a monte le sue nozze. Non riusciva a credere
di aver trovato il coraggio di farlo sul serio.
Neanche
il tempo di realizzare, che l’adrenalina aveva già
lasciato spazio
al panico. Non
riusciva a credere di aver trovato il coraggio di farlo sul serio!
Rimase
pietrificata, con le mani stette attorno al volante e lo sguardo
vacuo. Non aveva preventivato nulla di tutto ciò –
seguire il suo
istinto e un consiglio che le era stato dato quasi due decadi fa
–
e adesso la sua gola era raschiata da centomila piccoli spini,
stretta in un groppo che era frutto non solo di un totale senso di
smarrimento, ma anche della consapevolezza che era troppo tardi per
pensare a finali alternativi, perché non poteva comunque
cancellare
le sue azioni.
Sentì
gli angoli degli occhi pizzicare, ma non voleva che le lacrime
rovinassero lo splendido lavoro di Heather, e nemmeno poteva
permettere ai pensieri negativi di approfittare della quiete per
prendere il sopravvento, di sgusciare fuori dal loro angolino e
minacciare di intaccare il suo ultimo briciolo di autocontrollo. Se
avesse ceduto, sarebbe seguito un attacco d’ansia di
proporzioni
epocali, che non avrebbe portato altro se non ulteriore stress.
Le
sue dita corsero alla manopola della radio, che rispose alla chiamata
d’aiuto nel modo più beffardo, più
bastardo, e più efficace
possibile.
Intanto
che le note di Drive By riempivano l’abitacolo, fu
catapultata a
New York, al traffico e alla pioggia incessante,
all’improbabile
duetto e alla prima, vera risata dopo settimane. Alla
libertà,
all’allegria, e a come si era sentita a casa in un contesto
che, di
familiare, aveva nulla.
Al
motivo per cui quella fosse la scelta più sensata che avesse
mai
preso.
Recuperata
la lucidità, si fiondò sulla sua borsa e
tirò fuori il cellulare.
Lo sbloccò, aprì Instagram e digitò il
nome di Duncan nella barra
di ricerca. Bastò scorrere le sue storie, per recuperare il
nome del
locale in cui si stava esibendo proprio in quel momento.
Impostò
il navigatore. La destinazione era a otto chilometri da lì.
Tenendo
a bada il cuore che rimbombava all’impazzata nella cassa
toracica,
Courtney sbloccò il freno a mano.
*
* *
Il
Pin Up era un club situato nella periferia sud-ovest della
città,
zona frequentata da persone con stili di vita totalmente opposti al
suo, e dove quindi l’elegantissimo outfit che indossava non
passava
di certo inosservato. A malapena fece caso ai curiosi che la
squadrarono dalla testa ai piedi, indugiando un po’ troppo a
lungo
sullo scollo, tanto ch’era stata al centro
dell’attenzione sin
dall’inizio della serata. Si pentì,
d’altro canto, di non aver
portato delle scarpe di riserva, perché i tacchi a spillo le
stavano
massacrando i piedi.
Lasciato
il cappotto al guardaroba, Courtney lasciò che ad orientarla
verso
la pista fosse la musica, dapprima ovattata e confusa, e poi sempre
più distinta – il rullante della batteria, i bassi
stordenti, le
chitarre distorte, e la voce rauca per cui aveva scoperto di avere un
debole.
Non
aveva mai messo piede ad un concerto rock, ma immaginò che
non
dovessero essere troppo diversi da quello. La folla sotto il palco
era infervorata, c’era chi ballava, chi saltava, chi
spingeva, e
ognuno di loro si stava divertendo da matti. Anche chi era rimasto
indietro era totalmente investito da ciò che stava
accadendo, e si
godeva lo spettacolo sorseggiando un drink e muovendo il corpo a
tempo, magari facendo qualche video o commentando
l’esibizione con
chi era di fianco. Si respirava un’aria rilassata, il che era
quasi
un ossimoro, e non poté fare altro che piegarsi a
quell’energia
positiva.
L’attenzione
era tutta rivolta verso una certa testa verde. Aggrappato
all’asta
del microfono, Duncan cantava con un’intensità che
avrebbe potuto
far tremare l’intero locale. Gli abiti di scena non erano
diversi
da quelli che gli aveva visto addosso nei giorni precedenti, eccezion
fatta per la canottiera sbrindellata che, oltre a garantirgli
maggiore mobilità, gli lasciava scoperte le braccia toniche
e
tatuate. Anche la matita nera attorno agli occhi era una
novità,
un’aggiunta che gli accentuava le splendide iridi azzurre
– e non
c’era traccia del livido, notò Courtney. Doveva
aver seguito alla
lettera le sue istruzioni.
Aveva
avuto un assaggio del suo carisma in quel bar del New Jersey,
osservarlo nel suo habitat naturale confermò la sua prima
impressione: era nato per fare la rockstar. Lo dimostravano le
movenze, l’attitudine da spaccone, la continue interazioni
con la
band e col pubblico. Era uno spettacolo, in
tutti i sensi.
Scacciò
dalla mente le implicazioni di quell’ultima considerazione.
Si
incamminò in direzione del bar, senza la minima intenzione
di
ordinare da bere, e si accomodò sullo sgabello
più distante. Voleva
solo godersi il concerto, là dove le luci erano
più soffuse e
nessuno l’avrebbe notata, e nel frattempo pensare a come
comportarsi poi.
La
giovane donna che prese posto al suo fianco le rovinò i
piani.
«Due
birre, per favore» gridò per richiamare
l’attenzione del barista,
indicando prima lei e poi se stessa. Successivamente, si
girò a
guardarla e, con un le labbra piegate in un sorrisetto compiaciuto,
aggiunse: «Ora capisco perché Duncan ti abbia
notata subito.
Insomma, chi si vestirebbe così
bene
per venire in un postaccio del genere? E poi, beh, sei a dir poco
deliziosa.»
Se
non avesse avuto una minima idea della sua identità,
Courtney
avrebbe azzardato a dire che stesse flirtando con lei.
Gwen
era identica alle pochissime foto che aveva trovato sul profilo
Instagram di Duncan: stessi capelli blu e neri, stesso trucco
pesante, stesso vestiario eccentrico. E, per qualche motivo,
ritrovarsela davanti in carne e ossa la metteva a disagio –
era pur
sempre l’ex fidanzata dell’uomo per cui,
disgraziatamente, si era
presa una bella cotta, e avevano avuto una storia che, definirla
intensa, era usare un eufemismo.
La
sua espressione doveva essere l’equivalente di un libro
aperto,
perché quella si lasciò scappare una mezza risata.
«A
quanto pare ti ha raccontato di me.»
«Non
so chi tu sia» mentì, e dal suo cipiglio divertito
seppe in fretta
di non averla convinta.
Il
ragazzetto dietro al bancone si presentò con due bottiglie
di birra
ghiacciate. Gwen gli allungò una banconota e si concesse un
lungo
sorso. Courtney, invece, non toccò la sua.
«Guarda
che è un peccato.»
«Perché
sei qui?» saltò su, ignorando il suo commento.
«Per vederlo? Per
chiarire con lui? Per-»
Trovò
più opportuno fissare le unghie fresche di manicure,
piuttosto che
continuare quella frase.
Non
avrebbe voluto reagire così, prima di tutto
perché era oltremodo
maleducato, e in secondo luogo perché non era nessuno per
mettere
bocca nella questione. Però, la sola ipotesi che fosse
lì per
scusarsi e lottare per una seconda possibilità, e che magari
l’avrebbe persuaso a concedergliela, le fece contorcere le
viscere.
Ottimo,
adesso era pure gelosa!
«Aspetta,
pensi davvero che-» e scoppiò di nuovo a ridere,
stavolta senza
controllarsi – ciò mandò Courtney in
bestia. «Sono qui per il
concerto. La mia occasione l’ho sprecata. Ho sbagliato e ne
sto
accettando le conseguenze. E comunque», fece un altro sorso,
«non avrei alcuna possibilità di
competere.»
«Che
intendi dire?»
Gwen
inarcò le sopracciglia, interdetta.
«Quando
sei arrivata?»
«Qualche
minuto fa. Perché?»
«Perché
ti ha letteralmente dedicato il concerto!»
esclamò. «Ora, non so
che cosa sia successo fra di voi al di fuori di ciò che ha
messo
nelle storie, ma so per certo che non l’avrebbe mai fatto, se
non
fosse innamorato pazzo di te.»
Aggiunse
qualcosa circa il fatto che fosse molto più riservato di
quanto
sembrasse, specie sulla sua vita sentimentale. Courtney
percepì a
malapena l’informazione, perché aveva smesso di
prestare
attenzione quando il termine “innamorato” aveva
raggiunto le sue
orecchie, riempendole il petto di uno strano, ma tutt’altro
che
sgradito, calore.
Attese
che l’anonimo regista della sua vita urlasse:
«Stop! Buona la
prima!». Ma non era sul set di un film, né in un
sogno ad occhi
aperti, per quanto surreale potesse sembrarle.
Ad
essere onesta, percepiva come surreali tutti gli avvenimenti
successivi a Filadelfia, come troppo inusuali per essere parte di una
vita ordinaria come la sua.
Se
era vero che esisteva la predestinazione, a lei non spettava nulla di
eclatante, giusto un lavoro d’ufficio ben retribuito e una
piccola
famigliola più o meno felice. Per fortuna, si trattava di
un’invenzione della mente umana, altrimenti non le sarebbe
mai
stata concessa l’occasione di rompere la monotonia, e di
trovare
qualcuno con cui farlo – e quel qualcuno si era innamorato di
lei.
«Non
era quello che volevi sentirti dire?» le chiese Gwen.
Il
pubblico esplose in un boato. Dritto al centro del palco, Duncan si
godette le ovazioni con un sorriso riconoscente in volto, prima di
far cenno al resto della band di attaccare con la prossima canzone.
A
vederlo così soddisfatto, sorrise di rimando. Non credeva
fosse
possibile sentirsi tanto fieri di qualcuno che non fosse se stessa. E
allora, Courtney comprese che non era una semplice cotta, che pure
lei si era innamorata – ed era una sensazione bellissima,
amare per
davvero.
«È
esattamente
quello che volevo sentirmi dire.»
Finalmente,
bevve la sua birra.
*
* *
Non
c’erano dubbi che quello fosse un contratto, uno vero, con
scritte
di ogni dimensione che si estendevano per due pagine, e postille a
specificare i vari cavilli legale. Il contenuto era inequivocabile,
nonostante avesse dovuto leggere più volte ogni singolo
paragrafo,
perché era convinto che fosse uno scherzo.
«Se
non siete convinti, potete sempre rifiutare» disse il
discografico,
burlandosi delle loro facce incredule.
«È
troppo tardi per ritirare l’offerta, amico»
ridacchiò Chase, e
afferrò la penna nera rimasta abbandonata in un angolo del
tavolino.
«Adesso vi toccherà sopportarci almeno per un paio
d’anni.»
Duncan
fu l’ultimo a firmare, la mano che tremolava per
l’emozione.
I
risparmi dilaniati per pagare la sala prove, le porte in faccia, le
litigate sul futuro coi suoi genitori avevano acquisito uno scopo. Ce
l’aveva fatta – ce
l’avevano fatta,
si corresse immediatamente, alzando lo sguardo verso i suoi amici.
Li
attendeva una nottata di celebrazioni. Avevano lasciato una bottiglia
di spumante al fresco, che attendeva solo di essere aperta e
consumata. E poi un altro giro di bevute, e un altro, e un altro
ancora. Una volta ubriachi, sarebbero andati altrove, a festeggiare
con perfetti sconosciuti, e magari a spassarsela con qualcheduno di
quelli. Se lo meritavano, dopo aver faticato tanto per arrivare a
quel traguardo.
Eppure,
Duncan non era in vena di festeggiare. Voleva soltanto andare a
dormire e risvegliarsi direttamente lunedì mattina,
all’interno di
un nuovo capitolo in cui le ultime settimane – più
nello
specifico, gli ultimi tre giorni – rappresentavano un lontano
ricordo.
Si
era imposto di non pensarla, di concentrarsi soltanto
sull’esibizione, ma era durato giusto il tempo di salire sul
palco.
La dedica gli era scivolata dai denti prima che potesse trattenerla,
e dopodiché non il suo ricordo non l’aveva
lasciato in pace per un
secondo. Ad un certo punto, se l’era figurata in mezzo al
pubblico,
e ciò l’aveva portato a sbagliare un paio
d’accordi – Ziggy se
n’era accorto, ma aveva continuato a suonare con nonchalance.
Alla
fine, l’aveva trovato un nome a ciò che provava
per lei – o
meglio, aveva accettato di chiamarlo col nome corretto. Tanto, che
differenza faceva? Per lunedì mattina, Courtney sarebbe
già stata
la moglie di un altro e lui avrebbe voltato pagina.
Doveva
voltare pagina.
Avrebbe
voluto che fosse più semplice, voltare pagina.
Divertente,
pensò mentre una smorfia gli deformava il volto. Fino a una
settimana fa non la conosceva nemmeno, e ora il suo spettro lo
tormentava in quella che avrebbe dovuto essere la sua notte
trionfale.
Furono
interrotti da tre colpi sulla porta. Il proprietario del locale
entrò
senza che nessuno lo invitasse a farlo.
«Scusate
l’interruzione, ma c’è una ragazza che
sta cercando lui.»
annunciò, e indicò proprio Duncan.
«Se
è per gli autografi, dille che escono fra un
po’» rispose il
manager del gruppo al suo posto, tentando di liquidarlo con un gesto
della mano. «Il tempo di definire gli ultimi dettagli
qua.»
«Non
è una fan, ha detto di conoscerlo molto bene. A dire la
verità,
penso che sia abbastanza ubriaca, perché ha urlato
più volte di
essere un'avvocata e che tenterà il possibile per far
chiudere il
posto, se non-»
«Dov’è?»
Non
riuscì a mascherare la fibrillazione nella sua voce.
«Fuori,
sul retro. È-»
Ma
Duncan era già lungo il corridoio, e camminava svelto verso
l’uscita
antincendio. Tirò giù il maniglione antipanico e
fu investito da un
venticello freddo. Avrebbe pure potuto beccarsi qualche malanno, poco
importava in quel momento.
Courtney
era talmente meravigliosa da mozzare il fiato. Non che normalmente
non lo fosse, ma ritrovarsela davanti vestita, truccata e pettinata
di tutto punto gliela faceva apparire ancora di più come un
miraggio
– incantevole, eterea, irraggiungibile. Eppure, era proprio
lì.
Per
lui.
«Hai
visto?» esordì con un filo di voce. «Non
sono sparita.»
Avanzò
cauto, come avrebbe fatto per attraversare un campo minato, e si
fermò a diversi palmi dal suo volto. Coi tacchi era alta
quanto lui,
se non più alta di qualche centimetro, e questo gli permise
di
osservare per bene i suoi occhi scuri luccicanti di gioia. Erano
splendidi, avrebbe potuto restare a fissarli per ore.
Fece
scivolare le mani sui suoi fianchi, stringendo la presa – non
che
fosse necessario, perché lei non aveva alcuna intenzione di
andare
via. Era, piuttosto, per accertarsi che fosse reale, che non sarebbe
arrivata nessuna metaforica secchiata d’acqua gelida a
ridestarlo.
«Sei
qui.»
«Sono
qui.»
«Hai
lasciato Scott.»
«Sì.»
«Ed
eri al mio concerto.»
«Ho
visto solo una parte. Sei stato incredibile.»
«Lo
so. Infatti ci hanno fatto firmare seduta stante. Non serviva che me
lo dicessi tu.»
Lei
ridacchiò sommessamente, prendendogli il viso fra le mani.
«Certo
che sei proprio un cretino!»
Il
bacio fu meno passionale e vorace di quello della sera precedente, ma
altrettanto intenso e, senza il retrogusto di alcol, persino
più
piacevole.
Si
prese il tempo di esplorare la sua bocca, di assaporarla per bene. E
lei rispondeva altrettanto lentamente, con altrettanta dedizione, ed
era tutto così naturale, come non lo era mai stato prima di
allora.
C’erano
centinaia di parole fra le loro labbra che danzavano insieme, si
separavano quanto bastava per riprendere fiato, e poi si ritrovavano
con un piccolo sospiro – sono felice che tu sia qui. Resta,
per
favore. Voglio provare a farla funzionare.
Duncan
si disse che avrebbe potuto cogliere la palla al balzo, e suggellare
la scena degna di una commedia romantica con una dichiarazione
passionale. Avrebbe potuto chiamare per nome i sentimenti che, fino a
qualche minuto fa, l’avevano reso miserabile. Bastava una
semplice
frase vecchia quanto il mondo.
«Courtney?»
«Mhh?»
Ci
ripensò. Dopotutto, che fretta c’era?
«Domattina
dovrei riportare la macchina a Rochester. Vuoi venire con me?»
Angolo
dell’autrice
Anzitutto,
chiedo scusa alla gente – semmai ci fosse ancora qualcuno
interessato – che ha atteso per quattro mesi questo epilogo.
Mi
dispiace avervi fatto penare così a lungo, non era mia
intenzione,
ma sono davvero stati mesi intensi.
Comunque,
è strano mettere un punto fermo. Ho iniziato a scrivere i
primi due
capitoli durante quello che, senza troppi giri di parole, è
stato
uno dei periodi peggiori della mia vita, e portare avanti questo
piccolo progetto era tra le pochissime cose per cui mi svegliavo la
mattina.
Più
andavo avanti, più mi ponevo obiettivi, e più
cominciavo a vedere
la cosiddetta luce in fondo al tunnel. Se oggi va meglio –
non
benissimo, ma sicuramente meglio – è anche grazie
a questa storia,
che mi ha aiutata a non lasciarmi andare. E sapere che,
dall’altra
parte dello schermo, c’era qualcuno a leggere e ad apprezzare
è
stato doppiamente importante, e mi ha spronata ancora di più
a fare
meglio. Quindi, grazie. Davvero.
Non
so cosa succederà poi, sto imparando a vivere giorno per
giorno e
non pormi troppi obiettivi a lungo termine. So solo che sono passati
anni, ma questo fandom ha sempre rappresentato una zona di comfort, e
tornarci dopo lunghi periodi di inattività è un
po’ come tornare
a casa.
Magari
avrete presto nuove notizie della sottoscritta, magari no.
Fino
ad allora, vi ringrazio nuovamente per avermi seguita fino a qui! xx
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