Time
after time I
lose again
Il bus gremito di passeggeri frenò bruscamente e Jia
rafforzò la stretta sul palo giallo vivido per evitare di
perdere l’equilibrio.
Le porte del mezzo si spalancarono e una nuova orda di sconosciuti si
riversò
nello spazio già angusto; la ragazzina fu costretta a
schiacciarsi maggiormente
contro uno dei sedili occupati, stringendo forte a sé lo
zaino che custodiva i
suoi adorati pattini. Aveva il terrore che, venendo sballottati da una
parte
all’altra, potessero in qualche modo rovinarsi.
Non posava lo sguardo sul volto di nessuno dei suoi compagni
di viaggio, lo perdeva unicamente fuori dal finestrino per due
principali
motivi: non voleva rischiare di scendere alla fermata sbagliata e aveva
paura
che gli altri notassero il leggero rossore dei suoi occhi.
Si sentiva spossata, svuotata completamente. Nella sua testa
in quel momento si susseguivano solo figure e coreografie da eseguire
in bilico
sui pattini, intervallate da un senso di fallimento che conosceva fin
troppo bene
nonostante i suoi tredici anni appena compiuti.
Ogni volta che decideva di cambiare, ogni volta che provava
a partire con le migliori intenzioni, finiva per fallire, sbagliare
qualcosa e
non riuscire.
Cambiare scuola quell’anno aveva fatto scattare qualcosa in
lei. Quando aveva appreso che sarebbe entrata a far parte di un
ambiente nuovo,
in cui non conosceva nessuno e nessuno la conosceva, si era per la
prima volta
soffermata a pensare a tutti coloro che criticavano il suo carattere
ostile e
poco aperto. Dovresti essere un po’ più
gentile e carina per piacere agli
altri, le era stato detto per anni da maestre, compagni di
classe e
ragazzini del gruppo di pattinaggio. Lei ci era sempre passata sopra,
troppo
immatura per capire che forse parte della responsabilità era
sua – in quale
altro modo si sarebbe dovuta comportare se le era stato insegnato solo
quello?
Erano gli altri a essere sbagliati, non lei.
Ma forse se lei fosse cambiata, anche solo di un pochino, le
cose sarebbero andate meglio. Se avesse abbandonato
quell’atteggiamento sempre
critico verso gli altri, se il suo solito broncio qualche volta avesse
ceduto
il posto a un sorriso, le cose sarebbero davvero andate meglio.
Si era sempre sentita così sola, rinchiusa nel suo mondo
privo di affetto e calore costituito da una casa troppo grande e poco
vissuta,
in cui l’unico modo per avere attenzioni era eccellere e ogni
espressione di
emozioni pareva vietata. Forse non si era mai nemmeno resa conto di
quanto
questa solitudine fosse pesante e l’avesse segnata.
Un cambiamento, ecco cosa ci voleva.
Ma Jia, per cambiare, non sapeva nemmeno da che parte
cominciare.
Il primo giorno di scuola era stato un inferno: ai suoi
compagni bastava uno scambio di sguardi per instaurare una prima
complicità e
cominciare a chiacchierare, mentre lei si sentiva così
imbarazzata che non
riusciva nemmeno a sostenere le loro occhiate. Non sapeva proprio come
comportarsi, cosa dire e come farlo, come cominciare una conversazione.
Non le
piaceva nessuno, sentiva di non avere nulla in comune con loro, li
vedeva come
degli avversari – la gara stava nel dimostrare di essere
bravi a farsi degli
amici, ma era una competizione che Jia aveva già perso in
partenza.
Così aggraziata e disinvolta quando danzava sui pattini,
così rigida e impacciata quando doveva rivolgere la parola
ai suoi vicini di
banco, fosse anche solo per chiedere una penna in prestito.
I bronci non lasciarono mai posto ai sorrisi.
La sua corazza di prepotenza e superbia venne nuovamente a
galla, più forte di prima. Jia sentiva di doversi in qualche
modo difendere da
loro, che erano tanti e tutti alleati, mentre lei era da sola ed era
quella
diversa, che non piaceva a nessuno. Doveva dimostrare di essere brava
almeno in
qualcosa – in matematica, nel pattinaggio, a maltrattare i
suoi coetanei,
qualsiasi cosa sarebbe andata bene.
Più loro si allontanavano, più lei li chiudeva
fuori dal suo mondo.
Più lei li chiudeva fuori dal suo mondo, più loro
l’allontanavano.
E, anche se non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, ogni
giorno il suo cuore andava in frantumi insieme alle sue speranze
iniziali di
cambiare, essere una Jia migliore.
Alla fine era di nuovo sola. Alla fine nemmeno la buona
volontà che ci aveva messo era stata abbastanza.
Ogni giorno apriva gli occhi e veniva assalita da un senso
di delusione, pesantezza, fallimento. La storia si ripeteva: prima
respinta dai
suoi genitori troppo presi dal loro lavoro, ora respinta dai compagni
di
classe.
Ma la goccia che aveva fatto traboccare il vaso era arrivata
quel pomeriggio, quando si era sentita per la prima volta tagliata
fuori
ufficialmente. Aveva scoperto quasi per caso, sui social, che alcuni
ragazzi
del suo stesso anno stavano organizzando una festa e avevano invitato
tutti.
Tutti tranne lei.
Jia non era affatto una tipa da feste e probabilmente, anche
se l’avessero invitata, avrebbe declinato e trascorso la sua
serata al
palaghiaccio. Ma quella notizia l’aveva colpita in una
maniera inaspettata,
come se il terreno avesse ceduto sotto i suoi piedi.
Non me ne importa niente, al diavolo loro e la loro
festicciola da idioti, si era detta con rabbia, ma qualche
dopo si era
ritrovata a piangere senza controllo con il viso affondato nel cuscino
e gli
auricolari alle orecchie. Nemmeno la musica metal al massimo del volume
riusciva a coprire i suoi pensieri, che gridavano sempre più
forte di tutto e
tutti; e se da una parte la sua mente continuava a ripetere che non
gliene
fregava niente, il cuore si domandava disperatamente cosa avesse fatto
per
meritare un trattamento simile. Certo, sapeva di essere diversa, sapeva
anche
di non essere stata poi tanto carina con i suoi compagni, ma non era
riuscita a
trovare altre alternative. Ci aveva provato, ma non era servito a
niente.
E quell’invito mancato era l’inequivocabile e
ufficiale
conferma del suo fallimento. Aveva perso. Non ce l’aveva
fatta. Forse per lei
non ci sarebbe mai stata speranza.
Era tanto tempo che non piangeva come quel pomeriggio. Le
lacrime di Jia erano sempre silenziose, piene di vergogna come ladre
colte sul
fatto, segrete; a nessuno importavano, i suoi genitori erano sempre
assenti, e
in ogni caso non sarebbero mai andati a bussare alla porta della sua
cameretta
per sapere come stava.
Tanto lei avrebbe risposto bene a prescindere,
così
le avevano insegnato. Tanto le sue lacrime non gliele avrebbe fatte
vedere; non
le avrebbe mostrate a nessuno. Erano qualcosa di cui lei stessa si
vergognava,
che detestava perché la facevano sentire debole.
E mentre stava sdraiata sul letto, con quelle goccioline
amare che le scorrevano sulle guance e le piovevano sui capelli e
bagnavano il
cuscino, si lasciava trasportare dalla musica… e
improvvisamente ecco che una
coreografia si andava a formare nella sua mente, immagini di trottole,
flip e
axel perfettamente collocati all’interno del brano che le
inondava le orecchie.
Il suo corpo avrebbe saputo esattamente come muoversi, in quale istante
darsi
lo slancio, quale centimetro della pista coprire.
In quel momento Jia aveva ricominciato a respirare, si era appigliata
a quei pensieri e a quelle immagini che parevano tenderle la mano,
volerla
aiutare a riemergere da quell’oceano di disperazione che la
stava inghiottendo.
Il pattinaggio non risolveva i suoi problemi, ma era l’unico
aspetto della sua vita in cui non sentiva di fallire ogni giorno. Le
capitavano
delle giornate storte, si innervosiva, se la prendeva con se stessa, ma
provava
e riprovava finché non riusciva, giorno dopo giorno, e alla
fine la battaglia
con se stessa la vinceva.
Sui pattini non falliva.
Sui pattini si sentiva brava.
Sui pattini sentiva finalmente di valere qualcosa.
Aveva riposto i suoi auricolari in una tasca della borsa ed
era sgattaiolata fuori casa senza che nessuno se ne accorgesse.
Era scappata di casa.
Aveva ben chiara in mente la sua meta, ma non voleva farlo
sapere a nessuno. In genere era sua madre o l’autista della
famiglia ad
accompagnarla, ma i suoi genitori – soprattutto suo padre
– non avrebbe
apprezzato di saperla al palaghiaccio in un giorno in cui di solito non
aveva lezione.
Nel suo ideale, Jia doveva stare a casa a studiare per prendere buoni
voti.
Conosceva la strada, la vedeva scorrere fuori dal finestrino
da anni, non sarebbe stato difficile.
Aveva cercato un autobus che andasse nella giusta direzione
e, con le mani che tremavano appena, aveva atteso alla fermata. Erano
circa le
sei del pomeriggio, faceva fresco e il sole era appena calato, lei
stava
prendendo i mezzi per la prima volta ed era da sola, al buio, senza
biglietto.
Non riusciva nemmeno a sentirsi impaurita per quella
situazione, il pianto l’aveva stremata e ora la sua mente era
in grado di
concentrarsi solo sul suo obiettivo.
Pensava ai suoi compagni che prendevano il pullman per
tornare a casa da scuola e percorrevano la stessa strada, ma lei non si
era mai
potuta unire a loro perché c’era sempre qualcuno
che veniva a prenderla in
auto.
Pensava ai suoi occhi che forse erano ancora rossi e lei non
lo poteva accettare; era uscita nuovamente allo scoperto, si era
immersa nel
mondo e quindi era tornata la Jia di sempre, quella imperscrutabile e
fredda,
che apparentemente non provava nessuna emozione.
Pensava a quanto la sua famiglia benestante l’avesse
limitata in quegli anni, tolto esperienze che alla sua età i
suoi coetanei
facevano, imposto rigide regole sull’organizzazione della sua
giornata.
Quando il bus arrivò, lei vi salì senza voltarsi
indietro.
Non sapeva assolutamente come muoversi da sola per la città,
eppure quella
libertà le metteva addosso un senso di soddisfazione ed
euforia incredibili.
Aveva controllato su internet il nome della fermata a cui
sarebbe dovuta scendere, così quando lo lesse sullo schermo
luminoso si allungò
per prenotarla. Ce la stava facendo.
Il mezzo si fermò, le porte si spalancarono e sulla banchina
comparve la figura di una ragazzina slanciata, così esile
che sembrava sul
punto di spezzarsi eppure dal passo deciso e fermo; lunghi capelli
lisci
piovevano attorno al suo volto dai tratti orientali e
l’espressione
corrucciata, sulle spalle portava uno zaino che racchiudeva gli unici
oggetti
di cui aveva bisogno per continuare a vivere – i pattini.
Tutto in lei gridava: che mi vogliate o no, io sono
ancora qui.
“È il tuo giorno libero.” Celia spostava
il suo sguardo
perplesso dalla figura di Jia al gruppo di bambini che scivolavano sul
ghiaccio
– in quella fascia oraria solitamente faceva lezione agli
allievi dagli otto ai
dieci anni.
“No” ribatté Jia in tono piatto,
estraendo i pattini dalla
borsa.
“Sì invece. Il mercoledì non hai
allenamento, abbiamo
concordato così. Abbiamo deciso che i giorni di
pausa…”
“Non mi servono dei giorni di pausa” la interruppe
la
ragazzina con una fermezza quasi inquietante.
Era tornata a essere lei, la solita Jia, quella che faceva
tutto di testa sua.
“Tua madre sa che sei qui?” Senza prestare troppa
attenzione
alla risposta, Celia si voltò verso i ragazzini della
lezione serale e si portò
le mani sui fianchi. “Tommy, lascia stare Mariam! Te
l’ho già detto una volta:
se continui a comportarti così non ti iscriverò
al torneo junior del prossimo
mese, e non è una minaccia a vuoto!”
gridò rivolta a due bambini che si
accapigliavano a bordo pista.
“No, non lo sa” borbottò Jia, sperando
che nel baccano
generale le sue parole si perdessero.
“Come sarebbe a dire che non lo sa?! E come sei arrivata fin
qui?” sbottò invece l’allenatrice,
sgranando gli occhi e incanalando nuovamente
tutta la sua attenzione su Jia.
Lei si strinse nelle spalle. “Prendo un pezzetto di pista.
Non disturberò la lezione, non invaderò i vostri
spazi” cambiò argomento.
“Non hai risposto alla mia domanda!”
Ma, già con i pattini ai piedi, Jia le aveva dato le spalle
e si stava rivolgendo verso l’angolo opposto del
palaghiaccio. Fece appena in
tempo a sentire la sua allenatrice che borbottava:
“Farà prendere un infarto
sia a me che ai suoi genitori prima o poi”, prima di infilare
gli auricolari
bluetooth e mettere in play la sua musica.
Le coreografie, le trottole, le figure e i salti erano
sempre lì, nella sua mente; la differenza era che ora il suo
corpo le poteva
assecondare, creare, modellare.
Pattinò senza fare caso ai tecnicismi, lo fece col cuore e
con tutta la rabbia che aveva dentro. Quel giorno si sentiva distrutta,
a
pezzi, e si sarebbe sfogata sulla pista finché non
l’avessero portata via con
la forza e chiusa fuori dal palaghiaccio.
Alla fine della giornata sarebbe stata sempre sola e sempre
triste. Alla fine della giornata i suoi compagni avrebbero continuato a
progettare la festa senza invitarla, a fine giornata non avrebbe
comunque
saputo cosa fare per piacere agli altri.
Ma a fine giornata avrebbe potuto dire a se stessa di non
essere una fallita, di saper fare qualcosa.
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Ho scritto questa storia circa due mesi fa, buttando fuori
tutta la mia anima. Non è funzionale alla trama della serie
e forse nemmeno il
modo migliore di ripresentarsi su EFP dopo mesi, ma scriverla
è stato davvero
terapeutico e in quel momento avevo bisogno di vivere la scrittura in
questo
modo – tutt’ora è lo stesso.
Mi scuso per questo flusso di introspezione senza capo né
coda e senza nemmeno una vera trama ^^
Non c’è tanto da spiegare, soprattutto per chi
già conosce
la serie. Unico appunto: il titolo è un verso della canzone
“Night After Night”
dei The Rasmus, su cui non ho potuto far pattinare Jia in questa
specifica
storia perché è stata pubblicata dopo rispetto a
questo episodio della
storyline, ma è saltata fuori su una radio di Spotify mentre
scrivevo e mi ha
colpita tantissimo! Vi lascio il link nel caso la vogliate ascoltare:
Night
After Night (Out of the Shadows)
Non sarebbe stupendo se Jia ci pattinasse sopra? *_______*
Grazie ai coraggiosi che sono ancora qui a seguire le mie
serie e i miei deliri, nonostante le mie imbarazzanti assenze dal sito
e dalla
scrittura in generale… spero di riuscire a tornare con
più costanza
prossimamente! :)
Alla prossima! ♥
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