CAPITOLO 2
“I
nove prendono coscienza di sé”
Buio più totale. Poi tornò la luce.
Nove persone, di nazionalità e ceti
sociali differenti, si risvegliarono di colpo sperando di aver
soltanto sognato un incubo, per poi trovarsi a viverlo sul serio.
Apparentemente ognuno si trovava in una piccola stanza, dalle pareti
spoglie e la mobilia assente, che ricordavano in maniera inquietante
le celle usate nei manicomi.
“Ma dove diavolo sono? E come ci sono
finito?” era il quesito che, praticamente all’unisono, si
chiedevano i prigionieri.
D’un tratto qualcosa si accese. Dopo
un iniziale spavento, i nove si accorsero dello schermo fissato nel
muro, ad un altezza di circa due metri.
“Ben svegliati signori…” furono
le parole che la donna comparsa sul display sembrava rivolgere a loro
“Il mio nome è Sara e, onde evitare qualsiasi fraintendimento, non
sono la vostra carceriera…”.
Questa informazione sembrò
tranquillizzare l’animo di alcuni.
“… Per l’esattezza, non dovete
nemmeno considerarvi prigionieri” proseguì lei, con i capelli
biondi e gli occhi castani a caratterizzare un viso davvero piacevole
“e vi trovate in questo lugubre luogo soltanto perché abbiamo
deciso di salvarvi la vita…”.
I più attenti tra gli ascoltatori
notarono subito che la ragazza si era appena espressa al plurale.
“… Dunque, quello che sto per dirvi
non sarà semplice da comprendere ma, nonostante ciò, desidero
comunque la vostra più totale fiducia: Voi nove siete ora da
considerare dei mutanti!”.
Ciascuno di loro, già sorpreso di non
essere l’unico in quell’assurda situazione, rimase totalmente
spiazzato da quell’ultima rivelazione, considerando quanto
grottesca fosse.
“Per la precisione, a rendervi così
è stata un’associazione criminale contro cui ci battiamo con tutte
le nostre forze. Tale associazione ha preso il nome di Spettro
Bianco, a cui capo vi è il terrorista internazionale Mohammed
Al-Shirida…”.
Tutti nomi che, ciascuno di loro, aveva
già udito, anche solo di sfuggita.
“… tali fuorilegge, come folle
gesto di sfida nei nostri confronti, hanno scelto in maniera casuale
nove esseri umani, inserendo nei loro corpi un particolare gene, che
gli studiosi identificano come “Gene H”, che, una volta dentro
l’organismo, altera in maniera irrecuperabile il DNA…”.
Dopo quest’ultima dichiarazione,
l’unica donna del gruppo, proruppe in un pianto disperato.
“… Ma è proprio in questa
situazione che entriamo in gioco noi!” esclamò quasi esaltata
l’autodichiaratasi Sara “Noi dell’Humana siamo riusciti a
prelevarvi, purtroppo dopo che il gene era già venuto a contatto con
voi, sia in forma liquida che gassosa…”.
In molti fecero mente locale,
ripensando agli ultimi avvenimenti che la loro mente, ora molto
scossa, ricordava.
“… Per darvi l’opportunità di
vendicarvi!” la signora prese un attimo di pausa “Nello
specifico, a causa dello stesso Gene H, ognuno di voi ha acquisito
una capacità sovrumana o, se preferite, un superpotere…”.
Dopo questo, lo shock fu totale per
tutti.
“… Per questo motivo, ognuno di voi
è stato equipaggiato con un’uniforme antiproiettile ed in grado di
adattarsi alle vostre nuove abilità…”.
D’un tratto, tutti e nove si accorse
del loro nuovo vestiario: una calzamaglia rossa con, cucita sul
davanti, un’enorme lettera H di colore giallo. Dello stesso colore
erano anche i guanti, il mantello e gli stivali che avevano indosso.
A concludere tutto vi era una cintura nera ben strinta alla vita.
“…Infine vado ad elencarvi,
rispettivamente per ciascuno di voi, le vostre nuove capacità
acquisite: cominciamo dal Soggetto N. 1: Igor Wansa; hai acquisito
poteri mentali come telepatia e telecinesi”.
“Soggetto N. 2: Jack Lincoln; hai
acquisito la capacità di volare”.
“Soggetto N. 3: Frédérique Arone;
hai acquisito varie super viste, per l’esattezza telescopica,
microscopica, a raggi x, calorifera, notturna e termica”.
“Soggetto N. 4: Andrea Alberti; hai
acquisito la capacità di mutare ogni parte del tuo corpo a
piacimento in un’arma da fuoco”.
“Soggetto N. 5: Geran Giunan; hai
acquisito forza e resistenza sovrumane”.
“Soggetto N. 6: Chang Yu; hai
acquisito la capacità di emettere vampate di fuoco dalla bocca”.
“Soggetto N. 7: Bernardo Borghi; hai
acquisito la capacità di mutarti in qualsiasi animale od oggetto a
tuo piacimento”.
“Soggetto N. 8: Juna; hai acquisito
la capacità di resistere alla pressioni sottomarine”.
“Ed infine Soggetto N. 9: Johnny
Wayne; hai acquisito una velocità corporea pari a quella della
luce”.
I nove prigionieri erano ora più
consapevoli di loro stessi.
“Capisco il vostro attuale
disorientamento…” riprese la signorina sullo schermo “e,
d’accordo con i miei capi, abbiamo deciso di lasciarvi liberi di
prendere ciascuno la propria scelta. I vostri nuovi poteri vi saranno
utili per la fuga e, da parte nostra, non vi sarà alcun tentativo di
riportavi qui”.
Con loro grande sorpresa, i nove
compresero perfettamente ogni singola parola della donna, che
presentava un ben riconoscibile accento italiano. Informateli di
questo, la donna misteriosa interruppe definitivamente la
comunicazione.
Una volta che lo schermo tornò
totalmente scuro, il ragazzino russo, forse per la sua giovane età,
decise di prendere tutti quegli ultimi attimi come un grande gioco.
Per questo girò immediatamente il capo verso le sbarre presenti
nell’unica piccola finestra presente. Lei aveva assicurato che con
la sua mente poteva fare dei prodigi, ed è ciò che subito tentò.
Concentro i propri pensieri verso il grigio ferro che le componevano
e, come in uno dei più belli sogni infantili, la materia iniziò ad
obbedire al suo volere psichico. Infine, una volta piegate le due
centrali, fu un gioco da ragazzi per Igor passare attraverso
l’apertura appena creatasi, aiutandosi con una sedia lì presente
per arrivarci meglio.
La francesina, una volta a conoscenza
dei suoi nuovi poteri acquisiti, non smetteva un attimo di toccarsi i
suoi occhi chiari. Constando che, per lo meno al tatto, nulla era
mutato da prima di quella spiacevole avventura.
“I miei occhi!” si ripeteva
costantemente “Cosa hanno fatto ai miei occhi?”.
Dunque ricordò il finale del comizio
della bionda sullo schermo. Se era ciò che volevano, non li
avrebbero costretti a rimanere. Tornò poi alla parte che la
riguardava, cercando di richiamare alla mente l’elenco delle
varianti della sua vista avanzata.
Dopo qualche secondo, rammentò la
vista a raggi x dunque, se era riuscita a ben interpretare quella
definizione, in pratica si trattava di vedere anche attraverso i
muri.
“Tentare non nuoce” si convinse
iniziando a scrutare intensamente la barriera di mattoni che aveva di
fronte. Fu più semplice di quanto supponeva e, come per magia, la
parete scomparve in dissolvenza, lasciando spazio al verde di una
foresta.
“Oh mon dieu!” esclamò, portandosi
la mano alla bocca e, al contempo, facendo tornare visibile il muro
grigio.
“Non è possibile! Non è possibile!”
iniziò ad urlare, ghermendosi la testa con le dita affusolate.
Dopo aver camminato nervosamente per la
stanza per qualche minuto, ripeté nuovamente la lista delle super
viste. Vista calorifera. Dunque sparare raggi laser dagli occhi.
Questa volta alzò il capo e andò a
fissare la finestrella sbarrata. Un minimo di concentrazione e due
raggi scarlatti andarono a colpire i piccoli tubi metallici,
procurando un minimo fragore e qualche scintilla.
“AH!” fu l’urlo di spavento della
donna, shockata da cosa era riuscita appena a fare, con le parti
tranciate che caddero rumorosamente sul pavimento.
La via per la libertà era libera.
Bastava solo riuscire ad arrivare verso quella piccola fessura in
alto. A quel punto Frédérique rimembrò di essere una delle
migliori ballerine di Parigi. Con la giusta rincorsa, il balzo più
elevato possibile, aiutandosi appoggiando a mezz’aria la punta di
un piede sulla stessa parete, scavalcò rapida e fu all’esterno.
“Ancora quelle maledette armi!”
imprecò furioso Andrea “Non mi è stata nemmeno concessa la
possibilità di morire in quel dannato incidente!”.
Con le lacrime agli occhi, per un
attimo gli comparve di fronte l’immagine dell’unica persona che
per lui contava nella vita: la sua fidanzata Francesca. Doveva
fuggire da quel posto per lei.
Ad una prima occhiata, il muro che
aveva davanti non sembrava presentare particolari qualità di
resistenza quindi, per un vero e proprio arsenale vivente quale era
diventato, era uno scherzo poterlo tirare giù. Alla fine prese la
decisione.
“Va bene, figli di puttana! Volete la
guerra? Facciamo la guerra!”.
Arrivato con la schiena verso la parete
di fronte a quella da abbattere, che tra l’altro presentava una
porta, quasi sicuramente chiusa a chiave e, ancora più probabile,
che dava verso l’interno dell’edificio, il ragazzo chiuse gli
occhi alla ricerca della giusta concentrazione.
“Trovato!” ruppe di colpo il
silenzio “Penso che dovrebbe bastare la cara e vecchia bazookata!”.
Appena terminate le sue parole, sentì
uno strano formicolio alla mano destra. Preoccupato, andò subito a
guardare cosa stesse succedendo e, con suo grande orrore, vide il suo
arto deformasi per poi, infine, assumere la forma di un bazooka a
raggio ridotto.
Alberti arrivò vicino al vomitare ma
si accorse, o meglio ebbe la sensazione, che l’arma era carica e
pronta a sparare. Allora un ghigno perfido gli si disegnò sul viso
e, aiutandosi anche con l’unica mano rimasta umana, piazzò l’arma
da fuoco sulla sua spalla destra.
Fissando per bene l’obiettivo tramite
il mirino, lasciò partire il colpo. Dalla bocca dell’arma partì
davvero un piccola razzo che, come da previsioni, si schiantò contro
i mattoni. Il forte rinculo fece volare il giovane italiano gambe
all’aria. Quest’ultimo si rialzò a fatica, tossendo per l’alta
quantità di polvere creata dall’esplosione. Una volta che questa
nebbia artificiale si diradò, si rese conto della riuscita del suo
piano.
“Sì! Fanculo figli di puttana!”
urlò mentre correva verso la luce proveniente dalla grande apertura.
L’enorme indiano stava ancora
riflettendo sulle parole pronunciate dalla donna virtuale. Sapeva già
di possedere un’elevata forza fisica, donatagli direttamente dal
Grande Spirito. Dunque non concepiva come questo ulteriore dono
potesse essergli d’aiuto nella propria esistenza. Ma di certo
sapeva che il suo popolo, gli Shoshoni, non si era mai arreso, e così
avrebbe fatto anche uno dei suoi ultimi figli.
Fatta la sua scelta si accorse,
tastando, che nei pantaloni della singolare uniforme che stava
indossando vi era qualcosa. Infilandoci la sua enorme mano estrasse
degli anonimi tubicini di plastica. O almeno così potevano sembrare
ad un primo sguardo, ma Geran sapeva di cosa si trattava: i colori
per la pittura facciale della sua tribù. Ciò che ne seguì fu una
delle più solenni cerimonie per la cultura del suo popolo.
Ora che aveva riacquistato i suoi
colori, poggiò violentemente le sue stesse possenti mani sui mattoni
grigi.
“Che il Grande Spirito mi guidi”
sospirò tra sé e sé.
Di scatto, i muscoli del suo corpo si
tesero fragorosamente. Una volta che iniziò a digrignare i denti, il
muro stesso sembrò imitarlo, aprendo delle crepe sulla sua
superficie. Il gigante aumentò sempre più la sua pressione. Ormai
la parete era diventata una grossa ragnatela di crepe. Con il primo
potente urlo emesso dalla bocca di Giunan, i mattoni crollarono, come
spaventati.
Quasi di colpo, il pellerossa si trovò
al di là della sua cella. Un grido di vittoria, come solo il suo
popolo poteva emanare, riecheggiò in tutta la zona. Poi qualcosa
catturò la sua attenzione.
il dandy moderno sembrò annoiato anche
da questa assurda avventura.
“Diamine! Tutto ciò è seccante!”.
Anche la sua stanza presentava la
medesima apertura verso l’esterno delle precedenti. Ma con soltanto
la più bella ambizione di ogni uomo, è cioè la capacità di poter
volare, non poteva andare molto lontano.
Battendo rumorosamente la punta del
piede sul pavimento, tenendo le braccia incrociate ed il viso
imbronciato Jack Lincoln cercava di trovare una soluzione.
Indispettito, si scaglio con violenza
verso la porta “Aprite subito! Voi non sapete con chi avete a che
fare! Brutti bastardi!”.
Nessuna risposta.
“Porca miseria! Ci deve pur essere un
modo per uscire da qui!” si convinse l’inglese, cercando di non
precipitare nello sconforto più totale.
Improvvisamente, due frastuoni, uno di
seguito all’altro, riempirono l’aria, facendo tremare il suolo e
mandando lo sfortunato con il sedere per terra.
“Ma che diavolo?!” esclamò,
portandosi vicino all’altra parete da cui era provenuti i due
potenti rumori.
Non riuscendo ad arrivare comodamente
alla finestrella, cercò di allungarsi il più possibile, riuscendo
infine nel suo intento ad arrivare ad oltre due metri di altezza. Da
lì riuscì ad intravedere delle figure umane, o almeno così
sperava, ed un bosco nelle vicinanze.
Facendo però mente locale, sorpreso di
quanto in alto era riuscito ad arrivare, controllò i suoi piedi, che
stavano tranquillamente fluttuando nel vuoto.
“Oh santo cielo!” proruppe “Ma
allora è tutto vero!”.
Con un sorrisetto ebete dipinto sulla
bocca, notò all’esterno una figura gigantesca giungere nella sua
visuale. Allora colse la palla al balzo.
“Scusa omaccione…” tentò di
catturare la sua attenzione “Sì, dico a te. Potresti darmi una
mano ad uscire di qui? Da solo non so come fare”.
L’altro non proferì parola ma, a
suon di pugni, tirò giù in un attimo il muro.
“Wow!” fu l’ultima esclamazione
di Jack, ancora aggrappato alle sbarre della finestrella.
“Come sarebbe a dire fuoco dalla
bocca?” proseguiva nella sua protesta il cuoco cinese “Voi mi
avete preso per un drago? Per quanto mi riguarda di drago io ho solo
le nuvolette nel mio ristorante!”.
Ovviamente non vi era nessuno nella
stanza in grado di replicare. L’ometto si grattava nervosamente la
testa, cercando di sbollire la sua rabbia. Poi iniziò a sentire del
movimento verso l’esterno dell’edificio.
“Chi c’è là? Mi sentite?”.
Ma ancora nessuna risposta.
L’ira tornò ad accumularsi in lui e,
quasi di getto, sputò una calda lingua di fuoco verso la finestra.
“Per Mao! Che diavolo è successo?”
esclamò sorpreso Chang.
Fece subito mente locale “Io davvero
sputo fuoco? Come drago!”.
Riempì bene i suoi polmoni d’aria e,
scatenando tutta la sua furia, investì le piccole sbarre d’acciaio
con un’infernale vampata. Non ci volle molto prima che esse
iniziassero a squagliarsi come burro. In pochi minuti, la luce
filtrava pienamente nella cella del prigioniero.
“Bene! Ben fatto!” si congratulò
con sé stesso.
A questo punto però sorse un altro
problema: come raggiungere l’apertura nella parete, tenendo conto
inoltre dell’altezza poco elevata di Yu.
Ma l’uomo non si perse d’animo ed
iniziò ad accumulare sotto di essa ogni cosa, presente là dentro,
che poteva tornargli utile.
Per prima cosa spostò, rumorosamente e
con una certa fatica, la brandina provvista di materasso che si
trovava in un angolo. Poi una misera sedia in legno traballante e,
infine, sciolse il braccio in cui si trovava lo schermo da cui aveva
parlato Sara, afferrandolo al volo e stando attento a non bruciarsi
con la parte ancora incandescente.
Anche in cima a questo particolare
totem, l’asiatico fu costretto comunque a mettersi in punta di
piedi per arrivare all’orlo della salvezza.
Il messicano non stava più nella
pelle.
“Grazie signore! Tutto ciò è
fantastico! Con questo potere voglio vedere chi oserà più darmi dei
fastidi, quando sarò tornato a casa!” quest’ultimo discorso lo
fece rinsavire “Ah, giusto! Prima devo tornarci!”.
Lisciandosi i baffi con le dita,
squadrò per bene tutta la stanza da cima a fondo.
“Dunque… per prima cosa potrei
trasformarmi in una chiave ed aprire semplicemente la porta. Ma poi
non so cosa potrei trovarci dietro e, a differenza di quell’italiano,
non credo di potermi trasformare in un arma. Bene, non mi resta che
puntare direttamente verso l’esterno. Quindi direi di trasformarmi
in un potente bulldozer e tirar giù questo inutile muro. Però di
rumore ce n’è già stato abbastanza ultimamente. Allora potrei
soltanto mutarmi un piccolo uccellino indifeso e volare felice verso
la libertà. Oppure…”.
La sua fantasia sfrenata venne fermata
bruscamente da un terzo frastuono, seppur più leggero degli altri.
“Però c’è gente che si sta dando
da fare…” si ammutolì di colpo non appena sentì delle voci
provenire dalla stanza a fianco.
Purtroppo non riuscì a sentire molto,
dato l’elevato spessore della parete, solo qualche parola
indefinita come “Harlem” o qualcosa del genere.
“Bueno, ora è il mio turno!” si
decise infine, scrutando la finestrella con le sbarre, in alto,
scegliendo la terza delle opzioni da lui pensate poco prima.
Uno strano formicolio invase tutto il
suo corpo, mentre aveva ben in mente l’animale in cui si stava
tramutando. A poco a poco, vide la stanza alzarsi silenziosamente,
per poi comprendere che in realtà era lui che si stava
rimpicciolendo.
Pochi secondi erano bastati per
sostituire Bernardo Borghi con un passerotto comune. Notando il
frutto dei suoi sforzi, il volatile iniziò a cinguettare di
felicità. Poi riprese di nuovo coscienza di sé e si apprestò a
spiccare il volo.
Volo che però si concluse amaramente
con il becco sbattuto contro i mattoni.
Una volta precipitato a terra, il
pennuto si rimise faticosamente in piedi per effettuare un nuovo
tentativo. Questa volta ci andò più cauto e, sbattendo più
velocemente che poteva le ali, cercò di arrivare il più vicino
possibile all’altezza della finestrella. Una volta riuscito in ciò,
tentò di prendere la giusta corrente d’aria proveniente proprio da
essa. Rilassando i muscoli delle ali vi riuscì e, passando in
verticale tra le due sbarre centrali, si trovò con il minuscolo muso
baciato dai caldi raggi del sole.
Nella cella più esterna, l’americano
cercava ancora di comprendere la sua situazione.
“Ma è possibile? Siamo addirittura
in nove rinchiusi come dei ladri! Anzi, addirittura come malati di
mente! Almeno fatemi sapere come si è conclusa la corsa!”
sbraitava contro ignoti.
Una volta apparentemente rassegnatosi,
diede uno sguardo alla parete alla sua sinistra.
“Forse un altro prigioniero si trova
dietro quel muro?” tornò a riflettere ad alta voce “Aspetta un
attimo! Cosa aveva detto quella bambola bionda? Giusto, ora ho la
supervelocità!” esultò, alzando le braccia al cielo.
Una volta riabbassatele, tornò
pensieroso “Vediamo un po’… dai fumetti della mia infanzia, mi
sembra di ricordare che, chi aveva questo superpotere, poteva anche
attraversare le barriere fisiche, come appunto questo muro, facendo
accelerare le particelle del proprio corpo…”.
Passò ancora qualche secondo prima che
il pilota si decidesse ad effettuare una prova.
“Ok!” tirò un grosso sospiro
“Andiamo! Pronti, partenza, via!” la partenza fu ottima ma, dopo
pochi passi, Johnny si arrestò di colpo.
“Cazzo! E se poi quella stronza
stesse bluffando?”.
Ancora pieno di dubbi, squadrò
nuovamente i mattoni grigiastri.
“Va bene! Al limite mi prenderò una
facciata contro il muro…”.
Ora sembrava davvero tutto pronto
“Pronti, partenza, via!” con la giusta rincorsa, Wayne scattò
verso la parete. In quei pochi attimi, sentiva tutto il suo corpo
rispondergli alla perfezione, come solo la sua autovettura era stata
in grado di fare fino ad allora.
Passato neanche un secondo si ritrovò
con davanti un’anonima parete grigia.
“Tu chi sei?”.
Il biondo sobbalzò a quella domanda,
arrivata in maniera tanto improvvisa. Subito voltatosi, vide un
ragazzo di colore, all’incirca della sua stessa età.
“Ciao, mi chiamo Johnny, tu come ti
chiami?”.
“Juna”.
“Sei di Harlem?”.
“No, Congo”.
I due rimasero entrambi un attimo
spiazzati.
“Beh comunque…” riprese lo
statunitense “Sono qui per tirarti fuori da questo buco!”.
“Tu che potere hai?”.
“Supervelocità”.
“Io non capito bene, ma credo di
poter andare sott’acqua”.
“Oh… ok! Beh attualmente però non
ti è molto utile, giusto?”.
L’africano non gli rispose nemmeno.
“Dunque, se davvero sono riuscito ad
attraversare quel muro” ipotizzò, indicandogli la direzione da cui
era comparso “credo che, se ti stringi forte a me, riusciremo a
farlo entrambi ed usciremo incolumi da qui”.
Lo zairese rimase ancora in silenzio,
perplesso.
“Beh dai fratello! Piuttosto che
restare prigioniero qua dentro…” tentò di convincerlo.
Juna infine sorrise “D’accordo,
Johnny”.
“Benissimo! Allora, vieni un attimo
con me…” detto questo, il duo si spostò nelle vicinanze della
parete con la porta “Bene! Ora credo che ti convenga stringerti
forte al mio busto”.
Il nero non sembrava ancora convinto
del tutto.
“Forza Juna! Un po’ di coraggio
cazzo!” sbottò il biondo.
A quel punto, l’africano si decise ad
obbedire a Wayne che iniziò “Pronti, partenza, via!”.
In un secondo scarso, il giovane di
colore si trovò con le gambe che gli fluttuavano nell’aria per
poi, di colpo, atterrargli nuovamente al suolo. Questa volta però si
trattava di un suolo erboso.
“Te l’avevo detto che ce l’avremmo
fatta!” esclamò il suo salvatore.
In quei minuti, i nove ebbero modo
finalmente di conoscersi gli uni con gli altri.
“Allora siamo davvero nove!”
constatò felice Bernardo.
“Nessuno di voi, gentili signori, ha
fame?” domandò Chang, sempre alla ricerca di nuovi clienti per il
suo ristorante.
L’unica donna del gruppo si avvicinò
all’unico minorenne.
“Ciao bimbo, io sono Frédérique e
te come ti chiami?”.
“I-Igor” rispose timidamente
l’infante.
“Non so voi gente…” attirò
l’attenzione Johnny, una volta posato a terra il suo passeggero di
colore “ma io me la filo!”.
“Sono d’accordo con te biondino,
non voglio rimanere in un posto del genere un attimo di più!”
accolse la proposta Jack.
La comitiva era però frenata nella
fuga dalla natura impervia che si presentava dinnanzi a loro. L’unico
a non esserne intimorito era l’africano che partì a gambe levate.
Pochi secondi dopo fu la volta dell’indiano che, fatto qualche
passo, si rigirò verso i sette rimasti “Voi non venite?”.
“Ok, ci sto!” esclamò l’uomo
proveniente dagli Stati Uniti d’America “Chi arriva ultimo è un
mutante!” e, detto questo, scattò via in un lampo di luce.
Gli altri rimasero a bocca aperta,
vedendo in azione un potere mutante differente dal proprio.
“Bueno, lasciamo che gli altri ci
precedano. Noi andremo del nostro passo, vero gigante?” sentenziò
il messicano, dando una pacca d’approvazione sul corpo robusto del
pellerossa.
“Aspettate un attimo!” allarmò
tutti Andrea “Com’è che, nonostante siamo tutti di nazionalità
differenti, riusciamo a capirci perfettamente?”.
I presenti si ammutolirono tutti,
riflettendo sulla veridicità di quanto osservato dall’italiano.
Fu il britannico ad infrangere il
silenzio “Personalmente preferirei pensarci nel salotto di casa
mia, con davanti una fumante tazza di tè”.
“Allora vamos! L’importante per ora
è mettersi in salvo!” approvò Borghi.
“Vieni piccolo” disse la
francesina, con la mano aperta rivolta al russo “Tienimi la mano
così non ti perderai”.
“Grazie” fu la parola udita da una
giovane voce nella mente dalla ballerina.
Lì per lì sorpresa, tornò poi a
guardare il ragazzino “Ah giusto! Tu sei il telepate”.
Dunque anche gli ultimi sette individui
presero la via del bosco. L’inglese rifiutò di staccarsi da loro,
utilizzando il suo potere del volo, per evitare di trovarsi
disorientato in una zona aerea a lui sconosciuta. Ad ogni minimo
rumore sospetto, il baffuto della comitiva gridava un “Cos’è
stato?”, rintanandosi dietro l’enorme figura di Giunan. Fatti
sempre amico gli energumeni, se ti è possibile. Era una delle regole
che aveva imparato direttamente dalle strade di Città del Messico.
“Sicuro che non puoi trasformare la
tua mano in una bussola?” insistette Yu.
“Negativo. Hanno detto solo armi.
Comunque, già ci ho provato e non succede assolutamente nulla!”
rispose seccato Alberti “Piuttosto perché non lo chiedi allo
spagnolo lì?”.
“Sono messicano, amigo” controbatté
giustamente l’interpellato “Però potrei davvero provare a…”.
Il loro battibecco fu interrotto da un
nuovo scricchiolio sinistro.
“Questa volta l’avete sentito anche
voi! Giusto?” riprese Bernardo.
“Magari è solo il ruscello lì di
fronte…” azzardò una Arone sempre più spaventata.
“Non era un rumore di madre natura”
tagliò corto Geran, mettendosi già in posizione di combattimento.
“Bene, si comincia!” lo seguì
Andrea, tramutando la sua mano destra in una pistola Browning
semiautomatica.
Nella selva, in quegli istanti, non si
udiva alcun suono.
“Eccoli!” urlò il più giovane dei
sette, sia con la propria bocca che con la propria mente.
Da dietro i tronchi presenti tutti
attorno a loro, comparirono delle nere figure, non identificabili per
via dei passamontagna sulla testa. Non diedero tempo ai fuggitivi di
organizzarsi, facendo subito fuoco verso di essi.
Lo shoshoni caricò verso alcuni di
loro, lanciando un urlo di battaglia tipico della sua tribù. Con suo
stesso stupore, vide che le pallottole sparategli contro gli
rimbalzavano contro.
Colui che doveva diventare un militare
effettuò quello che, secondo per lo meno le previsioni di suo padre,
era la prima cosa che gli avrebbero insegnato i suo superiori:
Rispondere al fuoco con il fuoco. Ed il giovane se la cavava
dannatamente bene.
La donna ed il bambino si strinsero
sempre di più tra loro. Finché una pallottola non colpì la prima
ad un braccio. Allarmato dal grido di dolore della fanciulla, Wansa
si concentrò e, come con un magico incantesimo, bloccò il resto dei
bussolotti in aria, facendoli infine cadere al suolo, ormai
totalmente innocui. La transalpina, nonostante lo spavento iniziale,
notò felice una cosa.
“Ragazzi! Queste uniformi sono
antiproiettili!”.
“Buona a sapersi, allora nessuna
pietà!” urlò il ragazzo di Trento “Anche tu, nanetto, datti da
fare!”.
“Come osi? A chi hai detto nanetto?”
lo rimproverò infuriato il cinese che, per tutta risposta, esalò
una potente fiammata a qualche centimetro da lui, tramutando tre dei
loro nemici in vere e proprie torce umane.
Il dandy, tremante come una foglia,
cercò una disperata salvezza spiccando in un volo verticale.
Purtroppo per lui, constatò che vi erano altri avversari anche
aggrappati ai tronchi più alti degli alberi.
La faccenda si faceva sempre più
disperata, con gli aggressori che, per assurdo, sembravano aumentare
sempre più.
“Questa è davvero la fine” pensava
Frédérique sull’orlo del pianto.
La sua disperata preghiera fu
incredibilmente ascoltata. Un lampo rosso e giallo comparve di colpo,
avvolgendo tutte le persone presenti. Nel giro di pochi secondi, gli
uomini in nero giacevano a terra inermi.
“Mi chiedevo come mai ci mettevate
tanto…” esordì Johnny Wayne, tornato finalmente visibile ad
occhio nudo.
“Almeno noi ci siamo difesi, yankee”
gli rispose serio Geran Giunan.
“Piuttosto perché te non sei
intervenuto prima!” lo rimproverò Jack Lincoln che, nel frattempo,
stava atterrando dolcemente.
La comitiva, presa dall’entusiasmo
dovuta al ritorno del Soggetto N. 9, non si accorse del componente
della banda appena sgominata che si stava avvicinando al velocista,
strisciando silenziosamente sul terriccio presente sulla riva, come
il più letale dei serpenti.
A percepirne infine la presenza fu il
membro con la vista più sviluppata: Frédérique Arone.
“Attento Johnny!”.
La potenziale vittima però, per
assurdo, fu troppo lenta nel voltarsi. In un salvataggio insperato,
il braccio con la mano armata di coltello, pronto a sferrare il
fendente mortale, fu bloccato dalla mano di un giovane ragazzo
africano.
L’aggressore fu il primo ad essere
sorpreso da quell’intervento. Tanto sorpreso da non accorgersi di
essere sotto mira. Scoprendolo soltanto quando un proiettile lo
trapassò in pieno petto.
Appena contemplato l’individuo che
crollava esanime al suolo, tutti si voltarono verso il cecchino che
aveva colpito il bersaglio.
“Ma sei impazzito Andrea?” lo
aggredì gridando la francesina “potevi colpire Juna”.
“Cazzate! Sapevo benissimo a chi
sparare!” ribatté seccato l’italiano.
Mentre i due proseguivano nel loro
battibecco, il congolese si avvicinò allo statunitense “Ora siamo
pari amico”.
“Grazie fratello!”.
“Fermi tutti signori!” richiamo
l’attenzione dei compagni Chang Yu “Dov’è Bernardo?”.
Fu allora che gli effettivi otto
presenti notarono ciò.
“Io sento ancora i suoi pensieri”
informò Igor Wansa, evitando così di far temere il peggio per il
loro simpatico messicano.
Saputo ciò, tentarono all’unisono di
chiamarlo a gran voce. Fu allora che, con una scena alquanto
raccapricciante, dal fogliame che copriva buona parte del manto
erboso, iniziò ad ingrandirsi un disgustoso lombrico. L’oscenità
poi, via via che passavano i secondi, andava assumendo una forma
umana, vestita da un’uniforme diventata ormai familiare.
“Hola gente!”.
Il gruppo riabbracciò il presunto
scomparso, infamandolo anche per la sua particolare scelta riguardo
l’affrontare la lotta appena svoltasi.
“Loro sono buoni”.
Gli altri, ancora festanti, si
voltarono verso il piccolo russo che proseguì “Io penso che loro
sono buoni. Sennò non ci avrebbero dato dei giubbotti
antiproiettile. Io credo che possiamo fidarci di loro. Soprattutto
ora che, io temo, dovremo affrontare altri uomini neri”.
I nove rifletterono ognuno con la
propria testa. La scelta era tra tornare ad una vita che non sarebbe
stata più la stessa, oppure lottare restando uniti come una squadra.
Tutti arrivarono ad una conclusione ma nessuno fiatò. Insieme,
tornarono a dirigersi verso l’edificio da cui erano scappati.
Fu
così che nacque il gruppo Humana.
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