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Una canzone per il Capitano
A riempire la
Sala Grande è l’ululato dei grifondoro, a cui per un po’ si sono
unite anche le grida d’esultanza delle altre casate, ma si sa che
certe goliardie riescono meglio (e più a lungo) a chi veste
rosso-oro.
Come uno stormo
di falene, i figli di Godric circondano il Calice di Fuoco,
inscenando finti balletti ritualistici ogni qualvolta un nuovo
studente si approccia per gettare la sua iscrizione tra le fiamme.
La minaccia muta
e storpia che il Capo degli Auror Fury ha lanciato loro, con l’unico
occhio sano che possedeva, è rimasta sospesa nel soffitto incantato
per qualche ora (“Non sono qui per fare da balia a un gruppo di
marmocchi che non conoscono i loro limiti, sono qui per riportare il
cadavere alle vostre famiglie se qualcosa dovesse andare storto!”)
per poi scivolare via, dimenticata dietro ai passi pesanti e al
petto gonfio di Thor Odinson.
Alto, grosso e
bello come un dio norreno, è stato lui ad aprire le danze, in uno
scrosciare di applausi.
O-din-son!
O-din-son! O-diiiiii-n…. SON!
La cantilena è
durata fino all’ora di pranzo, con tanto di ola – interrotta nel
momento in cui è giunta alle braccia incrociate di Tony, per nulla
intenzionato ad alzarsi dalla panca.
Thor è stato il
primo e a Tony un po’ brucia, ma non poteva pretendere di essere
l’unico rappresentante dei grifondoro – è una casata che vomita eroi
a ogni ciclo lunare, di strano al massimo c’è che in giro non abbia
ancora visto quell’altro gigante biondo tutto muscoli. Era convinto
sarebbe stato lui l’apripista di Hogwarts, chi meglio di Capitan
Puritano Rogers, che alla presentazione delle scuole di Dursmstrang
e Beauxbatons è andato a stringere la mano di tutti e augurar loro
buona fortuna?
Al suo posto,
invece, si fa avanti il solito duo scapestrato di ragazzini del
quinto anno che Stark ha imparato a conoscere fin troppo bene.
«S-sei… sei
sicuro che funzionerà se lo metto dentro? Non rischio, che ne so, di
esplodere?»
«Fidati, Peter,
ho fatto i miei calcoli, c’è una buona probabilità del novantacinque
per cento che funzioni.»
«Ok, insomma,
novantacinque per cento non è male.»
«Forse ottanta
per cento…»
«Ottanta?»
«Facciamo
sessantanove virgola nove e non ne parliamo più!»
«Ned!» urlacchia
Peter Parker, che stringe tra le mani un piccolo rotolo di pergamena
in cui ha scritto il suo nome. Ha dimenticato il mantello altrove,
la divisa è stropicciata e la cravatta rosso-oro dal nodo talmente
allentato da arrivargli all’ombelico, lo fa sembrare un puledro
scalpitante preso al lazzo. E Tony sa che quel puledro non ha l’età
adatta per proporsi come Campione – e anche l’avesse, è più
probabile rischi di rompersi l’osso del collo o di diventare mangime
per Ippogrifi. Conosce le prove degli anni passati, il Torneo
Tremaghi non è un gioco, ma è invece quel che di più simile si può
trovare a una guerra.
Forse è anche per
questo che non si stupisce quando alle spalle di Peter si staglia
alta l’ombra verde-argento di ben altro tipo di Odinson.
Loki è il
riflesso distorto di Thor, è tutto ciò che il ragazzo non è: pelle
d’argento, capelli di petrolio e occhi da serpe verdi come smeraldi
nella notte. Il mantello gli fruscia dietro le spalle come ali di un
corvo pronto a portare sventura, e dall’alto, pianta uno sguardo
gelido sulla nuca di Peter, piegando labbra sottili in
un’espressione di disgusto.
«Levati di mezzo,
insetto» Perfino la sua voce ha un languore cupo e
affascinante, e non sai mai se la voglia che ti mette addosso è
quella di gettarti ai suoi piedi o mandarlo a quel paese.
Peter
temporeggia troppo a lungo, tanto che Tony è costretto a
tenere d’occhio la bacchetta di Loki col timore che la usi per una
delle Maledizioni senza perdono – e gira voce tra gli studenti che
lo abbia già fatto una volta. Ma di voci sul Prefetto serpeverde ne
girano tante, ognuna più oscura dell’altra.
«Devo ripetermi?»
Le dita lunghe e bianche di Loki si stringono al manico della
bacchetta dalle venature altrettanto candide, in legno di tiglio
argentato, lunga, dal manico intagliato di scaglie scure e la punta
quasi bianca, così simile alle spine di un Ungaro Spinato.
Tony apre la
mano, indosso un guanto di pelle e placche d’acciaio scarlatto
incantato personalmente – è tutto quello che gli serve perché la
bacchetta, agganciata alla coscia destra, si sganci magicamente
e s’infili tra le sue dita.
«Accio biglietto
del ragnetto» esclama, in un breve agitare della punta. A essere
acciato, non è solo il biglietto con il nome di Parker, ma anche
gli sguardi dei presenti, a cui regala un sorriso e un mezzo
inchino. «Sono un poeta nato, lo so.»
Peter lo
raggiunge, libera il passaggio a Loki, che preferisce non perdere
tempo e gettare finalmente il suo nome nel Calice. Lo ha scritto con
le rune e un inchiostro dorato che per qualche istante riluce nel
fuoco.
I compagni della
casata di Salazar scattano in piedi e con un’invidiabile sincronia
(che Tony giurerebbe poter appartenere solo ai ballerini coreani o
agli atleti del nuoto sincronizzato) stringono una mano al gomito,
piegano l’altro braccio verso l’alto e lo allungano in un sibilo che
la Sala Grande amplifica, trasformandosi per qualche istante in un
nido di serpi velenose.
Una coreografia
carina, ma ci vuole altro per spaventare Tony Stark e al massimo,
quando Loki si volta e non lo degna nemmeno di uno sguardo, quel che
prova è una punta d’irritazione. Tutti conoscono dove pende l’ago
della bilancia nelle idee politiche di Loki Odinson, e un
mezzosangue come Tony, potrà anche avere una famiglia che
sguazza nei galeoni, ma non varrà mai più di mezzo zellino agli
occhi di un purosangue.
Scuote il capo,
tornando a…
«Ehm, potrei
riavere la mia pergamena?»
Peter e amichetto
del cuore.
«No, che non
puoi. Cosa pensavi di fare, Parker?»
«Ahm… avevamo
pensato, che magari… beh…»
«Io e Peter
abbiamo trovato questo incanto runico tra i libri nell’ufficio del
professor Strange e—»
Tony piega la
mano a formare il becco di una papera e lo chiude in un gesto che
parla da solo: «Shsss. La mia era una domanda retorica.»
«Oh.» Peter china
il capo.
Riuscire ad
aggirare le serrature magiche del professore di Antiche Rune non è
cosa da poco, ma la Linea dell’età è un incanto di Silente e serve
più di una coppia di sbarbatelli furbi per fregare il vecchio – Tony
lo sa forse meglio di tutti lì ad Hogwarts.
«Sperate che la
vostra bravata non costi punti a griffondoro…» Un’occhiata veloce ai
colori della divisa di Ned «…o a corvonero; ma soprattutto al vostro
posto pregherei tutti i santi babbani e non che conoscete, affinché
non lo venga a sapere Captain Harlock, o si prenderà uno dei vostri
occhi, per averne di scorta.»
Pallidi in volto,
i due ragazzi si scambiano sguardi e balbettano scuse, ed è in
questi momenti che Tony, ridacchiando, un poco ammira Fury, il cui
solo nome è sufficiente per instillare un po’ di sana strizza.
Come loro si
allontanano, è Virginia Potts ad avvicinarsi. Alta ed elegante, nei
colori di tassorosso è la sua Ape Regina, senza la spocchia delle
ragazzine snob da teen-movie.
«Se non ricordo
male, l’anno scorso, un certo grifondoro è riuscito a far perdere
cento punti alla sua casata a causa delle sue bravate.»
Tony scrolla le
spalle; è da sempre convinto che la Coppa delle Case sia truccata,
Silente abbia i suoi cocchi e per ogni punto che Stark porta via, ce
ne saranno altri dieci regalati ai bicipiti gonfi del buon Steve
Rogers. Non è per questo che infila la pergamena di Peter in tasca,
ma non è nemmeno tipo da dare spiegazioni.
Invece allarga le
braccia e ruota lentamente su se stesso.
Il mantello
incantato si solleva e si riempie di sfumature rosso sgargianti
ogni qual volta la luce delle candele lo colpisce con l’angolatura
giusta.
«Odinson vi ha
morso la lingua o posso avere un po’ di tifo?»
La Sala Grande si
rianima.
«Stark! Stark!
Stark!» I ragazzi inneggiano e battono i piedi infervorati: è musica
per le sue orecchie.
«Rhodey?» Il nome
dell’amico si trasforma in segnale: dalle panche tassorosso, James
Rhodes solleva la bacchetta, bisbiglia un incanto e dalla punta
schizzano fuochi d’artificio che esplodono in una pioggia di
scintille rosso e oro.
Questa è una
coreografia coi controcazzi,
vorrebbe spiegare ai fratelli barbari arrivati dal nord.
Pepper, al
contrario, porta una mano al viso.
Tony sfila dalla
tasca opposta a quella in cui ha nascosto il biglietto di Parker un
foglio – un post-it colorato –, il suo nome vergato in nero ha
l’inconfondibile scrittura “a macchina” delle penne autoinchiostranti
Stark. Lo stringe nel pugno e lo avvicina alla bocca di Virginia.
«Portami fortuna,
Pepper.»
«Da quando credi
nella fortuna?»
«Da quando posso
usarla come scusa per chiederti un bacio, se verrò scelto come
Campione. E ora, chop-chop, non deludermi.»
Lei non commenta
– a farlo al suo posto è il dolce rossore che le tinteggia le guance
e fa risaltare le piccole efelidi sul naso –, si tende in avanti e
soffia sulle dita di Tony un’alitata calda che gli accarezza la
pelle.
Stark sorride, se
la fortuna esista o no non è affar suo, perché con Pepper al suo
fianco, sarebbe in grado perfino di volare senza scopa.
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A Bucky Barnes
piace respirare l’aria di festa che orna il Castello. È fatto per la
caciara, per le danze di ogni tipo – meglio se un lento in punta di
piedi o un tango sul filo di un bacio – e ogni scusa pur di saltare
una lezione o due è sempre la benvenuta.
Il suo interesse
per il Torneo Tremaghi è però tutto qua.
Seduto alle
panche, è circondato da ragazze di ogni casata che gli pizzicano il
braccio e gli chiedono quando infilerà il suo nome nel Calice. Sono
sicure ne uscirebbe vincitore – oh, così sicure che se
vincerà, gli bisbigliano all’orecchio, sono disposte a infilarsi con
lui nei bagni dei prefetti e dargli un premio che farà sfigurare
perfino le fate in blu di Beauxbatons.
Bucky sorride e
scuote il capo, si solleva in piedi sulla panca, balza a quella
accanto e schiocca loro un occhiolino.
«Siete perverse,
ragazze.»
Le rifiuta con
garbo, senza “no” e senza “sì” – lasciandole danzare sull’orlo di un
“forse” che, da quasi un anno a quella parte, lo rende il ragazzo
più inarrivabile di Hogwarts. Perfino più di Rogers, l’Apollo dei
grifondoro, che in sette anni di scuola e diciotto di vita ha
baciato una sola ragazza senza che l’evento ricapitasse.
«Penso che
lascerò fama e gloria agli altri. Ma grazie per l’offerta,
l’apprezzo davvero.»
Ancora non sa che
le sue sono le ultime parole famose.
«James! Buchanan!
Barnes!»
Bucky potrebbe
riconoscerlo perfino nel mezzo di una tempesta: è il ruggito di un
leone, che un po’ vorrebbe fosse suo, ma che è soprattutto il leone
dorato dei grifondoro.
I portoni della
Sala sbattono quando Steve Rogers, colletto slacciato, camicia fuori
dai pantaloni, cravatta legata a un polso e l’aria selvaggia di un
animale a caccia, avanza col fiato pesante. Di colpo, ogni ragazza
che prima parlava con Barnes, ora guarda lui e desidera essere una
delle gocce di sudore che gli rigano il collo scomparendo sotto agli
abiti.
Steve marcia
verso Bucky e verso di lui agita il polso. Non servono parole, a
malapena basta un’occhiata lì intorno per capire che hanno bisogno
di privacy e che dovranno andare altrove se la vogliono.
Poco prima che
Bucky venga trascinato via, è la voce di Stark che ancora si fa
sentire e li insegue fino al corridoio.
«Se dovete
figliare, Barnes, assicurati che esca meno ariano di Rogers e
col tuo cervello. Che di troll col bel culo ne abbiamo abbastanza!»
⍣
La stanza dei
Trofei sembra la più appropriata. Steve l’ha amata da subito e da
subito ha desiderato vedere il suo nome sulle placche dorate, sotto
alle coppe di Quidditch o alle teche con le fotografie degli alunni
più dotati. Ha sempre avuto fame di competizione, fame di vittoria,
perché per quasi dodici anni ha trascorso le sue battaglie nella
polvere, a venir deriso, calciato e trattato alla stregua di un Elfo
domestico.
Prima di Hogwarts
viveva di sconfitte, ora invece scalpita per sapere quanto in alto
può volare – ma Bucky vede ancora le sue ali di cera per quello che
sono e teme il giorno in cui arriverà troppo vicino al sole. È anche per
questo che, al contrario di Rogers, lui detesta quella stanza e
vorrebbe un giorno trovare le parole giuste per spiegare a Steve che
non ha bisogno di medaglie, trofei o coppe per mostrare il suo
valore.
Invece, sotto i
riflessi dorati della stanza, si trova incastrato tra il muro e
il ragazzo, che chiude il pugno sopra la sua testa.
«È stato uno
scherzo cretino!»
Bucky non chiede
spiegazioni, la cravatta che ancora penzola dal polso del grifondoro
racconta tutto quel che c’è da sapere, senza contare che è stato
Barnes a incantarla affinché lo legasse al letto.
«Lo scherzo
cretino è quello che vuoi farmi tu infilando il tuo nome in quello
stupido Calice.»
«E il tuo piano
qual era? Tenermi legato in dormitorio per tutta la settimana?»
Bucky si stringe
nelle spalle. Non ha mai creduto di poter tenere Steve lontano dai
guai – ma provarci, tentare di proteggerlo (il più dalle
volte da se stesso) è l’unica cosa che gli rimane. «Qualche
dettaglio era ancora da mettere a punto.»
«A-ah, e poi
secondo Stark sarei io quello col cervello da troll.»
Bucky stira le
labbra in una linea piatta e preoccupata.
Steve vi passa
sopra il pollice, raccoglie sotto il polpastrello il colore rosato
della sua bocca e su di lui si china, a un respiro di distanza. Ora
che non ci sono compagni (e ragazze) a circondarli, stare vicini
viene loro naturale, scivolare tra gli spazio l’uno dell’altro e
annullarli un poco alla volta.
«È un torneo
scolastico, Buck, non mi succederà niente. Perché continui a
preoccuparti tanto?»
Ha ammorbidito la
voce, ma Bucky non cede – se la lealtà è tassorosso, la
testardaggine è tutta sua.
«Dannata sia la
faccia di Morgana!» impreca. «Perché ti conosco Steve! Perché so che
tu invece non conosci il significato della parola “basta”! Quando
avevamo undici anni facevi a botte con maghi esperti grandi il
triplo di te, cosa succederà quando ti troverai davanti un Drago o
ti chiederanno di buttarti nel fuoco? Cosa c’è di male a stare in
panchina per una volta tanto?»
«Sono stato
relegato in panchina per tutta la mia vita, non—»
«Ma ora non sei
più quello di un tempo! E anche lo fossi, non devi dimostrare niente
a nessuno.»
Ecco, lo ha
detto finalmente. Bucky lo
butta fuori tutto d’un fiato e quando ha finito, sa di non avere più
alcuna freccia al suo arco.
Steve annuisce.
Piano spinge il naso contro la punta di quella del ragazzo e lo
strofina, lento, come quando erano piccoli e lui era costretto a
sollevarsi sulla punta dei piedi per arrivarci o a infilarsi nel
letto di Bucky, strofinandoglielo via il perdono. A chiedere scusa
per essere se stesso, Steve non è mai stato bravo.
E in fondo va
bene così.
Preso un sospiro,
Bucky lo guarda negli occhi. «Se credi di essere l’unico a saper
scrivere il proprio nome su un pezzo di pergamena, ti sbagli di
grosso, Rogers.»
«Credevo tu non
fossi interessato.»
«Ho cambiato
idea. Se tu salti, salto anch’io.»
«L’hai sentito
anche tu Silente, in questo Torneo ognuno è per sé.»
«Lo so, ma magari
al calice stai antipatico e preferisce i tassorosso belli come il
sottoscritto.»
«A-ah, come le
ragazze in Sala Grande? Beato te che hai potuto rincorrere sottane,
mentre io ero legato in dormitorio.»
Bucky lascia che
dalla gola vibri una risata calda e maliziosa, mentre incurva la
schiena come un gatto affamato di coccole e negli occhi brilla una
proposta sconcia, anche se Steve, che alle volte forse sembra fatto
più per la guerra che per l’amore, non ha ancora imparato a
leggerle certe cose.
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La scelta dei
Campioni è stata una scarica d’eccitazione e meraviglia. Nessuno si
aspettava quel risultato, nessuno tranne Loki Odinson. Lui è stato
il primo nome sulla bocca di Silente, l’unico dei campioni di
Hogwarts, Dursmstrang e Beauxbatons a non aver battuto ciglio – le
rune gli avevano già parlato, e prima ancora, ha sognato se stesso
in quell’esatto momento, accanto a Stark e al tassorosso dal sorriso
seduttore e gli occhi da lupo.
Il nome di Steve
Rogers, invece, non è mai uscito.
E ora Tony
sguscia insieme a lui nella sala comune di Tosca Tassorosso, mani in
tasca e un grido rivolto a uno dei coperchi di botte che tappezzano
il muro e conducono ai dormitori.
«Barnes, esci
dalla tua tana e vieni a levarmi Capitan Piangina dalla spalla!»
«Guarda che non
sto piangendo e non c’era bisogno mi accompagnassi.»
Prima di Bucky è
Clint Barton a farsi avanti. Arriva dall’alto – un’abitudine
dura a morire –, da una nicchia nascosta nel soffitto, balzando giù
più simile a un grosso volatile che a un tasso.
Poco dopo, Bucky
spunta da uno dei tunnel, lo sguardo che danza da Stark a Rogers.
«E voi due come
siete entrati?»
Tony gli sventola
una mano davanti al volto. «Non guardarmi con quegli occhi da
cerbiatto sorpreso dai fari di un’auto babbana. Ho scoperto parole
d’ordini e ingressi segreti di ogni dormitorio al primo anno di
scuola.»
«Non sarai la
faccia-da-snaso che è andato a raccontare ai primini serpeverde che la loro
password era cambiata?»
«Ti sembro uno
che ha voglie suicide? Con una bravata del genere finisci dritto
sulla lista nera della Romanoff. No grazie, quella suona tanto da
follia di Rock of Ages.»
Steve solleva un
sopracciglio.
«Odinson» gli
chiarisce Clint.
«Già, il fratello
stecco di California Ken,» Tony annuisce e punta Bucky. «a cui,
detto fuori dai denti, io e te dovremo fare attenzione. E parecchia
anche, se vogliamo uscirne con tutti gli arti intatti.»
Di riflesso,
Bucky si tocca il braccio sinistro. Si è cambiato la divisa e le
braccia sono nude, addosso una maglia senza maniche e un paio di
pantaloncini.
Delle delegazioni
di Durmstrang e Beauxbatons non ne fanno menzione; potranno essere
avversari degni, ma quello che scorre nelle vene di Loki è veleno da
Basilisco.
«Comunque, ora
che ho fatto la mia buona azione di oggi, posso finalmente liberarmi
di Rogers e in cambio:» con uno schiocco di dita indica Clint
«Legolas, con me.»
Barton
reclina il capo svogliato. «Fammi indovinare, vuoi chiedermi aiuto
perché sai che Barnes ha una mira migliore della tua con gli
incantesimi di puntamento e l’unico in grado di batterlo sono io.»
Tony storce il
naso, non gli piace quando qualcuno fa notare le sue mancanze – ne
ha poche e tutte ben nascoste – ma questa volta Clint ha ragione; e se è
vero che i tassi sono perlopiù ciechi, non ci si può aspettare altro,
invece, da chi ha l’occhio allenato di un falco.
«Visto che la
Romanoff non è stata scelta e io sono il suo campione preferito, è
tuo dovere aiutarmi» si giustifica, ben conoscendo il rapporto che lega i due ragazzi.
«Sono quasi
sicuro che Nat preferisca me» s’inserisce Bucky.
«E lo dici
davanti al tuo fidanzatino?»
Tony colpisce
dritto nel segno e affonda, mentre Rogers e Barnes fanno a gara a
chi arrossisce di più.
Non rimane a
godere dei frutti delle sue frecciatine, ma con Clint si allontana,
sventolando una mano in saluto.
«Non fare niente
che non farei io, Capitano.»
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Bucky non è
abituato ad avere Steve in camera sua; è lui quello che la sera
sgattaiola per i corridoi del Castello sfidando la buona sorte, il
coprifuoco e gli schiantesimi del professor Phillips.
Clint e Scott
Lang sono i suoi compagni di stanza; se il primo ha seguito Stark,
il secondo finge di dormire, ma quando prendono posto seduti tra le
lenzuola del letto a baldacchino, Bucky estrae la bacchetta e si
rinchiude con Steve in una bolla di mondo tutta per loro.
Non sa da dove
cominciare, forse dovrebbe scusarsi o assicurare al ragazzo che non
è portato per la Divinazione lui e che quel che ha detto
nella Sala dei Trofei era un modo come un altro per riempirsi la
bocca di sciocchezze. Forse un po’ ci ha sperato, ma ora che ha
privato Steve delle luci della ribalta che tanto agognava vorrebbe non
averci mai provato.
«Sei ancora
arrabbiato con me per aver preso il tuo posto?» chiede, guarda in
basso, tra le proprie gambe incrociate e, nervoso, si picchietta la
coscia con la bacchetta.
Steve lo ferma,
raccoglie la mano nella sua e gli sfila il legnetto in quercia
rossa, per posarlo sul comodino.
«Non era il mio
posto e non sono arrabbiato. Sono solo, non lo so, invidioso,
immagino. Ma a questo sono abituato, sono sempre stato invidioso di
te.»
Bucky lo guarda
come se il ragazzo che ha di fronte non fosse lo stesso Steve Rogers
che conosce da una vita, il piccolo magonò che ha preso a calci il
destino e ha riscritto perfino il suo DNA. «Mi prendi in giro? Sei
il prefetto di Grifondoro, il capitano della vostra squadra di Quidditch, hai la media di
eccezionale in ogni materia e la tua faccia è finita perfino
sulla Gazzetta del Profeta. Non hai nulla da invidiarmi.»
«Eccetto il fatto
che la mia magia è nata in provetta. Se non fosse stato per Erskine—»
Steve vorrebbe
parlare e spiegarsi, ma Bucky non glielo permette, non questa volta.
«E con questo?
Quello che ti ha dato lui sono stati i mezzi per essere come tutti
gli altri, il resto è tutta farina del tuo sacco.» Gli tira una
schicchera alla fronte che gli solleva morbide ciocche bionde e le
sue dita si fermano lì, fanno il nido tra i suoi capelli e li
vezzeggiano in carezze delicate, sfiorandogli di quando in quando la
punta di orecchie che hanno iniziato a prendere un colore più
rosato.
«Lo sai che
alcune ragazze della mia casata hanno creato una canzone su di te?
Nemmeno Stark può vantare tanto.»
Steve arriccia il
naso, è quel genere di cose che lo mette seriamente in imbarazzo ed
è per questo che Bucky ne approfitta e la mano che gli accarezzava i
capelli, ora si apre al suo petto e ne saggia la consistenza di
marmo.
«Il Calice avrà
avuto le sue ragioni, ma sono certo di non essere stato scelto
perché sono più degno di te o sciocchezze del genere. Voglio dire, è
stato scelto anche Odinson ed è più probabile che ci uccida tutti
nel sonno pur di avere la vittoria assicurata.»
Steve spalanca la
bocca e s’abbandona a un sospiro lento, lo afferra per i fianchi e
stringe, incollandogli addosso mani grandi e calde, che un
tempo si sarebbero spezzate come niente e che ora invece potrebbero
prendere a pugni il muso di un troll. «Allora forse dovrei rimanere
e assicurarmi che non ti accada niente.»
Bucky ammicca.
«Stai proponendo di farmi da guardia del corpo?»
«Potrei.»
«Potresti. Il mio
cavaliere senza macchia e senza paura. È così grifondoro.»
Steve ride,
mozzicando uno di quei mezzi insulti babbani che sarebbe meglio non
ripetere.
«Comunque farò il
tifo per te» aggiunge infine, chiudendo Bucky in un abbraccio che li
trascina entrambi sdraiati, in un incrocio di gambe e con la testa
ad occupare l’unico cuscino.
«Sarà meglio per
te, pal. Sono un Campione del Torneo Tremaghi ora, ho bisogno
di tutto il sostegno possibile.» Ma se anche il suo fosse un
sussurro tra la folla, Barnes sa che gli arriverà dritto al cuore,
ovunque si trovi, che sia in una scuola piena di studenti o sul
fondo del Lago Nero.
«Quindi… c’è una
canzone su di me, eh? E hai intenzione di cantarmela o devo
chiederlo alle tue ragazze.»
«Punk.»
Nonostante
l’insulto, Bucky si arrampica al suo orecchio e a occhi chiusi,
sottovoce canta per lui.
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