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Autore: smarsties    30/07/2022    2 recensioni
[Modern!AU - Duncan/Courtney - accenni Scott/Courtney e Duncan/Gwen]
Ciò che accomuna Duncan e Courtney è che entrambi devono essere a Toronto entro sabato. Bloccati in aeroporto a Filadelfia, a tre giorni da quello che potenzialmente potrebbe essere il weekend più importante delle loro vite, si ritrovano a condividere un folle viaggio in auto verso la metropoli canadese.
Sarebbe un vero peccato se la situazione, già tragicomica di suo, si rivelasse l'occasione perfetta per far venire a galla dubbi e incertezze. Ancora più esilarante sarebbe se, nel mentre, cominciassero a provare qualcosa l'uno per l'altra.
-
«Ma guarda chi si rivede! Certo che il mondo è proprio piccolo!»
A tre passi di distanza, lo sconosciuto di poco fa la fissava, con la testa leggermente inclinata e gli angoli della bocca tesi verso l’alto. C’era qualcosa in quel mezzo sorriso che le faceva prudere le mani.
«Di nuovo tu, che gioia!» esclamò con quanto più sarcasmo possibile, mettendo via il telefono. «Comincio a pensare che tu sia uno stalker.»
«Non lo sono, però ammetto che ti stavo seguendo.»
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan, Gwen, Scott | Coppie: Duncan/Courtney
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
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Sei







Si appoggiò allo stipite della porta, attenta a non fare alcun rumore.

Sua madre falciava a grandi passi lo spazio fra l’armadio il letto matrimoniale, e poi all’inverso, e intanto borbottava improperi in spagnolo. Ad ogni viaggio, l’enorme valigia rossa si riempiva di nuovi effetti personali.

«Mamá?»

La chiamò e lei si bloccò a metà strada, con un carico di camicie di seta tra le sue braccia. Anche con gli occhi arrossati dal pianto, era la donna più bella che Courtney avesse mai visto.

«Stai andando via?»

Non era la prima volta che lei e papà litigavano. Il copione era sempre lo stesso: si accusavano a vicenda di cose terribili, si riempivano di insulti fino a perdere la voce, e infine lui andava via per un paio d’ore, premurandosi di sbattere per bene la porta, mentre lei si chiudeva in camera a preparare i bagagli. Non appena calava la sera, era come se nulla fosse mai successo.

Stavolta, Courtney sapeva già che la risposta alla sua domanda sarebbe stata affermativa. C’erano state parole più pesanti del normale e suo padre aveva alzato le mani – aveva sbirciato la scena dalle scale, trattenendo un urlo di terrore nell’istante in cui l’aveva colpita sulla guancia.

«Sì, mi vida» mormorò, sistemando i panni in un angolo della valigia.

«Voglio venire con te.»

La guardò teneramente, prima di avvicinarsi e di chinarsi verso il suo volto.

«Non ora. Qui hai la scuola, i corsi extracurricolari, e sia io che papà vogliamo che termini gli studi. Un domani, sarai libera di scegliere.»

Poi, la abbracciò.

«Olvidame, mi vida» le disse fra un singhiozzo e l’altro. «Sei l’unica ragiona per cui non sono andata via anni fa, e mi spezza il cuore abbandonarti, ma non riesco più a stringere i denti e subire.»

Dal lato opposto, non ci fu nemmeno una lacrima. Avrebbe capito quella scelta solo da adulta, ma allora non poté fare a meno di serbarle rancore. Non riusciva a credere che volesse davvero lasciarla lì.

«Mi fai una promessa?» le domandò all’orecchio. «Mi prometti che non ti accontenterai mai? Che farai sempre il possibile per essere felice e stare in pace con te stessa? Non voglio che tu finisca come me.»

«Sì, mamá» affermò, senza avere una chiara idea di cosa le avesse realmente promesso.

Anche quelle parole le avrebbe capite solo da adulta.









[ Sabato 24 aprile – Toronto, Ontario ]



«Allora? Quand’è che avresti intenzione di parlarmene?»

«Parlarti di cosa?»

Il riflesso di Heather nella specchiera teneva la piastra in una mano e una ciocca dei suoi capelli nell’altra; le stava lanciando uno sguardo piuttosto eloquente, non riusciva a capire se stesse scherzando o meno.

«Della sfilza di messaggi disperati che mi hai mandato stanotte, naturalmente!» esclamò, prima di riprendere il suo compito. «Ricordi? Quelli in cui ammetti di provare qualcosa per lo scappato di casa con cui hai viaggiato? O vogliamo far finta che nulla di questo sia mai successo?»

Era proprio ciò che Courtney intendeva fare.

Quella mattina era stata svegliata da un invitante odore di uova strapazzate, che Scott le aveva preparato con tanto amore assieme ad una spremuta di arance. Avevano fatto colazione, seduti l’uno affianco all’altra sul divano, e lei gli aveva raccontato le avventure degli ultimi giorni, glissando completamente sugli avvenimenti di Niagara Falls.

Non aveva pensato a Duncan nemmeno per un secondo. Non aveva riguardato per l’ennesima volta le loro foto, né aveva riascoltato il vocale in cui le confessava i suoi sentimenti. Non gli aveva dato il buongiorno e non lo aveva chiamato per fargli l’in bocca al lupo. Avrebbe voluto fare ognuna di quelle cose, ma si era imposta di non cedere – non le era nemmeno risultato troppo difficile. In fondo, aveva passato quasi tutta la sua vita a non cedere alle tentazioni.

Così com’era entrato, doveva uscire dalla sua vita: all’improvviso e il più in fretta possibile.

Con gli anni aveva imparato quanto fosse fondamentale il tempismo, e loro si erano conosciuti nel peggiore dei momenti. Gli ultimi mesi avevano messo a dura prova la sua salute mentale, aveva faticato a tenere assieme i pezzi, e ciò di cui aveva bisogno era equilibrio. Non l’avrebbe mai trovato in lui, avevano esigenze troppo diverse, che nemmeno i sentimenti avrebbero potuto annullare.

Doveva andare così.

«Non c’è nulla da dire. Ero ubriaca, non intendevo nessuna delle cose che ho scritto.»

«Sicura? Perché, se hai dei ripensamenti, questo è il momento di esternarli.»

Non c’era stato un solo attimo in cui avrebbe voluto giurare amore incondizionato ed eterna fedeltà a Scott. Ma, nella costante lotta con se stessa, ad avere la meglio era sempre l’urgenza di apparire perfetta, crogiolandosi nella zona di comfort che si era creata con duro lavoro e sacrifici, a discapito della sua felicità.

Avrebbe voluto continuare a prendere lezioni di canto, avrebbe voluto lasciare giurisprudenza per andarsene oltreoceano a studiare criminologia, avrebbe voluto dare una chance a lei e Duncan. Quello, però, non era il sentiero più comodo, non era la via che gli altri si sarebbero aspettati che percorresse.

Dunque, aveva stretto i denti e continuato a soddisfare le loro aspettative, nella ricerca costante di quei valori che le erano stati presentati come ideali, con la speranza che un domani avrebbe potuto dirsi appagata al cento per cento.

Doveva andare così.

«Ne sono sicura.»

Heather annuì.

Non si parlarono per i minuti successivi.

Courtney ne approfittò per constatare quanto la sua amica stesse facendo un ottimo lavoro. I capelli, che spesso teneva raccolti per comodità o perché non aveva abbastanza tempo per lavarli, avevano assunto una forma ben definita e le ricadevano morbidamente sulle spalle. Il trucco leggero le accentuava in maniera naturale i connotati, alimentando l’illusione che la sua pelle fosse priva di imperfezioni, quando in realtà era servito più correttore del necessario per nascondere le borse sotto gli occhi. A farla sentire ancora più bella, ci pensava il vestito color champagne, semplice ma impreziosito da gioielli dorati, e che metteva in risalto i risultati della sua dieta.

Un raggio di sole le squarciò il viso. Mancava poco al tramonto e, fuori, il cielo si era tinto di rosa pallido.

La camera d’albergo ridava sul lago. Non c’erano nuvole all’orizzonte, cosa inusuale per essere fine aprile, e, se avesse aguzzato lo sguardo, avrebbe potuto scorgere le spiagge di Centre Island, dove l’indomani si sarebbe tenuta la cerimonia.

L’ansia le strinse la bocca dello stomaco. Non dovette nemmeno applicarsi per ignorarla.

Qualcuno bussò. Heather spense la piastra, quasi la lanciò sulla specchiera e, mentre uno sbuffo lasciava le sue labbra, varcò l’anticamera a grandi passi, aprendo la porta quanto bastava per affacciarsi sul corridoio.

«Non siamo ancora pronte» sbottò in direzione di una figura più alta di lei.

«Sono passato a salutare la futura sposa» si scusò una voce maschile dall’inconfondibile accento latino. «Due minuti e tolgo il disturbo.»

Courtney allungò il collo al di là della lunga chioma corvina dell’amica, alla ricerca degli occhi smeraldo di Alejandro. Li trovò, e in essi erano riflessi un sorriso che sapeva di sicurezza.

S’incontrarono a metà strada; lei si alzò sulle punte per abbracciarlo meglio.

«Eres muy hermosa» le sussurrò all’orecchio.

«Gracias» mormorò in risposta.

Sarebbe stato bello se si fosse sentita pure felice.



* * *



«Quello sarebbe il discografico? Sul serio?»

Duncan ritirò il braccio dietro le quinte del minuscolo palcoscenico, e rigirò il tablet in modo tale da riprendere la sua faccia.

Dall’altra parte dello schermo, Geoff e Bridgette erano seduti sul divano del loro appartamento, stretti l’uno affianco all’altra per entrare meglio nell’inquadratura. Non era di certo un metodo ottimale, ma almeno avrebbero potuto assistere al concerto da ottocento chilometri di distanza.

«A quanto pare» rispose con una scrollata di spalle.

Dalla voce profonda con cui aveva parlato al telefono, si era figurato un uomo di mezza età in giacca e cravatta, che nella sua carriera decennale doveva aver sentito ed esaminato migliaia di band come la loro. Invece, a presentarsi e stringergli la mano con vigore, era stato un suo coetaneo dai capelli castani raccolti in un codino, la barba incolta e abiti oversize.

In un’ipotetica folla accalcata sotto a un suo palco, di individui del genere avrebbe potuto scorgerne a bizzeffe; ciò, anziché rassicurarlo, l’aveva mandato in paranoia.

Nello stanzino adibito a camerino, la tensione era palpabile. Chase era immobile nel suo angolino e teneva la testa ricurva sulla punta delle scarpe; la zazzera di ricci scuri gli impediva di scorgere la sua espressione. Nell’angolo opposto, Ziggy giocherellava con uno dei tanti braccialetti sul suo polso sinistro, e borbottava a denti stretti la stessa litania – forse una preghiera, forse una scarica di bestemmie – da circa un quarto d’ora. A pochi passi di distanza, Cole, il batterista, ripassava freneticamente le partiture con delle bacchette immaginarie, senza curarsi dei ciuffi biondi sfuggiti dalla bandana e incollati col sudore sulla sua fronte.

Avevano suonato assieme centinaia di volte, ma non li aveva mai visti così agitati. Pure loro sentivano la schiacciante pressione di dover convincere qualcuno che, con ogni probabilità, usufruiva di quel genere di musica un giorno sì e l’altro pure, e che per forza di cose sarebbe stato più esigente del normale.

Si sentì in dovere di intervenire, di improvvisare un discorso di incoraggiamento. Rimase con la bocca spalancata per qualche secondo, prima di richiuderla e assottigliare le labbra in una smorfia.

«C’è qualcosa che non va?»

Il tono preoccupato di Bridgette gli rimembrò di essere ancora in videochiamata.

«È tutto a posto» rispose, puntando gli occhi sullo schermo e incurvando gli angoli della bocca in un sorriso poco convincente. «Solo un po’ d’ansia da prestazione.»

A dire la verità, Duncan non ci stava con la testa. Fisicamente era lì, dietro le quinte di un palco, consapevole che quella serata avrebbe potuto svoltare le sorti della sua carriera, ed intenzionato a dare il massimo. Mentalmente, però, non si era smosso dall’istante in cui Courtney aveva appoggiato le labbra sulle sue.

Quando le aveva detto di cercarlo, semmai l’indomani non avesse cambiato idea, il suo cervello era annebbiato dall’alcol e dal desiderio, eppure intendeva ogni singola parola di quella frase, a tal punto da convincersi che, anziché dai soliti sintomi post-sbornia, sarebbe stato svegliato da una sua chiamata.

La giornata era trascorsa veloce, il cellulare aveva suonato più volte, ma mai per annunciare un cenno da parte sua. Minuto dopo minuto, era divenuto sempre più chiaro che aveva fatto la sua scelta e avrebbe dovuto rassegnarsi – e ciò fece più male del previsto.

Non aveva mai provato tutte quelle sensazioni contrastanti. Si era illuso che potesse essere l’inizio di una bella storia, sebbene le possibilità che essa avesse potuto realizzarsi erano sempre state esigue, se non pari a zero. Eppure, il pensiero che l’indomani lei avrebbe sposato un altro uomo lo infastidiva, gli provocava un moto di quella che era a tutti gli effetti gelosia – ma, ehi! Che diritto aveva lui di essere geloso?

A dir la verità, non sapeva nemmeno cosa provasse realmente per Courtney – o meglio, non voleva accettarlo, perché aveva provato qualcosa del genere solo per un’altra persona, e quella non s’era fatta scrupoli a rimpiazzarlo alla prima occasione buona.

E, se non poteva averla, tanto valeva reprimere quel sentimento senza sforzarsi di dargli un nome. Non era sua intenzione aggiungere un’altra cicatrice alla collezione, non quando l’ultima non s’era nemmeno rimarginata del tutto.

«Beh, ci credo!» intervenne Geoff. «Ti stai per giocare il tutto per tutto!»

La gomitata che gli assestò Bridgette sullo stomaco lo fece rantolare per un po’.

La porta del camerino si aprì con un cigolio; quattro paia di occhi si mossero di scatto.

Il loro manager li guardò uno per uno, con un sorriso che voleva indurre conforto, prima di aprire bocca.

«Dieci minuti e siamo pronti. Forse i tuoi amici vogliono lasciarti il tempo di prepararti a dovere?» chiese in direzione di Duncan, indicando il tablet con un cenno del capo. Dopodiché, sollevò il braccio destro, in cui teneva un enorme mazzo di fiori, e aggiunse: «E questi sono per te.»

Non prestò attenzione alle ultime rassicurazioni di Geoff e Bridgette, né al breve discorso motivazionale del manager. Si era incantato a guardare le camelie, incartate in un foglio di tessuto blu notte. Incastrati nel fiocco che le teneva assieme, vi erano una singola sigaretta e un talloncino di carta, su cui era scritto il suo nome in un corsivo elegante.

Una risata gli rimase incastrata fra le corde vocali. Fra tutti i momenti, Gwen aveva deciso di farglieli recapitare nel peggiore di tutti – o nel migliore. Dipendeva dai punti di vista.

Aspettò che la stanza ripiombasse nel silenzio. Poi, accertatosi che i suoi colleghi non stessero ficcanasando, sfilò il biglietto dalla sua busta e cominciò a leggere.



Una Marlboro rossa e un mazzo di camelie – simbolicamente, l’inizio e la fine della nostra relazione. Mi sembrava il modo più adatto per darle una degna conclusione.

Non c’è molto altro da dire, se non che mi dispiace. Spero che un giorno tu possa perdonarmi.

Buona fortuna per stasera e buona vita.


Gwen



* * *



Tutto era come se l’era immaginato.

La sala era piccolina, asettica, ed elegante. Il pavimento lucido, le tovaglie, ogni singola decorazione – tutto era fra i toni del banco e del beige, il che a lungo andare avrebbe potuto nauseare. A dar colore, ci pensavano le splendide composizioni floreali posizionate al centro di ogni tavolata. Dulcis in fundo, l’atmosfera era animata dal complesso di musica leggera messo in dotazione dal hotel.

Talmente perfetto da sembrare un sogno. Il sogno di qualcun altro.

La serata era a malapena alle battute iniziali e Courtney aveva già dovuto salutare e ringraziare gli invitati uno per uno, tenendo la mano sudaticcia di Scott, che di tanto in tanto si chinava per farle un complimento o per stamparle un bacio sulla guancia. Aveva dovuto sopportare le lacrime di commozione e le reazioni esagerate dei parenti messicani, girare su se stessa svariate volte per farsi ammirare in tutto il suo splendore, ed evitare di rispondere a tono alle provocazioni della suocera, che non l’aveva mai vista di buon grado per via della sua classe sociale.

Heather, che non l’aveva persa di vista nemmeno per un secondo, sottolineò con un sorrisetto mellifluo che nemmeno erano stati serviti gli antipasti, e la sua reazione spontanea fu di vuotare il bicchiere di spumante di fronte a sé con un solo sorso, sotto lo sguardo attonito degli altri seduti a quel tavolo – Alberta coi suoi bambini, Alejandro, e naturalmente il suo futuro sposo. Il cameriere passò di nuovo a riempirle il bicchiere qualche istante più tardi, intimandole con voce sottile e vago imbarazzo che fosse per il brindisi.

Si girò immediatamente verso il suo testimone, con l’intento di dissuaderlo dal pronunciare le parole che gli aveva chiesto di scrivere per l’occasione – era l’ultima cosa di cui aveva bisogno, sentirlo mentre millantava idiozie sulla sua splendida e purissima storia d’amore.

Egli era in piedi e, prima che avesse potuto tirarlo per la manica della giacca e costringerlo a risedersi, aveva richiamato l’attenzione dei presenti battendo il lato della forchetta sul calice di vetro.

Colse solo i punti salienti del bel discorso, che stava facendo emozionare anche i cuori di pietra – due persone all’apparenza opposte ma complementari, una relazione idilliaca basata su sentimenti genuini e fiducia reciproca, Courtney non è mai stata così serena come nei due anni passati al fianco di Scott. Tutte stronzate, insomma.

Ebbe come la sensazione che l’anello attorno all’anulare, più stretto e opprimente del solito, le stesse bloccando la circolazione sanguigna. Con la coda dell’occhio, controllò che non ci fosse nulla di anomalo; successivamente, si diede della stupida per aver assecondato quel frangente di irrazionalità.

Due cose erano ormai lapalissiane. Uno, se era riuscita ad ingannare anche coloro che la conoscevano come le proprie tasche, doveva essere una bugiarda da far invidia al migliore degli attori. Due, mentire era sfiancante, e non era sicura che sarebbe stata in grado di farlo “finché morte non vi separi”.

Alejandro non aveva ancora chiamato il brindisi, quando si alzò in piedi. La sala rimase coi bicchieri sospesi a mezz’aria, nell’attesa che aggiungesse qualcosa. Ma, le sue labbra rimasero sigillate, il silenzio stava diventando schiacciante e qualcuno cominciò a comprendere che non sarebbe seguito nulla di buono.

Se si fosse guardata attorno, si sarebbe accorta degli sguardi carichi d’astio che i genitori, la sorella e svariati parenti di Scott le stavano rivolgendo; non parevano troppo sorpresi, era esattamente ciò che si aspettavano da una come lei. Pure suo padre e la sua matrigna non le staccavano gli occhi di dosso, confusi dalla situazione e a tratti preoccupati. Avrebbe trovato più conforto in Heather e Alejandro, entrambi incapaci di indorare la pillola, ma che mai l’avrebbero giudicata per le sue scelte, e non avrebbero osato nemmeno in un momento tanto critico.

Courtney, però, non considero nessuno di loro. Rivolta verso un tavolo alla sua destra, guardava con insistenza sua madre – incredibile, pensò: pure con qualche capello bianco e le rughe d’espressione era la donna più bella che avesse mai visto.

Anche lei la stava guardando, con un timido sorriso di incoraggiamento dipinto sul volto, e seppe subito che anche la sua mente era corsa a quello specifico ricordo, a ciò che le aveva promesso il pomeriggio in cui era andata via di casa.

Mi prometti che non ti accontenterai mai?

Fu allora che qualcosa scattò.

Nessuno aveva chissà quali aspettative su di lei, se non lei stessa. Ergo, non doveva dimostrar loro di avere costantemente in mano le redini della sua vita.

Il successo e la perfezione non erano tutto ciò che importava, né le uniche strade verso la tanto ambita stabilità.

Gli ultimi tre giorni erano stati un’avventura memorabile, e non immaginava che a quasi trent’anni, con un bel fardello di responsabilità gravante sulle sue spalle, fosse ancora possibile provare cotanta spensieratezza – e non voleva più privarsene.

Fece un respiro profondo e abbassò il capo, individuando il proprio riflesso negli occhi grigi di Scott. Non vi colse nessun tipo di reazione.

«Mi dispiace.»

Lui non proferì parola, né si mosse, permettendole di recuperare la borsa e il cappotto appesi allo schienale della sedia, e di precipitarsi fuori di lì, sotto i versi stizziti e i commenti borbottati a denti stretti, facendo attenzione a schivare l’orda di camerieri che stava portando gli antipasti.

Courtney non si voltò fino a che non fu nel parcheggio del hotel e la voce di Scott non le giunse alle spalle, distante, quasi fosse un’allucinazione.

Era davvero lì, qualche metro più indietro, nel completo nero che gli aveva regalato per il loro primo anniversario. Non aveva alcuna intenzione di fare una sceneggiata, o di supplicarla a tornare dentro. Era stoico, oserebbe dire rassegnato.

«Cos’è cambiato?»

Tutto, fu la risposta immediata.

«Nulla», fu quello che disse. «Ho solo realizzato un po’ di cose in queste ultime settimane.»

«Hai realizzato che non mi ami.»

Scosse il capo.

«Non quanto tu ami me.»

Lui schioccò la lingua contro il palato.

«Capisco.»

L’evidente delusione sul suo volto la mise a disagio. Avrebbe volentieri girato i tacchi e messo fine a quella sofferenza, ma sapeva che gli doveva una spiegazione più esaustiva, una degna conclusione per quegli anni in cui l’aveva posta davanti a tutto e tutti.

«Ho provato a restituirti, fin dove il mio carattere cinico me lo permetteva, almeno un decimo di quanto mi hai dato. Mi sono sforzata perché ero consapevole che me ne sarei pentita, se ti avessi fatto scappare. Mi dispiace di non esserci riuscita.»

Si avvicinò di qualche passo, sotto lo sguardo vigile di Scott, il cui guscio di indifferenza stava crollando di secondo in secondo.

«Sarebbe da egoisti obbligarti a stare con me. Mi troverei in un perenne stato di insoddisfazione e, a lungo andare, contagerei pure te. Meriti qualcuno che possa renderti davvero felice.»

Con lentezza disarmante, si tolse l’anello di fidanzamento e, tenendolo fra il pollice e l’indice, glielo stese.

Egli, titubante, lo prese e lo porse in uno dei taschini interni della giacca, quello destro. Boccheggiò diverse volte, prendendosi il tempo di formulare una risposta adeguata – non era mai stato un tipo di molte parole, lui.

«Non sei cinica» affermò, dopo un silenzio che parve infinito. «E anche tu meriti di essere felice. Mi dispiace che non possa essere con me, ma imparerò a farmene una ragione.»

Venne spontaneo colmare i pochi centimetri fra di loro e, stretti in un abbraccio, concedersi un altro minuto per dirsi addio. Courtney inspirò a fondo, inalando il forte odore del suo dopobarba che aveva sempre detestato, ma che forse un po’ le sarebbe mancato.

«Sei stato davvero il partner perfetto» mormorò, con il mento poggiato sul suo omero sinistro.

«Buona fortuna per tutto» le augurò Scott, prima di lasciarla andare.

L’attimo dopo era accasciata sul sedile della sua macchina, ancora stordita dall’accaduto e con l’adrenalina le pompava nelle sue vene.

Buttò fuori tutta l’aria che aveva incanalato nei polmoni, come se fosse stata in apnea per tutto quel tempo, di preciso da quando aveva deliberatamente mandato a monte le sue nozze. Non riusciva a credere di aver trovato il coraggio di farlo sul serio.

Neanche il tempo di realizzare, che l’adrenalina aveva già lasciato spazio al panico. Non riusciva a credere di aver trovato il coraggio di farlo sul serio!

Rimase pietrificata, con le mani stette attorno al volante e lo sguardo vacuo. Non aveva preventivato nulla di tutto ciò – seguire il suo istinto e un consiglio che le era stato dato quasi due decadi fa – e adesso la sua gola era raschiata da centomila piccoli spini, stretta in un groppo che era frutto non solo di un totale senso di smarrimento, ma anche della consapevolezza che era troppo tardi per pensare a finali alternativi, perché non poteva comunque cancellare le sue azioni.

Sentì gli angoli degli occhi pizzicare, ma non voleva che le lacrime rovinassero lo splendido lavoro di Heather, e nemmeno poteva permettere ai pensieri negativi di approfittare della quiete per prendere il sopravvento, di sgusciare fuori dal loro angolino e minacciare di intaccare il suo ultimo briciolo di autocontrollo. Se avesse ceduto, sarebbe seguito un attacco d’ansia di proporzioni epocali, che non avrebbe portato altro se non ulteriore stress.

Le sue dita corsero alla manopola della radio, che rispose alla chiamata d’aiuto nel modo più beffardo, più bastardo, e più efficace possibile.

Intanto che le note di Drive By riempivano l’abitacolo, fu catapultata a New York, al traffico e alla pioggia incessante, all’improbabile duetto e alla prima, vera risata dopo settimane. Alla libertà, all’allegria, e a come si era sentita a casa in un contesto che, di familiare, aveva nulla.

Al motivo per cui quella fosse la scelta più sensata che avesse mai preso.

Recuperata la lucidità, si fiondò sulla sua borsa e tirò fuori il cellulare. Lo sbloccò, aprì Instagram e digitò il nome di Duncan nella barra di ricerca. Bastò scorrere le sue storie, per recuperare il nome del locale in cui si stava esibendo proprio in quel momento.

Impostò il navigatore. La destinazione era a otto chilometri da lì.

Tenendo a bada il cuore che rimbombava all’impazzata nella cassa toracica, Courtney sbloccò il freno a mano.



* * *



Il Pin Up era un club situato nella periferia sud-ovest della città, zona frequentata da persone con stili di vita totalmente opposti al suo, e dove quindi l’elegantissimo outfit che indossava non passava di certo inosservato. A malapena fece caso ai curiosi che la squadrarono dalla testa ai piedi, indugiando un po’ troppo a lungo sullo scollo, tanto ch’era stata al centro dell’attenzione sin dall’inizio della serata. Si pentì, d’altro canto, di non aver portato delle scarpe di riserva, perché i tacchi a spillo le stavano massacrando i piedi.

Lasciato il cappotto al guardaroba, Courtney lasciò che ad orientarla verso la pista fosse la musica, dapprima ovattata e confusa, e poi sempre più distinta – il rullante della batteria, i bassi stordenti, le chitarre distorte, e la voce rauca per cui aveva scoperto di avere un debole.

Non aveva mai messo piede ad un concerto rock, ma immaginò che non dovessero essere troppo diversi da quello. La folla sotto il palco era infervorata, c’era chi ballava, chi saltava, chi spingeva, e ognuno di loro si stava divertendo da matti. Anche chi era rimasto indietro era totalmente investito da ciò che stava accadendo, e si godeva lo spettacolo sorseggiando un drink e muovendo il corpo a tempo, magari facendo qualche video o commentando l’esibizione con chi era di fianco. Si respirava un’aria rilassata, il che era quasi un ossimoro, e non poté fare altro che piegarsi a quell’energia positiva.

L’attenzione era tutta rivolta verso una certa testa verde. Aggrappato all’asta del microfono, Duncan cantava con un’intensità che avrebbe potuto far tremare l’intero locale. Gli abiti di scena non erano diversi da quelli che gli aveva visto addosso nei giorni precedenti, eccezion fatta per la canottiera sbrindellata che, oltre a garantirgli maggiore mobilità, gli lasciava scoperte le braccia toniche e tatuate. Anche la matita nera attorno agli occhi era una novità, un’aggiunta che gli accentuava le splendide iridi azzurre – e non c’era traccia del livido, notò Courtney. Doveva aver seguito alla lettera le sue istruzioni.

Aveva avuto un assaggio del suo carisma in quel bar del New Jersey, osservarlo nel suo habitat naturale confermò la sua prima impressione: era nato per fare la rockstar. Lo dimostravano le movenze, l’attitudine da spaccone, la continue interazioni con la band e col pubblico. Era uno spettacolo, in tutti i sensi.

Scacciò dalla mente le implicazioni di quell’ultima considerazione.

Si incamminò in direzione del bar, senza la minima intenzione di ordinare da bere, e si accomodò sullo sgabello più distante. Voleva solo godersi il concerto, là dove le luci erano più soffuse e nessuno l’avrebbe notata, e nel frattempo pensare a come comportarsi poi.

La giovane donna che prese posto al suo fianco le rovinò i piani.

«Due birre, per favore» gridò per richiamare l’attenzione del barista, indicando prima lei e poi se stessa. Successivamente, si girò a guardarla e, con un le labbra piegate in un sorrisetto compiaciuto, aggiunse: «Ora capisco perché Duncan ti abbia notata subito. Insomma, chi si vestirebbe così bene per venire in un postaccio del genere? E poi, beh, sei a dir poco deliziosa

Se non avesse avuto una minima idea della sua identità, Courtney avrebbe azzardato a dire che stesse flirtando con lei.

Gwen era identica alle pochissime foto che aveva trovato sul profilo Instagram di Duncan: stessi capelli blu e neri, stesso trucco pesante, stesso vestiario eccentrico. E, per qualche motivo, ritrovarsela davanti in carne e ossa la metteva a disagio – era pur sempre l’ex fidanzata dell’uomo per cui, disgraziatamente, si era presa una bella cotta, e avevano avuto una storia che, definirla intensa, era usare un eufemismo.

La sua espressione doveva essere l’equivalente di un libro aperto, perché quella si lasciò scappare una mezza risata.

«A quanto pare ti ha raccontato di me.»

«Non so chi tu sia» mentì, e dal suo cipiglio divertito seppe in fretta di non averla convinta.

Il ragazzetto dietro al bancone si presentò con due bottiglie di birra ghiacciate. Gwen gli allungò una banconota e si concesse un lungo sorso. Courtney, invece, non toccò la sua.

«Guarda che è un peccato.»

«Perché sei qui?» saltò su, ignorando il suo commento. «Per vederlo? Per chiarire con lui? Per-»

Trovò più opportuno fissare le unghie fresche di manicure, piuttosto che continuare quella frase.

Non avrebbe voluto reagire così, prima di tutto perché era oltremodo maleducato, e in secondo luogo perché non era nessuno per mettere bocca nella questione. Però, la sola ipotesi che fosse lì per scusarsi e lottare per una seconda possibilità, e che magari l’avrebbe persuaso a concedergliela, le fece contorcere le viscere.

Ottimo, adesso era pure gelosa!

«Aspetta, pensi davvero che-» e scoppiò di nuovo a ridere, stavolta senza controllarsi – ciò mandò Courtney in bestia. «Sono qui per il concerto. La mia occasione l’ho sprecata. Ho sbagliato e ne sto accettando le conseguenze. E comunque», fece un altro sorso, «non avrei alcuna possibilità di competere.»

«Che intendi dire?»

Gwen inarcò le sopracciglia, interdetta.

«Quando sei arrivata?»

«Qualche minuto fa. Perché?»

«Perché ti ha letteralmente dedicato il concerto!» esclamò. «Ora, non so che cosa sia successo fra di voi al di fuori di ciò che ha messo nelle storie, ma so per certo che non l’avrebbe mai fatto, se non fosse innamorato pazzo di te.»

Aggiunse qualcosa circa il fatto che fosse molto più riservato di quanto sembrasse, specie sulla sua vita sentimentale. Courtney percepì a malapena l’informazione, perché aveva smesso di prestare attenzione quando il termine “innamorato” aveva raggiunto le sue orecchie, riempendole il petto di uno strano, ma tutt’altro che sgradito, calore.

Attese che l’anonimo regista della sua vita urlasse: «Stop! Buona la prima!». Ma non era sul set di un film, né in un sogno ad occhi aperti, per quanto surreale potesse sembrarle.

Ad essere onesta, percepiva come surreali tutti gli avvenimenti successivi a Filadelfia, come troppo inusuali per essere parte di una vita ordinaria come la sua.

Se era vero che esisteva la predestinazione, a lei non spettava nulla di eclatante, giusto un lavoro d’ufficio ben retribuito e una piccola famigliola più o meno felice. Per fortuna, si trattava di un’invenzione della mente umana, altrimenti non le sarebbe mai stata concessa l’occasione di rompere la monotonia, e di trovare qualcuno con cui farlo – e quel qualcuno si era innamorato di lei.

«Non era quello che volevi sentirti dire?» le chiese Gwen.

Il pubblico esplose in un boato. Dritto al centro del palco, Duncan si godette le ovazioni con un sorriso riconoscente in volto, prima di far cenno al resto della band di attaccare con la prossima canzone.

A vederlo così soddisfatto, sorrise di rimando. Non credeva fosse possibile sentirsi tanto fieri di qualcuno che non fosse se stessa. E allora, Courtney comprese che non era una semplice cotta, che pure lei si era innamorata – ed era una sensazione bellissima, amare per davvero.

«È esattamente quello che volevo sentirmi dire.»

Finalmente, bevve la sua birra.



* * *



Non c’erano dubbi che quello fosse un contratto, uno vero, con scritte di ogni dimensione che si estendevano per due pagine, e postille a specificare i vari cavilli legale. Il contenuto era inequivocabile, nonostante avesse dovuto leggere più volte ogni singolo paragrafo, perché era convinto che fosse uno scherzo.

«Se non siete convinti, potete sempre rifiutare» disse il discografico, burlandosi delle loro facce incredule.

«È troppo tardi per ritirare l’offerta, amico» ridacchiò Chase, e afferrò la penna nera rimasta abbandonata in un angolo del tavolino. «Adesso vi toccherà sopportarci almeno per un paio d’anni.»

Duncan fu l’ultimo a firmare, la mano che tremolava per l’emozione.

I risparmi dilaniati per pagare la sala prove, le porte in faccia, le litigate sul futuro coi suoi genitori avevano acquisito uno scopo. Ce l’aveva fatta – ce l’avevano fatta, si corresse immediatamente, alzando lo sguardo verso i suoi amici.

Li attendeva una nottata di celebrazioni. Avevano lasciato una bottiglia di spumante al fresco, che attendeva solo di essere aperta e consumata. E poi un altro giro di bevute, e un altro, e un altro ancora. Una volta ubriachi, sarebbero andati altrove, a festeggiare con perfetti sconosciuti, e magari a spassarsela con qualcheduno di quelli. Se lo meritavano, dopo aver faticato tanto per arrivare a quel traguardo.

Eppure, Duncan non era in vena di festeggiare. Voleva soltanto andare a dormire e risvegliarsi direttamente lunedì mattina, all’interno di un nuovo capitolo in cui le ultime settimane – più nello specifico, gli ultimi tre giorni – rappresentavano un lontano ricordo.

Si era imposto di non pensarla, di concentrarsi soltanto sull’esibizione, ma era durato giusto il tempo di salire sul palco. La dedica gli era scivolata dai denti prima che potesse trattenerla, e dopodiché non il suo ricordo non l’aveva lasciato in pace per un secondo. Ad un certo punto, se l’era figurata in mezzo al pubblico, e ciò l’aveva portato a sbagliare un paio d’accordi – Ziggy se n’era accorto, ma aveva continuato a suonare con nonchalance.

Alla fine, l’aveva trovato un nome a ciò che provava per lei – o meglio, aveva accettato di chiamarlo col nome corretto. Tanto, che differenza faceva? Per lunedì mattina, Courtney sarebbe già stata la moglie di un altro e lui avrebbe voltato pagina.

Doveva voltare pagina.

Avrebbe voluto che fosse più semplice, voltare pagina.

Divertente, pensò mentre una smorfia gli deformava il volto. Fino a una settimana fa non la conosceva nemmeno, e ora il suo spettro lo tormentava in quella che avrebbe dovuto essere la sua notte trionfale.

Furono interrotti da tre colpi sulla porta. Il proprietario del locale entrò senza che nessuno lo invitasse a farlo.

«Scusate l’interruzione, ma c’è una ragazza che sta cercando lui.» annunciò, e indicò proprio Duncan.

«Se è per gli autografi, dille che escono fra un po’» rispose il manager del gruppo al suo posto, tentando di liquidarlo con un gesto della mano. «Il tempo di definire gli ultimi dettagli qua.»

«Non è una fan, ha detto di conoscerlo molto bene. A dire la verità, penso che sia abbastanza ubriaca, perché ha urlato più volte di essere un'avvocata e che tenterà il possibile per far chiudere il posto, se non-»

«Dov’è?»

Non riuscì a mascherare la fibrillazione nella sua voce.

«Fuori, sul retro. È-»

Ma Duncan era già lungo il corridoio, e camminava svelto verso l’uscita antincendio. Tirò giù il maniglione antipanico e fu investito da un venticello freddo. Avrebbe pure potuto beccarsi qualche malanno, poco importava in quel momento.

Courtney era talmente meravigliosa da mozzare il fiato. Non che normalmente non lo fosse, ma ritrovarsela davanti vestita, truccata e pettinata di tutto punto gliela faceva apparire ancora di più come un miraggio – incantevole, eterea, irraggiungibile. Eppure, era proprio lì. Per lui.

«Hai visto?» esordì con un filo di voce. «Non sono sparita.»

Avanzò cauto, come avrebbe fatto per attraversare un campo minato, e si fermò a diversi palmi dal suo volto. Coi tacchi era alta quanto lui, se non più alta di qualche centimetro, e questo gli permise di osservare per bene i suoi occhi scuri luccicanti di gioia. Erano splendidi, avrebbe potuto restare a fissarli per ore.

Fece scivolare le mani sui suoi fianchi, stringendo la presa – non che fosse necessario, perché lei non aveva alcuna intenzione di andare via. Era, piuttosto, per accertarsi che fosse reale, che non sarebbe arrivata nessuna metaforica secchiata d’acqua gelida a ridestarlo.

«Sei qui.»

«Sono qui.»

«Hai lasciato Scott.»

«Sì.»

«Ed eri al mio concerto.»

«Ho visto solo una parte. Sei stato incredibile.»

«Lo so. Infatti ci hanno fatto firmare seduta stante. Non serviva che me lo dicessi tu.»

Lei ridacchiò sommessamente, prendendogli il viso fra le mani.

«Certo che sei proprio un cretino!»

Il bacio fu meno passionale e vorace di quello della sera precedente, ma altrettanto intenso e, senza il retrogusto di alcol, persino più piacevole.

Si prese il tempo di esplorare la sua bocca, di assaporarla per bene. E lei rispondeva altrettanto lentamente, con altrettanta dedizione, ed era tutto così naturale, come non lo era mai stato prima di allora.

C’erano centinaia di parole fra le loro labbra che danzavano insieme, si separavano quanto bastava per riprendere fiato, e poi si ritrovavano con un piccolo sospiro – sono felice che tu sia qui. Resta, per favore. Voglio provare a farla funzionare.

Duncan si disse che avrebbe potuto cogliere la palla al balzo, e suggellare la scena degna di una commedia romantica con una dichiarazione passionale. Avrebbe potuto chiamare per nome i sentimenti che, fino a qualche minuto fa, l’avevano reso miserabile. Bastava una semplice frase vecchia quanto il mondo.

«Courtney?»

«Mhh?»

Ci ripensò. Dopotutto, che fretta c’era?

«Domattina dovrei riportare la macchina a Rochester. Vuoi venire con me?»
















Angolo dell’autrice

Anzitutto, chiedo scusa alla gente – semmai ci fosse ancora qualcuno interessato – che ha atteso per quattro mesi questo epilogo. Mi dispiace avervi fatto penare così a lungo, non era mia intenzione, ma sono davvero stati mesi intensi.

Comunque, è strano mettere un punto fermo. Ho iniziato a scrivere i primi due capitoli durante quello che, senza troppi giri di parole, è stato uno dei periodi peggiori della mia vita, e portare avanti questo piccolo progetto era tra le pochissime cose per cui mi svegliavo la mattina.

Più andavo avanti, più mi ponevo obiettivi, e più cominciavo a vedere la cosiddetta luce in fondo al tunnel. Se oggi va meglio – non benissimo, ma sicuramente meglio – è anche grazie a questa storia, che mi ha aiutata a non lasciarmi andare. E sapere che, dall’altra parte dello schermo, c’era qualcuno a leggere e ad apprezzare è stato doppiamente importante, e mi ha spronata ancora di più a fare meglio. Quindi, grazie. Davvero.

Non so cosa succederà poi, sto imparando a vivere giorno per giorno e non pormi troppi obiettivi a lungo termine. So solo che sono passati anni, ma questo fandom ha sempre rappresentato una zona di comfort, e tornarci dopo lunghi periodi di inattività è un po’ come tornare a casa.

Magari avrete presto nuove notizie della sottoscritta, magari no.

Fino ad allora, vi ringrazio nuovamente per avermi seguita fino a qui! xx

  
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