Il
cambio di stagione portò ventate di aria fredda che
ingiallirono le
foglie degli alberi, tingendole di rosso ed arancio. Dal mare stinto,
che come uno specchio rifletteva il grigio cenere delle nuvole,
esalava un olezzo fetido di alghe. L’estate era passata sulla
città
e aveva lasciato alle sue spalle dei danni ben visibili. Se andavi a
riva nelle prime ore del mattino, le onde portavano fino ai tuoi
piedi diversi tipi di rifiuti: bottiglie d’acqua vuote o
involucri
di quelle che un tempo erano state patatine in busta, residui di
bottiglie di birra o di vino frantumate. Lungo tutta la spiaggia
brillavano al sole pezzi di vetro che sembravano pietre preziose.
Mentre,
arrancando sulla sabbia, infilzava una bottiglietta d’acqua
vuota
per gettarla dentro un grosso sacco di plastica gialla che
già era
pieno di ogni genere di rifiuto, Sara pensò che non era
così
inutile come si era sempre valutata e creduta. Se tutti quei detriti
lo intasavano, soffocandolo, con il suo operato permetteva al mare di
respirare di nuovo.
Chiara
non sembrava ugualmente interessata alla
“missione”. Se ne stava
seduta a qualche centinaio di metri di distanza sulla battigia con i
piedi a mollo nell’acqua fredda, sollevando con la punta
delle dita
qualche sassolino del fondale, mentre pigiava sui tasti del suo nuovo
cellulare. Chissà cosa scriveva, e a chi, si
domandò Sara con una
punta di amareggiata gelosia, mentre continuava a ripulire la
spiaggia. C’erano mattine, e a volte (meno di frequente)
sere, che
nulla sembrava turbare la sua serenità. Quella mattina era
di quelle
in cui tutto per forza andava bene, tutto per forza non poteva che
trasmettere e irradiare una letizia ed una calma innaturale. La cosa
più affine che c’era per lei all’essere
felici. Forse erano i
farmaci, ma galleggiava in una nebbia opaca di insensatezza tanto
radicale da non poter neppure causare dolore. Altre volte la sua vita
priva di senso, di obiettivi, la deprimeva al punto che trovava
difficile alzarsi dal letto. Con tutti quei pensieri che la
punzecchiavano, di dover perdere peso, di essere sola al mondo, sola,
un’anima vagabonda perduta in un mondo di sette miliardi di
persone
sconosciute. Sette miliardi di persone che non l’avrebbero
mai
voluta.
Il
medico psichiatra dell’ASL le aveva detto:
“ Hai
solo cumuli di macerie sparse qua e là intorno. Tu devi
costruirci
qualcosa che sia per te un riparo sicuro dall’angoscia di
questo
tuo sentirti persa, sola, senza speranza. La speranza è
anche
qualcosa che si costruisce, sai, Sara? Proseguendo. Anche se sotto i
piedi non hai nulla. Avanza passo dopo passo. La strada
comparirà da
sé ad ogni passo. Fidati”.
2.
Mentre
tornavano a casa il sole si fece cocente. All’una e mezza del
pomeriggio si fermarono, come avevano deciso in mattinata, in una
pizzeria con vista mare. Sara insistette perché ordinassero
entrambe
abbondantemente, anche se Chiara diceva di non aver fame. Il cibo che
non avrebbe mangiato lei, sarebbe finito nello stomaco di Sara come al
solito. Portarsi Chiara nei locali recava l’unico vantaggio
di
poter mangiare il doppio senza attirare troppo l’attenzione.
Chiara
era più emaciata del solito e parlava di meno.
Masticò una decina
delle patatine fritte d’antipasto (90 calorie,
calcolò lei in
mente) e sbocconcellò qualche quadratino della sua pizza
rossa alle
acciughe, tre o quattro in tutto (120 calorie). Sara ordinò
una
pizza molto farcita e la mangiò per intero nello stesso
tempo.
Fuori
dalle vetrate il cielo era pallido e cadeva qualche stilla di
pioggia. A parte per loro due, il locale rimase vuoto e silenzioso
per tutto il tempo.
Pagarono
ed uscirono e dopo essere salite di nuovo in macchina si avviarono al
parco cittadino. Era un piccolo spazio verde abbandonato, con
un’altalena arrugginita e uno scivolo di plastica spaccato in
più
punti in quella che un tempo era stata un’area gioco per
bambini.
Sara sedette sull’altalena mentre Chiara si
accomodò alla fine
dello scivolo accanto ad essa. Il vento faceva oscillare le cime
degli alberi pieni di foglie rosse e gialle e le agitava facendole
turbinare sul prato incolto.
Pigiando
sui tasti del cellulare mentre scriveva un SMS, Chiara chiese
distrattamente se avrebbero fatto qualcosa per Halloween, Sara
rispose che no, non c’era niente da fare ad Halloween o in
qualunque altro giorno dell’anno in quella orrenda
città. Tirando
un calcio ad un sasso davanti a lei aggiunse: “Sogno di
essere da
un’altra parte, magari fuori dall’Italia, forse ci
divertiremmo
di più”.
Forse
ti detesterei di meno, corresse in mente.
Chiara
sospirò e si massaggiò la tempia con la mano che
non artigliava il
cellulare. “Beh, potremmo andarci. Ti va un
viaggetto?”
“ Dove
dovremmo farlo, questo viaggetto?...”
“ Dove
vuoi tu, anche fuori dal Paese. Ti va di andare in Francia?”
Sara
alzò gli occhi al cielo reprimendo un sospiro
d’esasperazione.
“Ooh… la Francia. Prenoti tu i biglietti
dell’aereo? Credo che
andando in agenzia adesso per il trentuno dovrebbero costare meno di
quattrocento euro a testa andata e ritorno”.
“ Perché
fai così?”
“ Così
come?”
“ Sei
sempre sarcastica, acida…”
“ È
una tua impressione. Sono molto tranquilla”.
Scese
il silenzio per qualche minuto. Sara fissava per terra con aria
imbronciata. Chiara aveva una ruga verticale fra gli occhi. Dopo un
po’ sbottò: “Senti, se ti sto sulle
palle dimmelo e basta. Sono
mesi che sei una vipera totale. Non ti ho fatto niente di
male”.
“ Sono
mesi che io sono una vipera perché è una vita che
tu sei
insopportabile” mormorò Sara a denti stretti,
abbastanza piano da
non farsi capire. Poi, a voce più alta: “Ti ripeto
che è tutto
nella tua testa. Sei molto paranoica, non è una
novità…”
“ Sono
paranoica perché vedo che sei cambiata in peggio?”
“ Sono
cambiata in peggio? Ma ti sei guardata?”. Sara
bloccò in tempo il
resto dello sfogo. Chiara sollevò gli occhi su di lei e il
suo viso
si irrigidì in un’espressione di profondo
disappunto.
“ Cosa
dovrei guardare?” sussurrò risentita.
Sara
scosse la testa, in imbarazzo. “Beh... Ti comporti malissimo
da
sempre, con tutti…”.
“ Perché
sono malata…”
“ Anch’io
lo sono…” cominciò Sara e di nuovo si
trattenne.
Per
la seconda volta Chiara infranse il silenzio: “Se non mi vuoi
più
vedere, ok. Non ci vediamo più. Ognuno per la sua
strada…”
“ Sì,
forse…” esitò Sara, giocando a disagio
con un ciuffo di capelli.
“… forse è meglio
così”.
Si
sentì triste, in colpa. Chiara aveva un’aria
depressa che mantenne
lungo tutto il viaggio di ritorno. Non le disse più una
parola
finché non si fermarono davanti casa sua.
“ Allora
ciao” la salutò con aria tranquilla scendendo
dalla macchina per
attraversare il vialetto.
Sara
picchiettò con le dita sul volante, guardando da
un’altra parte.
“Ciao” mormorò.
Chiara
sbatté la portiera dell’automobile (un
po’ più forte del
normale) e sparì. Sara si girò a guardarla andare
via.
Rimase
con quel nodo che le stritolava la gola finché non fu anche
lei a
casa. Si lasciò cadere sul divano d’ingresso,
raggomitolandosi su
di sé, rimuginando su quello che era successo al parco.
Ci
mise dieci minuti per decidersi ad agguantare il cellulare componendo
il numero di telefono di Chiara.
Lei
rispose dopo cinque squilli a vuoto.
“ Che
c’è?” domandò la sua voce
all’altro capo della cornetta. Sara
tirò un profondo sospiro per calmare la tensione e
balbettò:
“ Ti
chiedo scusa… lo sai che sono impulsiva quando sono
nervosa…”
“ Non
è vero che ti dispiace e non ti scuso” rispose la
voce di Chiara,
gelida, dall’altra parte. “Te la prendi sempre con
me, mi odi a
morte, solo perché sei invidiosa…”
Sara
sbatté le palpebre, guardando davanti a sé.
“ Che
intendi dire?”, le chiese cauta.
“ Beh”
sbottò Chiara con sicurezza, “Io sono molto bella,
e tu sei…”
Tacque.
Sara allontanò il cellulare dall’orecchio e lo
guardò a distanza.
Pigiò sul tasto di fine chiamata senza pensarci troppo.
Di
nuovo il cellulare squillò.
“ Che
vuoi?” esclamò Sara portandoselo di nuovo
all’orecchio. Chiara
proruppe con voce stentatamente trattenuta, piena di rabbia:
“ Lo
sai cosa ti stavo dicendo e ci puoi giurare che è
così, che sei
invidiosa. Tu sei solo una grassa rana triste e io sono tutto il
contrario di te. Sono magra e bella. È per questo che sei
così
acida tutte le volte che usciamo. Uscire con te mi fa bene, lo sai?
Perché mi sento ancora più bella del solito.
Questo è tutto...”.
Sara
serrò le dita tozze attorno al cellulare.
“È tutto?” chiese.
“ Sì,
è tutto”.
“ Beh,
allora sappi una cosa. Sarai anche bella, ma sei un’immensa
stronza. E da come ti comporti, sembra che soffri anche di scemenza.
Non hai nulla di cui sentirti superiore, perciò, con me. Ma
con
nessuno. Con nessuno al mondo ti puoi sentire superiore. Questo
è
ciò che penso e che ho sempre pensato di te. Ed è
ora, che è
tutto”.
Chiuse
il telefono in faccia all’altra. D’improvviso si
sentiva solo
alleggerita da un peso.
Come
aveva potuto buttare più di due anni della sua vita con
quella
stupida?
3.
Lentamente
ma inesorabilmente, con il passare dei giorni, la tristezza era
tornata ad intorpidirla, finché una mattinata di fine
novembre si
chiese che motivo c’era di alzarsi dal letto; non ne
trovò nessuno
e quella giornata trascorse nel torpore del sonno, fra coperte
imbottite e bollenti. Ogni tanto si risvegliava sentendo la grandine
picchiare con violenza sui vetri della finestra, sul tetto spiovente
della casa. Si rigirava nel suo giaciglio piena fino all’osso
di
quella rediviva nausea di esistere e tornava a russare. Le parentesi
in cui non dormiva agguantava ciò che di buono
c’era in casa e lo
trangugiava con foga.
Due
settimane prima era riuscita finalmente a trovare un lavoro. Erano
quaranta ore settimanali alla cassa di un grande supermarket nella
periferia di una città limitrofa. Il suo unico compito era
di
passare sul rullo un articolo alimentare dopo l’altro: un
lavoro
robotico che le toglieva ogni residuo di voglia di vivere, e a parte
per quello la sua vita era completamente prosciugata. Senza Chiara
era sola, la solitudine aveva inasprito la sua depressione molto
più
di quanto lo facesse la compagnia di lei. Tuttavia non le mancava per
niente.
Il
medico dell’ASL le aveva prescritto una dose più
forte di
antidepressivo ed aveva aggiunto alla terapia farmacologica un
potente sonnifero, per combattere l’insonnia che la
tormentava con
più ferocia che mai la notte. La settimana prima Sara lo
aveva
salutato con la mano esibendosi timidamente in un sorriso mesto e
cordiale, poi, in salvo fuori dalla struttura sanitaria, si era
detta: meglio
morire, ma non mi intossico oltre con questa robaccia.
Aveva
infatti saltato la visita psichiatrica del venerdì e poi
anche
quella del martedì successivo.
Si
ricordava di Chiara e di come neanche lei vedesse di buon occhio gli
psicofarmaci. “Ti fanno diventare scema”, diceva.
Sarai
scema per questo, tu,
pensò Sara con la faccia premuta contro il cuscino, e
proruppe una
risatina vuota.
Chiara
sarebbe stata per lei una gran delusione se non si fosse accorta di
odiarla prima che lo diventasse in via definitiva. Per fortuna, come
succedeva spesso, nel panorama squallido e morto della sua esistenza
Dio, a suo modo, la tutelava. Dio lo faceva sempre, con i suoi figli
talentuosi. Sara sapeva di essere intelligente, e la sua intelligenza
era un enorme vantaggio in mezzo a tanti svantaggi, il più
importante e prezioso. Provava un po’ di compassione per
Chiara
che, invece, non disponeva di alcun acume e comprensione di
ciò che
la circondava. Proprio per questo sarebbe morta ogni giorno, sarebbe
sempre stata soggetta ai capricci del fato e della sfortuna,
sbatacchiata di qua e di là fra
un’asperità e l’altra come una
patetica foglia secca presa a ceffoni e sputi dal vento e dalla
pioggia, facendosi forza solo con la dimenticanza. Nessun dio
l’avrebbe mai protetta, a Chiara. Se Sara fosse stata nella
sua
pelle, si sarebbe già suicidata da tempo. Anche se sapeva di
non
avere il diritto di giudicare l’esistenza altrui, al di
là della
malattia di cui soffriva ringraziava sempre e comunque Dio di non
essere lei. Sarebbe stato estremamente peggio, essere lei. Non
soltanto per la miseria che ammantava tutta la sua esistenza, ma
anche perché non avrebbe mai disposto neppure degli
strumenti
necessari a salvarsene.
Invece
Sara sì: perciò si sarebbe salvata. Grazie al suo
cervello, si
sarebbe salvata. Perché la vita era sempre, tutta quanta,
solo una
questione di cervello.
4.
Era
un sabato mattina poco prima di Natale quando la rivide per la prima
volta dopo oltre un mese. La vide spingere fino alle casse un
carrello strabordante di roba dolce e salata di ogni tipo. Quando si
accorse di Sara sobbalzò leggermente e tentò una
fuga dell’ultimo
minuto nella cassa accanto, ma dietro di lei si era già
infilato un
altro cliente che le bloccò il passaggio. Chiara rimase
lì, con gli
occhi bassi e il viso violaceo per l’imbarazzo, con una mano
timidamente poggiata sul maniglione del suo carrello stracolmo.
Sara
fece finta di nulla, consegnò il resto alla vecchia signora
che
aveva appena finito di servire e passò al cliente
successivo.
Quando
si trovò davanti Chiara, notò con un sottile
piacere occulto che
non si era limitata per nulla negli elementi della sua abbuffata:
cioccolata, patatine formato maxi, pacchi e pacchi di biscotti, due
grandi bottiglie di liquore, panini, salumi, maionese, creme
spalmabili… Si limitò comunque a pochi pensieri
sul contenuto
della sua spesa, dato che sapeva per prima cosa significava esser
prede del demone delle abbuffate voraci.
Chiara
aveva gli occhi velati da lacrime di umiliazione.
“ Faccio
io” sbottò irritata, mentre Sara cominciava ad
infilare tutta la
mercanzia nelle buste di plastica del supermercato. Sara le
passò le
buste e andò al cliente successivo. Lui aveva due o tre cose
in
tutto e se ne andò in fretta, portandole in mano.
Chiara
era ancora lì che infilava in fretta ed in furia le sue
montagne di
cibo nella borsa. Dato che non c’erano più clienti
nella sua fila,
Sara valutò di alzarsi ed andarsene da qualche altra parte,
ma alla
fine, come vinta da un impulso irrefrenabile, le rivolse la parola.
“ Non
mi hai riconosciuta?”, le chiese.
Chiara
alzò lo sguardo su di lei e parve d’improvviso
calmarsi un po’.
“ Sì
che ti ho riconosciuta, certo”, borbottò.
“Ovviamente”
“ Ovviamente”.
Sara le rivolse un sorriso finto. “Beh, tutto a
posto?”
“ Sì,
tutto normale”
“ Che
ci fai qui?”
“ Sono
venuta un attimo con mia madre, mi ha accompagnata lei” disse
Chiara. “Se non ti dispiace devo tornare in
macchina…”
“ Certo.
Mi ha fatto piacere rivederti”
“ Anche
a me” replicò Chiara controvoglia, e si
avviò alle porte d’uscita
con tre sacchi rigonfi di cibo appesi alle dita.
Sara
sospirò, si rilassò sulla sua poltroncina e
chiuse gli occhi.
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