Jaime
lanciò e fece canestro, poi toccò a Heath. Tre
tiri, tre cilecche.
– A casa
è uno schifo. Una pazza mi ha rubato la camera e anche mia
madre sta dando i numeri.
– La mia li
dà tutti i giorni. La pazza sarebbe la ragazzina con i
capelli neri? Non sembra male.
–
L’ho sempre saputo che hai dei gusti di merda.
– Infatti
gioco a basket con te e in più sono tuo amico. Comunque ti
sbagli, lei è carina.
– Lasciala
perdere, fidati.
Heath si
asciugò il sudore nella maglietta e corse a recuperare la
palla. Dovette chinarsi e strisciare sotto a un cespuglio di rovi per
arrivarci, ma quello era il regolamento: chi sbagliava il tiro andava a
recuperare la palla, ovunque fosse. Heath riemerse dai rovi graffiato,
impolverato e avvilito. Non che gli dispiacesse stare con Jaime, ma
fino a un mesetto prima non sarebbe stato lì con il moccioso
a sfogarsi su una palla da basket. Sarebbe stato con Rivkah su una
coperta a guardare il cielo, a parlare delle loro madri isteriche
mentre le infilava una mano sotto la minigonna e poi…
E poi Riv gli avrebbe
dato uno schiaffo. Avrebbe preteso di sapere cosa era successo, come
stava lui, come andavano le cose. Dovevano parlare, loro, comunicare.
Ma dopo… Beh, almeno dopo ci sarebbe stato il dopo.
Meno male che non
aveva davvero un display acceso sulla fronte: a Jaime non sarebbe
piaciuto il filmino che scorreva in quel momento sul suo schermo
personale, in dolby surround.
– Sei messo
male, una volta un centro ogni tanto lo facevi.
– Ma
sentilo, Michael Jordan dei poveri. Ti batto quando voglio.
Invece di rilanciare
la palla a Jaime per il suo turno, Heath fece un paio di palleggi,
schivò un avversario immaginario, piroettò su se
stesso e lanciò.
Cilecca di nuovo,
ovviamente. Ma Jaime andò a recuperare la palla per lui.
– Che stavi
dicendo di tua madre?
Luglio avanzava ed era
passato il mezzogiorno; era un anno insolitamente caldo e
l’aria soffocante comprimeva i polmoni.
– Heath? Sei
con me?
Il ragazzino si era
avvicinato con la palla in una mano e la bottiglia dell’acqua
nell’altra. Gli stava offrendo da bere.
– Scusami,
sono un pacco.
Il prato brulicava di
gente che prendeva il sole. Passò un drappello di ragazzine
di seconda, le coperte sotto braccio, che li squadrò per
bene. Qualcuna nella combriccola fischiò e
un’altra rise forte girandosi verso un’amica.
Heath non se ne
accorse nemmeno.
– Guardavano
te. Forse dovresti…
– Magari
guardavano te, invece. Io di donne non voglio più saperne
niente.
Non era da lui farsi
beccare così… ferito? No, la parola giusta era
un’altra. Il termine tecnico era
«sfigato».
Vabbè, che
altro aveva da perdere?
– Come sta
Rivkah?
Nessuna risposta.
–
Dov’è andata tua sorella, oggi? Ancora al fiume?
Jaime alzò
gli occhi al cielo.
– Ma che
cazzo, Jaime! Ho solo chiesto dov’è!
– Non
è vero, mi hai chiesto anche come sta ma non fa differenza,
tanto non te lo posso dire. Non posso neanche nominarla davanti a te,
se vuoi saperlo. Ci tengo alla pelle, io.
Heath, in pantaloncini
da basket, si lasciò cadere sulla scalinata di cemento ma
schizzò subito in piedi come una molla.
– Scottato
il culo, Riley? Forse non sei stato una gran perdita per la squadra,
dopo tutto.
Mick Donovan e il suo
codazzo di cretini sghignazzavano senza ritegno. Si disposero sul campo
e cominciarono a passarsi una palla da basket. Mick
palleggiò e lanciò la palla in faccia a Heath,
che la fermò con le mani a un centimetro dal naso.
– Non esci
più con sua sorella – latrò Donovan
indicando Jaime – si è stancata di fare
beneficienza? Potrei mettermi in lista io, magari. Forse è
maturata e ha dei gusti migliori.
Ci pensarono Jaime da
una parte e gli scagnozzi dall’altra, che erano venuti per
giocare e non per una rissa, a tenerli fermi tutti e due. Portarono
Mick Donovan lontano, verso il centro del campo, e fecero segno a Heath
e Jaime di levarsi dai coglioni.
Jaime stese
l’asciugamano sul prato e i due si sistemarono
l’uno accanto all’altro.
– Stammi
lontano, non voglio che pensino che mi sono fidanzato con te.
– Non prendo
mai gli avanzi di mia sorella. Ehi, va tanto da schifo?
Heath era stufo di
fare il duro.
– Tua
sorella non mi vuole. Mia madre mi massacra, non mi perdona di non
voler andare al college. Non avevo idea che per lei fosse
così importante. Non so, pare che se non ci vado si
scatenerà la fine del mondo.
– E tuo
padre?
–
È come se avesse delegato la faccenda a lei… Sta
zitto e guarda cosa succede.
– E tu?
– Io cosa?
– E tu, tu
che cosa vuoi fare?
Heath non ci dovette
pensare molto.
– Io voglio
che non cambi niente.
Non era vero. Voleva
che cambiasse almeno una cosa: che Rivkah tornasse sua amica. Che si
desse una calmata e tutto tornasse come prima.
Le luci di casa Riley
erano ancora spente, quando Heath rientrò quella sera;
tutte, tranne quella della cucina. Il tramonto lanciava lunghe ombre
rosso scuro ai piedi dei pini, ombre che ai bordi diventavano viola e
presto avrebbero annunciato la notte.
La porta
d’ingresso non era mai chiusa a chiave, perché
nessuno avrebbe violato la casa del guardaparco. Heath spinse la porta
ed entrò per la doccia della sera.
Dalla cucina
arrivarono le voci di sua madre e di suo padre.
–
Non ho mai capito perché non vuoi dirgli la
verità. Avremmo dovuto dirgliela subito. Ci sono cose che
sembrano grosse e invece non lo sono, ma se aspetti poi crescono come
bombe di merda.
– Isaias!
– Isaias un
accidente. Avremmo dovuto dirglielo fin da piccolo, così si
sarebbe abituato, non ci sarebbe stato niente di strano, no? Adesso
invece…
Neena si chiuse le
orecchie con le mani.
– Non
gliel’abbiamo detto perché non c’era
niente da sapere.
In due passi Isaias la
raggiunse e Neena notò, curiosamente – i dettagli
più stupidi nei momenti più assurdi –
che le gambe del marito erano lunghe, e che se fosse stata lei a dover
fare quei passi non ne avrebbe fatti due, ma all’incirca
quattro.
– Ascoltami.
Ehi, guarda me. Io ti adoro, sei l’amore della mia vita.
Queste cose te le dico perché ti amo e perché
devi andare avanti. Come fai a dire che non c’era niente da
sapere? Ci credi davvero, a questa stronzata?
– Non
c’è niente da sapere!
– Neena,
cazzo!
La donna si tolse le
mani di lui dalle spalle. Cercò con gli occhi una via di
fuga. Raggiunse la porta, ma prima di uscire parlò ancora.
– Il sangue
è sangue, Isaias. Non c’è niente da
sapere. Punto.
– Cosa ci
sarebbe, da sapere?
Per poco Neena non
sbatté contro il petto di suo figlio, e sbiancò.
Da quanto tempo era
lì?
– Sono cose
che non ti riguardano, roba tra me e tuo padre. Giusto, Isaias?
Isaias strinse le
labbra.
– Isaias!
Erano tutti e tre
attorno al tavolo della cucina, adesso, il ronzio del freezer a
sottolineare il vuoto delle parole, che attendeva di essere riempito.
Neena e Isaias restarono in piedi uno di fronte all’altra a
sfidarsi.
– Cosa sta
succedendo, qui?
Neena si
irrigidì. Le pupille nere divennero due puntini nel volto
pallido.
– Isaias.
Il guardaparco
curvò le spalle.
– Non sta
succedendo niente, ragazzo. Non sta succedendo proprio niente. Cose
nostre che non ti riguardano.
Neena li
lasciò. Dopo neanche mezzo minuto, l’uomo e il
ragazzo sentirono la sua auto mettersi in moto e partire. Il motore fu
inghiottito nel silenzio della notte imminente.
Nella cucina
aleggiavano ancora gli odori della colazione. Heath avrebbe volentieri
ricominciato da capo, dai pancakes magari, ma Sacco d’Ossa
fece il suo ingresso silenzioso. Gesù, aveva davvero bisogno
di mettere su un po’ di carne. Sembrava malata, forse lo era
davvero. Magari aveva una malattia seria.
Doveva dirle qualcosa
di carino?
– Allora,
sei pronta?
Anna lo
fissò, tremante.
Ma cosa cavolo ho
detto di sbagliato?
– Ehi, tutto
ok? Ti senti… Vuoi che rimandiamo?
– No, no,
tutto bene – rispose Donald per lei, arrossendo –
è solo emozionata. Sei emozionata, vero, tesoro?
Ancora nessuna
risposta.
–
È la sua prima gita in montagna.
– Su, cara,
dovete partire. Non si va in montagna così tardi, il tempo
può cambiare in fretta – disse Neena per tutti.
Heath si pulì la bocca e raccolse da terra lo zaino. Buck,
ammesso in cucina per l’occasione, grattò la porta.
– Allora noi
andiamo. Ma’, torniamo prima di cena. Avremo molta, molta,
fame.
– Hai
mangiato come quattro orsi, stamattina. Va’ a fare un
po’ di movimento, va’.
Così Heath
si avviò e dovette girarsi due volte per essere sicuro che
la ragazzina lo stesse seguendo. Buck li precedette sul sentiero che
entrava nella foresta, sulla pista lungo la quale loro due correvano
quasi ogni giorno.
Heath aveva scelto un
percorso semplice, una passeggiata abbastanza lunga ma tutta in costa:
niente salite ripide e una bella alternanza di prato e bosco con
qualche punto panoramico. Avrebbe potuto farla a occhi chiusi, non era
il giro che avrebbe scelto per se stesso e Buck, ma così
sarebbe andato sul sicuro. Non era certo che la tipa fosse in grado di
reggere una camminata seria.
«È
più forte di quello che sembra» aveva insistito
Donald. L’uomo dalla barbetta rossa l’aveva
ringraziato quasi piangendo e Heath avrebbe voluto sprofondare.
Dovevano essere messi proprio male, quei due.
I passi di Anna erano
dei leggeri pof pof alle sue spalle, perché la ragazzina non
aveva scarponi e Neena gliene aveva prestato un paio dei suoi, troppo
larghi. Il ritmo non era sempre regolare; di tanto in tanto Sacco
d’Ossa doveva accelerare per non perderlo, e allora Heath si
sforzava di rallentare, sbuffando. A quel ritmo non sarebbero arrivati
mai più.
Anna non gli andava
mai troppo vicino, restava sempre qualche passo indietro.
A Bellevue Point, una
terrazza di pietra sospesa su un burrone, fecero la prima sosta.
C’erano un paio di panchine a una ragionevole distanza dalle
protezioni, ma si poteva anche salire poco più su, fino a
una seconda terrazza più piccola dove ci si sentiva davvero
sospesi nel vuoto.
– Guarda. Se
facciamo ancora quei dieci metri, vedremo la valle come se stessimo
volando.
Si era raccolta i
capelli in una treccia. Le lentiggini non erano molte, sembravano di
più perché lei arrossiva in continuazione. Forse
era anche colpa del sole. La prima volta che l’aveva vista,
nella loro cucina, era bianca come un tovagliolo.
Lei non disse niente,
si limitò ad assentire dopo uno sguardo veloce al punto
indicato da Heath.
In cima alla rupe il
ragazzo tolse lo zaino e si sedette, poi batté con la mano
sulla roccia coperta di licheni di fianco a sé.
– Siediti,
questo posto merita una sosta.
Anna si
sistemò dove Heath le aveva indicato – il
più lontano possibile. Il ragazzo osservava il suo viso
mentre, poco a poco, lei si rendeva conto di ciò che stavano
guardando.
Davanti a loro si
stendeva la valle dell’Eden.
Adamo ed Eva dovevano
aver visto qualcosa del genere, se nel Paradiso Terrestre
c’erano state delle montagne. Heath se ne stupiva ogni volta
e di paesaggi ne aveva visti parecchi, seguendo Isaias sulle piste del
parco. Nella direzione in cui si sarebbe dovuto scorgere qualche segno
di presenza umana, non si vedeva niente che fosse stato creato
dall’uomo. C’erano solo rilievi più
bassi e alberi, moltissimi alberi, un mare d’alberi a perdita
d’occhio, soprattutto foreste di conifere. Qua e
là spiccavano irregolari macchie verdi più
chiare, che si tingevano di viola sfumando in lontananza. Niente
costruzioni, tralicci, sentieri, niente di niente: solo la magia
dell’inizio del mondo.
Gli occhi della
ragazzina si spalancarono, le labbra si aprirono leggermente
– la sua bocca un giorno sarebbe stata bella, forse. Heath fu
certo che lei aveva capito.
Poi Buck si
materializzò nel loro campo visivo.
– Oh, Dio.
Zitta, non chiamarlo. Non parlare.
Dieci metri
più a destra sulla parete di roccia, un altro spuntone si
sporgeva nel vuoto e su quello Buck, in piedi, immergeva il muso nelle
folate di vento che risalivano la montagna. Il pelo lungo e morbido
attorno al collo ondeggiava, come le chiome degli alberi nella valle
sotto le raffiche più forti. Le orecchie puntate
all’indietro, il muso in alto, Buck sembrava cercare qualcosa
nel cielo. Sotto di lui, trecento metri di strapiombo.
– Devo
andare a prenderlo.
– Dovevi
legarlo.
Heath riprese la
pista, che in quel punto si tuffava tra gli alberi.
– Come dici,
scusa?
– Che devi
legarlo. Se c’è pericolo devi legarlo.
– Tu sei
matta, non gli farei mai una cosa del genere.
Ormai correva e non
gli importava più che Sacco d’Ossa gli tenesse
dietro. Trovò sulla sinistra un sentiero meno battuto, dove
l’erba piegata denunciava un passaggio recente, e poi gli
alberi si aprirono ancora e ad un paio di metri ora Buck lo guardava,
la vastità della vallata alle spalle.
– Vieni,
amico. Piano piano. Vieni da me.
La grossa testa si
abbassò, gli occhi buoni a cercare quelli del ragazzo. Buck
girò su se stesso; ora aveva le spalle allo strapiombo, le
zampe posteriori a pochi centimetri dal vuoto.
– Bravo.
Adesso vieni da me.
La ragazzina trattenne
il fiato e il suo terrore gelava l’aria. Heath si rese conto
che anche lui aveva smesso di respirare. Arretrò piano, una
mano tesa verso il muso di Buck, e in pochi secondi la lingua di roccia
si allargò, e fu di nuovo prato e terra sotto i loro piedi.
Si
inginocchiò e cinse il collo del lupo.
– Senti, lo
so che sei in gamba ma è meglio se non lo fai
più, capito? Lì il vento è forte,
io…
Heath nascose la
faccia nel pelo del collo di Buck. Poi si riscosse; Anna lo fissava,
imbarazzata.
– Andiamo o
non arriveremo più.
– Secondo me
dovevi legarlo.
Buck
uggiolò.
Heath
guardò malissimo tutti e due e si rimise in cammino.
Si accorse del
balletto tra i due su un pianoro, dopo che gli alberi si erano aperti
e, poco a poco, il bosco si era trasformato in prato.
Buck si era fermato ad
annusare qualcosa; Anna partì trotterellando sotto il peso
del suo zaino e si fermò qualche metro più
avanti. Poi un piccolo stormo di towhee si alzò in volo a
fianco della pista e Buck si lanciò verso di loro; Anna
allora scattò indietro. Alla fine, Heath si ritrovava sempre
nel mezzo.
– Ok. Che
state facendo, voi due?
Uno non poteva parlare
e all’altra si dovevano etrarre le parole con la tenaglia,
così nessuno dei due gli rispose.
– Hai paura
di Buck? Gli stai lontana?
Anna batté
gli occhi e assentì.
– Nah, non
ci credo.
Gli occhi azzurri si
dilatarono; la ragazzina se la cavava meglio con quelli che con le
parole.
Heath
osservò prima uno, poi l’altra.
Buck pesava una volta
e mezza Anna, libbra più, libbra meno. E aveva le zanne. Va
bene, forse a qualcuno poteva incutere un po’ di timore. Non
tutti lo avevano visto… come l’aveva visto lui.
Piccolo. Indifeso.
In balia di un mostro.
Aveva allattato Buck
con un biberon: poteva crescere finché voleva, per lui
sarebbe rimasto sempre un cucciolo.
– Vieni qui.
Le tese la mano.
– Dai,
avvicinati. Va tutto bene, te lo prometto.
Anna non si mosse.
– Lo so che
ce la puoi fare. Dai, vieni. Non volevi toccarlo, l’altro
giorno?
Anna
arrossì come i gigli rossi che punteggiavano
l’erba alta, poi finalmente fece un passo e poi un altro
mentre Heath stendeva una mano verso di lei; quando fu abbastanza
vicina, il ragazzo credette di prendere la mano di lei, dalle lunghe
dita magre, ma Anna se la ficcò in tasca.
Beh, almeno si era
avvicinata.
– Mettiti
dietro di me, così sei più tranquilla –
e se la spinse dietro le spalle. Poi lanciò un fischio, con
due dita in bocca.
Buck partì
come un bolide e Anna piantò le unghie negli avambracci di
Heath.
– Ahia,
così mi fai male! Qua, bello. Guarda che bella pancia pelosa
che hai.
Il lupo si rotolava
sulla schiena, prima da una parte e poi dall’altra, la lingua
di fuori; Heath in ginocchio gli grattava la pancia dove la pelliccia
era meno folta e più chiara, quasi bianca in certi punti. A
tradimento prese una mano di Anna e la posò dove il pelo era
chiaro e morbido. Buck mugolò di piacere, Anna si
irrigidì ma Heath non mollò, le tenne ferma la
mano e la portò sul testone di Buck, dietro le orecchie; e
allora lei si rassegnò. Si lasciò andare. Buck si
mise a pancia in giù, come una specie di sfinge lupesca con
un curioso sorriso sul volto.
In quel momento
suonò il cellulare di Heath.
– Riv. Riv,
ti ho chiamato un milione di… Cazzo significa non sono mia sorella sono Jaime?
Perché mi chiami col suo telefono, idiota?
Anna e Buck lo
fissavano. Bene, che perfetta figura da sfigato. Diede loro le spalle e
si allontanò a lato del sentiero fin dove cominciava lo
strapiombo. E meglio che Jaime avesse un’ottima ragione per
fargli fare la parte del povero illuso, altrimenti l’avrebbe
ridotto in polpette, tenere polpette da mettere nel pappone di Buck.
La ragazzina
l’accarezzava ancora, le mani leggere, come avesse paura di
fargli male.
– Ehi. Vuoi
dirmi qualcosa?
Buck era felice di
tutte queste attenzioni. Lei gli piaceva, aveva una voce gentile.
Doveva farglielo capire; non aveva mai avuto intenzione di spaventarla.
Le leccò una guancia.
– Un bacio?
Questo è un bacio?
Doveva ripulirla dalla
paura, perciò la leccò ancora; poi si
alzò e lei lo imitò e allora le posò
le zampe anteriori sulle spalle. La piccola femmina d’uomo
ruzzolò a terra e rise. La fece rialzare aiutandola col
muso, e dovette indicarle dove sarebbero andati, dove qualcuno li
aspettava.
– Vuoi che
venga con te?
Si strinse alle sue
gambe e la guidò spingendola un poco: con certi umani si
doveva essere molto chiari.
– Mi fido di
te. Certo che mi fido.
Buck annusò
l’aria: l’odore era forte, la direzione precisa.
Guardò Anna e attese che lei avesse capito, che lo seguisse.
Faceva molto rumore e non sapeva camminare nella foresta, ma con lui
non aveva nulla da temere.
Lui
l’avrebbe protetta, sempre, come faceva con il Ragazzo Lupo.
Anna vedeva solo la
coda grigia e la schiena d’argento. Passò
trasognata tra i fiori selvatici, nella luce verde del sottobosco;
macchie di sole chiazzavano il verde scuro degli arbusti, come le
macchie sul dorso di un cerbiatto.
***
– Quindi
adesso non vuole vedere nemmeno te? Tua sorella ha un caratteraccio.
Non ti invidio, J. E comprati un telefono.
Heath chiuse la
chiamata. Lì per lì ci era rimasto talmente male,
quando aveva capito che non era Rivkah, che non aveva nemmeno
ringraziato Jaime per le notizie.
Pareva che Riv avesse
litigato con tutti nel raggio di tre miglia e si fosse rifugiata a casa
di Debbie, dimenticando il cellulare a casa per non farsi rintracciare.
E Jaime, che si era fatto di nuovo sbriciolare il telefono da Donovan,
aveva usato quello della sorella per avvertirlo.
Un’altra
figuraccia. Per come aveva reagito, Jaime avrebbe pensato che era
innamorato di Rivkah.
Era innamorato di
Rivkah?
In quel momento Heath
si accorse che era solo.
Anna e Buck erano
scomparsi.
Il sole scendeva
rapido; la neve caduta in alta montagna nei giorni precedenti divenne
arancio e poi rosso sangue e poi violetto, e nel blu che si faceva via
via più intenso si accese come un diamante la Stella del
Lupo, la sorella estiva della luminosa Sirio.
Le ombre si fecero
più lunghe, il giorno fu vinto dal crepuscolo; quando
l’ultimo raggio di sole trafisse
l’oscurità del sottobosco, tra due grossi larici
qualcosa sfavillò, qualcosa che somigliava alla prima stella.
Due gemme scintillanti.
Anna
trasalì e si nascose dietro a Buck, che abbaiò
festoso.
Dal buio
avanzò una forma indefinita, come di fumo grigio, poi i
contorni si fecero precisi; le due gemme erano incastonate in una testa
dal profilo delicato, che terminava in un musetto nero e appuntito. Le
orecchie della taglia sbagliata – troppo grosse –
fremevano di preoccupazione.
La creatura
avanzò tremando, fatata e indifesa, attraverso un raggio
dell’ultima luce.
Il nuovo lupo era di
taglia piccola e costituzione leggera, forse i due terzi di Buck, o
addirittura la metà; aveva zampe secche e,
all’altezza delle giunture, nocche nodose sotto la pelle tesa.
Dovrei avere paura di
te? No, non ci riesco.
La ragazzina non
capiva niente di cani né tantomeno di lupi, ma quello doveva
essere un esemplare giovane o una femmina. Una piccola femmina, e aveva
più paura di lei. Anna si sentì invadere dalla
tenerezza.
Buck
chiamò, ancora; il lupo più piccolo fece un passo
e si piegò sulle zampe anteriori. Sospettoso,
allungò una zampa e poi la ritrasse, tenendola sospesa a
mezz’aria.
Buck, impaziente,
l’invitò di nuovo.
– Voi vi
conoscete! È un tuo amico, Buck?
Il mezzo lupo
confermò. Saltò da Anna all’altra
creatura, abbaiando, e allora il lupo nero si decise; si
avvicinò, ancora e ancora. Apparvero le mammelle sulla
pancia spelacchiata.
–
È una tua amica! È la tua… fidanzata?
Anna
allungò la mano. La lupetta nera si ritrasse e con un paio
di salti tornò al limitare della foresta, il petto tremante.
– Non le
farò del male, come potrei? Diglielo.
Buck si fece capire;
la lupa fece finta di niente e girò la testa verso il cielo.
Dietro le rocce frastagliate, un chiarore bianco annunciava il sorgere
della luna.
–
È bellissima, una vera bellezza. Come questa notte. Ehi,
credo che ti chiamerò Notte.
Buck raggiunse Notte.
Era ora di andare.
I due si avviarono,
Notte davanti, Buck alle sue calcagna ma, proprio prima di scomparire
nel buio, ritornò ai piedi di Anna.
Posso fidarmi di te?
Gli occhi
di Buck erano ormai familiari ad Anna, ma non fu quello a convincerla:
in quel momento la ragazzina ci vide la luce delle stelle, che si accendevano sempre più numerose.
Il primo passo fu
esitante, il secondo più leggero.
Dimentica di tutto,
Anna si inoltrò nella foresta con i lupi.
Ma buonasera :) Solo
due parole per ringraziare chi legge e ancora di più chi
recensisce. Spero che questa storia possa farvi compagnia sotto
l'ombrellone. Un caro abbraccio!
J.
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