Inclito
lettore,
ecco un altro po’ di mappazzone, sperabilmente per il
sollazzo di chi legge.
Grazie a tutti coloro che sono passati da queste parti,
hanno letto e magari hanno anche lasciato un commentino.
Capitolo 2
Il
capitano Schultz sedette su una cassa rovesciata, tirò fuori dalla
tasca un
pacchetto di sigarette e se ne accese una.
Per
un po’ rimase a fumare con aria assorta. Ormai era calata la sera e il
cielo
era diventato color cobalto, appena più chiaro lungo la linea
dell’orizzonte.
Dalle finestre degli edifici nei quali era stato installato il comando
di
battaglione palpitavano le lampade da campo.
Dopo
i combattimenti del pomeriggio si era anche ristabilito il silenzio.
Gli Stuka
si erano occupati dell’artiglieria pesante che nelle ultime fasi dello
scontro
aveva preso a martellare la cittadina, il gruppo di mortai era stato
messo
fuori combattimento da un paio di 105.
Solo
in lontananza, tendendo l’orecchio, si coglieva ancora il tuonare sordo
dei
grossi calibri. Più vicino c’erano solo i fiochi accordi di un’armonica
a bocca
e il chiacchiericcio sommesso degli uomini, che gavetta alla mano,
seduti
sull’erba o su spezzoni di muro, consumavano il rancio.
Sullo
sfondo, nere e silenziose, si ergevano le rovine della cittadina.
Diede
un altro tiro – l’ultimo – alla sigaretta, poi schiacciò la cicca sotto
il
tacco dello stivale e cercò di interrarla in modo che non si vedesse.
E
poi si sentì sciocco, perché in una città semidistrutta dai
bombardamenti, dove
praticamente non c’era più un palazzo intero, si preoccupava di non
lasciare in
giro un mozzicone calpestato.
Abbandonò
la cassa e si alzò in piedi stirandosi i muscoli della schiena, quindi
si
incamminò verso l'ospedale da campo.
Si
imbatté dopo poco nel sergente Hofmann.
Si
salutarono militarmente, ma subito la disciplina cedette il posto a un
atteggiamento più informale. Schultz tirò fuori il pacchetto di
sigarette e lo
orientò verso il subalterno in un gesto di offerta.
Questi
ne prese una. “Grazie, signore,” gli disse, se l'accese tenendo il
fiammifero
nel cavo della mano e poi avvicinò la fiammella alla sigaretta che nel
frattempo il suo superiore aveva estratto per sé.
Questi
se l’accese tenendola fra il pollice e l'indice, quindi abbassò la mano
schermando la brace con le altre dita. Emise il fumo in un lungo
sospiro. “Ci
voleva,” disse.
Il
sergente, che teneva la propria nello stesso modo, rispose: “Eh, già.”
“Stavo andando a vedere i ragazzi che sono stati feriti
oggi pomeriggio,” disse Schultz.
Hofmann
si strinse nelle spalle. “Saranno contenti, signore.” Poi, dopo una
pausa: “Io
credo che la stiano aspettando.”
“Voglio essere sicuro che siano sistemati bene,” disse
Schultz per tutta risposta.
Per
un po' i due camminarono in silenzio, poi il sergente si guardò
significativamente intorno, lasciando scorrere lo sguardo sulle macerie
che li
circondavano. Infine disse: “Ma perché i rossi non si arrendono?”
Il
capitano si strinse nelle spalle, e senza smettere di camminare
rispose:
“Nemmeno noi, al posto loro, cederemmo le armi. Non è d'accordo,
Hofmann?”
“Forse ha ragione, signore,” si limitò a rispondere
il sottufficiale, dopo qualche secondo di meditativo silenzio.
Schultz
annuì come per confermare ulteriormente quelle parole, poi disse:
“Questa è una
guerra di Weltanschauung, sergente, e non si fermerà fino a che una non
avrà
prevalso sull’altra. Questa volta non saranno possibili i compromessi:
o saremo
noi ad arrivare a Mosca, o saranno loro a marciare su Berlino.”
Hofmann
lo fisso stupito. Fece per parlare, ma poi si limitò a dare un lungo
tiro alla
sigaretta. Esalando il fumo abbassò la mano e nascose la brace con le
dita
chiuse.
Continuarono
a camminare. Nella devastazione della cittadina distrutta dalle bombe,
l’attività ordinatrice del battaglione non aveva mancato di dare segno
di sé:
le strade di interesse tattico erano sgombre di macerie, le finestre
degli edifici
designati a fungere da alloggi erano state oscurate, i mezzi erano
ordinatamente parcheggiati in uno spiazzo sgombro di detriti, sotto una
tenda
si udivano i rumori di una squadra di meccanici al lavoro.
Le
cucine da campo e l’ospedale funzionavano a pieno ritmo.
La
sede del Partito è uno scantinato ampio, nel quale sono state sistemate
delle
panche e una specie di leggio in fondo.
Il
compagno Schultz delle acciaierie Sauter, ventun anni, alto, il
giaccone da
operaio teso sulle spalle ampie, si alza in piedi e dice: “Posso
esprimere
un'opinione?”
Quelli
che siedono intorno a lui si voltano a fissarlo stupiti, il caposezione
risponde: “Ma certo, compagno. Parla pure liberamente.”
Schultz
annuisce, dà una scorsa a un foglietto che ha tratto di tasca e
comincia: “Io
penso che il pensiero marxista sia uno strumento insufficiente per lo
studio
della complessità della moderna società borghese e capitalista.”
Il
brusio di fondo cala bruscamente, a questo punto tutti si voltano a
guardarlo.
I compagni perlopiù lo fissano come se fosse un essere proveniente da
un altro
pianeta.
Imperterrito,
Schultz prosegue: “Semplicemente non è più funzionale allo sviluppo di
una
matura autocoscienza sociale e culturale nel proletariato industriale,
e in
particolare nella classe operaia.”
Il
caposezione abbandona sul leggio i fogli del discorso che stava per
pronunciare, aggira il mobile e a grandi passi, nella sala fattasi
ormai
silenziosa come la navata di una chiesa, raggiunge il giovane operaio.
“Cosa
stai dicendo, compagno Schultz?” lo richiama all’ordine.
Questi
stringe appena gli occhi e senza muoversi chiarisce: “Il marxismo non è
scientifico come pretende di essere. La sua sostanza ideologica
meccanicistica,
contrattualistica e atomista lo rende il figlio prediletto della teoria
societaria che si era sviluppata al tempo della borghesia liberale per
giustificare le logiche di profitto del mercato capitalista.”
L’altro
fa addirittura un passo indietro, quindi gli chiede: “Chi ti ha messo
in testa
queste idee, compagno?”
“Ho studiato per conto mio. Mi sono
informato.”
“E dov’è che ti sei informato, di
grazia, dai Nazionalsocialisti?”
“Anche. E poi ho letto. Saint-Simon,
Sorel, Binet. È necessario liberare il Socialismo dall’ipoteca
marxista.”
“Basta così,” lo interrompe l’altro.
“Penso che tu non abbia più nulla da fare qui.”
Ancora
immerso nel ricordo, il capitano scosse la testa quasi con indulgenza,
poi
disse: “La vuole sapere una cosa buffa, Hofmann? Una volta anch'io ero
comunista.”
L’altro
si voltò a fissarlo stupefatto. “Davvero, signore?”
“Ci siamo passati in tanti. E poi ho capito e sono entrato
nelle SA.”
Procedettero
un altro po’ in silenzio, ognuno assorto nei propri pensieri, quindi
Schultz
proseguì: “Lo sa perché stiamo combattendo? A questi qua non gli è
ancora
entrato in testa che lo stiamo facendo anche per loro.”
Hofmann
aggrottò le sopracciglia. “In che senso, signore?”
Schultz
sorrise come se si fosse aspettato la sua perplessità, poi disse: “Qui
in
Unione Sovietica non si sta certo realizzando una società socialista.”
Alzò le
spalle. “È solo una forma avanzata e schiavistica di capitalismo di
stato, che
per sopravvivere ha bisogno di espandersi a livello mondiale, e
utilizza la
formula di un internazionalismo proletario che dovrebbe affratellare i
diseredati
della terra a prescindere e in contrasto con le loro stesse radici
nazionali,
culturali ed etniche.” Fece una pausa, quindi soggiunse: “Questi poveri
coglioni non l'hanno mica capito: il marxismo non ha nessuna intenzione
di
liberare Spartaco dalle sue catene: vuole solo forgiargliele con un
metallo
diverso.”
Hofmann
scosse la testa e disse: “Dobbiamo proteggere l’Europa da tutto questo.”
“Vedo che ha compreso. Questo compito tocca alla
Germania: soltanto lo Stato che per primo ha realizzato l’unità
socialista del
suo popolo potrà sperare di diventare il motore della nuova unità
europea su
base socialista.”
Raggiunsero
l’ospedale, finirono le sigarette appena fuori dalla porta, quindi
buttarono i
mozziconi ed entrarono.
Nonostante
fosse stato fatto ogni sforzo in senso contrario, l’atmosfera che vi
aleggiava
era pesante: la calura del pomeriggio non si era ancora dissipata;
nell’aria
c’era un odore greve, che assommava in sé disinfettante, sangue, sudore
e
qualcosa di più acre, addirittura ammoniacale, che faceva pensare a una
via di
mezzo fra urina e liscivia.
Per
quanto medici e infermieri si prodigassero per alleviare le sofferenze
dei
feriti, si udivano lamenti e singhiozzi. Qualcuno stava urlando in modo
orribile da qualche parte, ma nella sala principale giungeva solo l'eco
di
quelle grida.
I
due si fecero indicare dove fossero i feriti della prima compagnia e si
incamminarono per raggiungerli.
Mentre
percorrevano un corridoio, Schultz ebbe la fugace visione di una sala
operatoria schizzata di sangue, con una lampada chirurgica talmente
luminosa da
fare male agli occhi e il rumore penetrante di una sega che aggrediva
un osso.
Allungò
appena il passo e disse: “A questo non ci si abitua mai, non è vero?”
“Nossignore,” confermò Hofmann.
“La vittoria costerà parecchio,” considerò il capitano,
“ma che importano braccia, gambe, anche la testa... purché l'Europa
possa
affrancarsi dalle catene del comunismo e del liberal-capitalismo.”
Il
sergente annuì serio, quindi all'improvviso si fermò costringendo il
capitano a
fare altrettanto. Non c'era nessuno, anche i rumori prodotti dai
chirurghi
erano scomparsi e nell'aria c'era un silenzio sospeso. Gli rivolse uno
sguardo
grave, intenso. “Lei crede che vinceremo, signore?” gli chiese senza
distogliere gli occhi dai suoi.
Schultz
tacque a lungo prima di rispondere. Infine gonfiò il petto in un sospiro che aveva il carattere della
risoluzione estrema e disse: “Hofmann, io so soltanto una cosa: o
vinceremo, o
la civiltà europea come la conosciamo scomparirà per sempre.”
✠
Il
soldato Kammerer prese un panno, lo immerse in una bacinella d'acqua e
lo
strizzò con cura, quindi si avvicinò alla branda del suo camerata
Fuchs. Si
inginocchiò accanto a lui e gli passò la pezzuola fresca sulla fronte.
“Come
va, Reiner?” gli chiese a bassa voce. Gli aggiustò la coperta che gli
era un
po' scesa giù.
“Dieter...” si limitò a mormorare l'altro. Fece per
muovere una mano verso di lui, ma una smorfia di dolore gli deformò i
lineamenti.
Fu
l'altro a prendergliela fra le proprie. “Reiner,” ripeté a bassa voce.
“Sta'
tranquillo, amico. Ci sono io qui con te.”
“Fa male,” esalò il ferito con voce debole, stringendo
le dita sulle mani dell'altro fino a che le nocche non sbiancarono. “Fa
molto
male,” ripeté. Una lacrima gli scese lungo la tempia e scomparve fra i
capelli
biondi.
Kammerer
attese che lo spasmo venisse meno, poi liberò una mano e si protese ad
afferrare la bacinella d'acqua. Di nuovo vi risciacquò il panno, quindi
lo
passò sulla fronte e sul viso del camerata. “Non fa tanto male, dai,”
gli disse
piegandosi per parlargli all'orecchio. “Adesso ti manderanno a
Brest-Litovsk, e
da lì tornerai in Germania. Prometti che mi scriverai quando sarai a
casa?”
“Tutti i giorni,” mormorò Fuchs. “Ma anche tu devi
scrivermi, promettimelo.”
“Certo che ti scriverò,” rispose Kammerer, “ti
racconterò tutto quello che facciamo. Sarai curioso di sapere quando
nascerà il
bambino di Berger, no? E naturalmente anche di sapere se Linde
caricherà di
nuovo il mortaio con le munizioni del PAK. Come avrà fatto, poi...”
Le
labbra esangui di Fuchs si stirarono in un lieve sorriso. “Voglio
sapere se
Hofmann scoprirà chi è stato a mangiarsi le salsicce che Fischer aveva
ricevuto
da sua madre.”
Kammerer
gli passò di nuovo il panno umido sul viso, poi gli fece scorrere la
mano fra i
capelli in una lenta carezza. “Ti fa ancora molto male, Reiner?”
s'informò a
bassa voce.
“Un po' meno,” rispose il ferito.
Il
primo sorrise e accarezzandogli di nuovo i capelli disse: “Lo sapevo.
Vedrai
che presto starai ancora meglio.”
“Dieter, non dimenticare di scrivermi.”
“Ma se ti ho detto che lo farò tutti i giorni...”
“Ti prego. Se non lo farai, io mi sentirò solo.”
Kammerer
fece una lieve risata e rispose: “Certo che sei buffo, Reiner: tu sei
quello
che torna a casa in licenza mentre io me
ne resto qui al fronte e chi dovrà preoccuparsi di non farti sentire
solo sono
io?”
La
voce del ferito aveva un tono quasi angosciato: “Non vedrò più Fischer,
Ladowski, Berger, Linde… e il sergente Hofmann e il signor capitano.”
“Non li rivedrai per un po’, Reiner. Poi tornerai qui
da noi.”
“Non rivedrò più neanche te.” Fuchs ricominciò a
piangere. “Scusa,” mormorò dopo qualche secondo, incapace tuttavia di
frenare
le lacrime, “scusami...”
“Dai, non fare così,” gli disse Kammerer, cercando di
abbracciarlo senza toccare l’ampia medicazione che gli copriva la
spalla.
“Presto starai bene, tornerai da noi.”
“Scusami,” ripeté Fuchs, allungando il braccio sano a
stringersi contro l’amico.
Appena
fuori dalla porta, Schultz e Hofmann si scambiarono un’occhiata, poi il
capitano tossicchiò per attirare l’attenzione dei due.
Kammerer
si voltò e appena riconobbe l’ufficiale si raddrizzò e si mise
sull’attenti.
“Comodo,” disse semplicemente Schultz, quindi lo
raggiunse e a sua volta si chinò sul ferito. Fece finta di niente di
fronte ai
suoi occhi lucidi e alle ciglia ancora imperlate di lacrime, e in tono
allegro
gli chiese: “Allora come va, soldato?”
Fuchs
non poté impedirsi di sorridere. “Bene, signor capitano,” rispose. Poi,
dopo
una pausa: “Grazie per oggi.”
“Dovere, ragazzo mio,” rispose Schultz alzando le
spalle con noncuranza. “Tu avresti fatto lo stesso per me, non è vero?
È così
che funziona tra camerati.”
Stava
per aggiungere altro quando una strana sensazione di allarme lo
pervase. Alzò
la testa e rimase per qualche istante in ascolto, cercando di ignorare
tutti i
rumori di fondo dell’ospedale da campo: c’era qualcosa nell’aria, come
un rombo
lontano. “Hofmann, andiamo,” disse asciutto, alzandosi bruscamente in
piedi.
Quando
giunsero all'esterno, il rombo si era fatto più forte e più cupo, tanto
che
addirittura il terreno sembrava percorso da una vibrazione sorda.
L'oscuramento
era pressoché totale, ma una volta abituati gli occhi al buio, alla
flebile
luce delle stelle percepirono sagome in frenetico movimento.
Dappertutto si
udiva il clangore metallico di armi e munizioni spostate. La voce
chiara e
forte di Weber stava già impartendo precisi comandi.
“Quel tenente vale tanto oro quanto pesa,” constatò
Schultz, cercando di identificare la figura alta e atletica del giovane
ufficiale.
Fu
Weber a identificare lui, e nel trovarselo all'improvviso davanti,
Schultz si
chiese se per caso vedesse anche al buio come i gatti. “Signor
capitano,
attacco aereo!” annunciò marziale. “Ho già allertato la FLAK del campo.”
Schultz
aprì la bocca per rispondere, ma in quel momento il rombo di motori in
avvicinamento tacque bruscamente e nel silenzio si udì solo un diffuso
fremito
metallico.
“A terra!” urlò l'ufficiale.
Subito
dopo una bomba esplose in un lampo giallo e arancione, sollevando una
fontana
di detriti. Nella vampa dello scoppio si vide la sagoma di un biplano
che
ridava motore e prendeva quota.
Altre
bombe fecero seguito alla prima, un camion saltò per aria, ricadde e
rotolò con
uno sferragliare stridente, poi rimase ruote all’aria con una colonna
di fumo
che usciva dal cassone incendiato; un ordigno rimbalzò sulla
corazzatura di un
blindato ed esplose a mezz’aria, spargendo ovunque micidiali schegge.
La
contraerea entrò in azione vomitando piombo in un cielo che le
improvvise luci
a terra avevano reso piceo.
Scie
di traccianti si susseguirono nell'oscurità. Colpito in pieno, uno
degli aerei
parve accartocciarsi come se un'enorme mano lo stesse stritolando,
quindi
precipitò in vite e dopo poco si levò dalla campagna il fungo rossastro
di
un'esplosione.
Poi
l’attacco cessò com’era cominciato, e degli aerei rimase solo un
rombare cupo
che si perdeva nell’orizzonte oscuro.
Ancora
a terra, il capitano fece girare lo sguardo tutt’intorno.
Qua
e là c'erano focolai d'incendio, da qualche parte qualcuno stava
urlando. Di
nuovo si udì la voce del tenente Weber, calma come nel corso di
un'esercitazione sulla piazza d'armi, che dava disposizioni.
“Quello potrebbe muovere da solo una divisione,”
borbottò Schultz rialzandosi. Si guardò intorno, ma il buio gli
impediva di
farsi un’idea dei danni.
Sbatté
gli occhi cercando di distoglierli dal bagliore delle fiamme, quindi si
diresse
a passi svelti verso gli alloggi della compagnia.
Fu
a quel punto che il capitano cominciò a sentire un urlio confuso
dappertutto.
Non erano le grida di dolore dei feriti, ma un ululare gutturale e
sinistro.
Un
primo bengala si innalzò nel cielo, e a quella luce violacea la pianura
antistante le linee difensive parve letteralmente ribollire di uniformi
color
terra.
Sembrava
che il suolo stesso si fosse animato, conglomerandosi in centinaia di
forme che
avanzavano curve, emettendo roche grida.
Un
secondo bengala si alzò, seguito a ruota da un terzo: le luci
generavano ombre
mobili, che facevano apparire ancora più sinistra quella massiccia
compagine.
Dalle
linee difensive approntate con sacchi di sabbia, una mitragliatrice
pesante
cominciò a crepitare, spazzando il campo da un lato all'altro. Nel
lucore
freddo del magnesio, Schultz vide degli uomini cadere, ma altri
sopravanzarli
senza nemmeno rallentare. Colse il bagliore di vanghe affilate e
pugnali,
ovunque pulsavano i lampi degli spari.
Una
seconda mitragliatrice entrò in azione, due granate vennero lanciate
con lunghe
parabole nel mezzo della formazione nemica, ma i vuoti lasciati dalle
esplosioni vennero in un attimo inghiottiti dalla marea che avanzava.
Da
dietro la formazione russa, gruppi di mortai cominciarono a sparare.
Schultz
raggiunse la prima linea.
“Signore, attaccano in massa!” lo accolse il tenente
von Auberg, alzando la voce per coprire il frastuono di spari ed
esplosioni.
“Fuoco di sbarramento!” rispose immediatamente il
capitano, “Mitragliatrici pesanti dai settori uno e tre, caricare i
mortai da
trincea con munizioni a shrapnel. Tenga i suoi uomini pronti al
contrattacco.”
Senza
attendere risposta si guardò intorno alla ricerca di Plank e Lange:
vide solo
il primo e ripeté gli ordini anche a lui. Gli uomini nel frattempo
stavano
affluendo verso i posti di combattimento.
Arrivò
un colpo di mortaio contro un ridotto, i sacchi di sabbia volarono in
ogni
direzione, qualcosa che si lasciava dietro una rutilante scia rossa fu
scagliato lontano e scomparve nel buio.
Entrarono
in azione i mortai da trincea tedeschi e le esplosioni degli shrapnel
si
sovrapposero alla cacofonia di detonazioni e grida che faceva vibrare
l'aria.
I
primi russi erano già a pochi metri dalle trincee più avanzate. Schultz
vide
arrivare il tenente Weber, di Lange ancora nessuna traccia. Intravide
anche il
sergente Hofmann che stava spingendo avanti gli uomini del plotone di
Lange.
Un
siberiano enorme gli balzò contro, il capitano riuscì ad arretrare quel
tanto
che mandò a vuoto l'affondo della sua vanga da trincea, si spostò di
lato e nel
movimento estrasse la pistola, quindi gli sparò sue colpi al torace.
L'altro
sussultò sotto l'impatto, poi continuò impassibile a muoversi verso di
lui.
Schultz sparò di nuovo e vide chiaramente un foro di proiettile aprirsi
nel
torace dell'uomo. Questi fece un altro paio di passi col sangue che gli
ruscellava dalla bocca, e con un ultimo, inaspettato movimento gli
balzò
addosso, rovesciandolo all'indietro e tentando di strangolarlo con due
mani
talmente grandi che per circondargli il pur robusto collo ne sarebbe
bastata
tranquillamente una sola.
Il
capitano tese i muscoli, tentò di svincolarsi mentre lottava contro la
mancanza
d'aria. Tutt'intorno infuriava una battaglia senza quartiere, più volte
rischiò
di essere calpestato assieme al suo avversario nelle mischie che
costantemente
si accendevano e si scioglievano ovunque. Puntò il ginocchio contro
l'addome
del russo mentre le dita ruvide di questi – dita da operaio, gli venne
da
pensare – continuavano pervicacemente a stringergli il collo come in
una morsa.
Si divincolò, si torse, spinse la canna della pistola contro il corpo
del russo
e fece fuoco due volte. L'uomo sussultò e finalmente si afflosciò.
Ansante,
fradicio di sangue, Schultz si alzò barcollando. Altri due bengala
schizzarono
nel cielo e da lì presero a discendere lentamente, gettando la loro
lugubre
luce violacea sullo scontro.
Un
altro colpo di mortaio si abbatté poco lontano. Nel bagliore aranciato
della
deflagrazione vide uno dei suoi torcersi nell'aria come una specie di
trota
presa all'amo, descrivere una parabola e abbattersi al suolo. Nel
movimento
colse la sua bocca spalancata in un grido muto, coperto dal frastuono
che
regnava ovunque.
L'urlio
roco dei sovietici ebbe di colpo un climax che coprì addirittura il
fragore
delle esplosioni. Si girò verso la provenienza delle grida e si accorse
che un
cuneo di fanteria stava sfondando le linee tedesche proprio nella
posizione a
difesa dell'ospedale da campo. Notò che dalle finestre dell'edificio
qualcuno
stava già facendo fuoco sulla moltitudine, vide una granata rimbalzare
sul muro
e scoppiare in aria.
Identificò
l'alta figura del tenente Weber, raggiunse l'ufficiale e gli batté
sulla spalla
per attirare la sua attenzione, poi gli indicò quanto stava accadendo.
Egli
si limitò ad annuire, quindi fece un cenno ai suoi uomini e si mosse in
quella
direzione.
Schultz
strinse appena gli occhi, infastidito dai fumi che ormai rendevano
l'aria
irrespirabile. La linea di difesa ormai si era sfrangiata in decine di
scontri,
nei quali gli uomini si affrontavano all'arma bianca.
Qualcuno
lo spinse, egli barcollò e fece appena in tempo a farsi indietro per
evitare il
fendente di una vanga da trincea; subito dopo esplose uno shrapnel a
distanza
ravvicinata e le schegge roventi dilaniarono chi si trovava lì intorno.
Il
russo che aveva cercato di assalirlo crollò a terra crivellato, Schultz
arretrò
ancora, scivolò su qualcosa che gli parve un brandello di carne,
fortunosamente
recuperò l’equilibrio, poi si accorse che un altro reparto russo stava
tentando
uno sfondamento.
Sostituì
il caricatore dell’MP40 e corse verso la mischia.
Il
sergente Hofmann decapsulò una granata e la spedì fra i russi con un
tiro a
parabola di almeno trenta metri. Successivamente afferrò la pistola
lanciarazzi
e sparò in aria un altro bengala, che esplose in un lampo di luce
biancastra e
prese a scendere ondeggiando verso terra.
Si
piegò per evitare una rosata di schegge. A poca distanza da lui, una
granata
cadde in mezzo a un gruppo di soldati ed egli fu investito da una
sventagliata
di sangue e brandelli di carne.
Scrutò
ansante la pianura ormai costellata di cadaveri e vide che i russi
stavano
cominciando ad arretrare.
Un
ufficiale, gli parve che fosse il capitano Schultz, stava guidando un
contrattacco. Armati principalmente di armi bianche, i suoi uomini
facevano il
vuoto dove passavano.
Qualcosa
esplose talmente vicino che lo spostamento d’aria lo fece barcollare e
le
orecchie presero a fischiargli. Sentì in bocca il sapore della terra e
del
sangue.
Qualcuno
lo afferrò per una spalla. Si girò fulmineo, già pronto a difendersi, e
si
trovò faccia a faccia con il tenente Weber: Realizzò di essere finito
lungo
disteso da qualche parte. Il tenente gli disse qualcosa, ma la voce era
coperta
dalla cacofonia che rimbombava ovunque. Dal labiale gli parve che
stesse
chiedendo se stava bene e accennò di sì.
In
quel momento, da dietro le linee entrò in azione un 105 e gli obici
cominciarono a scoppiare tra i russi.
Quando
il capitano Schultz riuscì finalmente a dare un’occhiata all’orologio,
si
accorse che dall’inizio dell’attacco
russo erano passati non più di quarantacinque minuti.
Fece
girare lo sguardo tutt’intorno: il cielo era ancora piceo, le uniche
fonti di
luce erano i focolai d’incendio che crepitavano qua e là e i bengala
che
continuavano a essere sparati sul campo.
Il
terreno davanti alla linea di difesa sembrava arato di fresco, i pochi
alberi
che l’avevano costellato erano ridotti a tronchi scheggiati. Finite le
sparatorie, il silenzio che era calato sembrava quasi irreale.
Ovunque
c’erano cadaveri, la maggior parte in uniforme color terra, ma anche
Waffen-SS
in grigioverde.
Vide
i portaferiti chinarsi su ogni corpo, e perlopiù rialzarsi delusi. Solo
dopo
lunghe ricerche riuscirono a trovare qualcuno ancora vivo: era un
russo,
probabilmente un ufficiale a giudicare dalle mostrine, e si lamentava
debolmente tenendosi le mani premute contro un fianco. Lo raccolsero
con cura e
lo portarono via.
Il
capitano li seguì con lo sguardo fino a che non scomparvero
nell’edificio
adibito a ospedale, poi raggiunse la sua compagnia. Per quanto stanchi,
i
soldati erano impegnati a prestare i primi soccorsi ai feriti, alcuni
aiutavano
a trasportare le barelle di chi non riusciva a camminare. Da una parte,
coperti
dai teli individuali, erano allineati i caduti.
Chiamò
a raccolta i suoi comandanti di plotone, ma ebbe l’amara sorpresa di
scoprire
che Lange era stato ucciso all’inizio dell’azione e von Auberg era
stato
portato all’ospedale da campo, non si sapeva quanto gravemente ferito.
Rimanevano
solo Planck e Weber, il primo con un bendaggio di fortuna a un braccio,
il
secondo che sembrava pronto per
un’ispezione.
“Sarà meglio che vada a vedere come sono sistemati i
feriti,” disse infine il capitano, “Weber, prenda lei il comando in mia
assenza. Planck, rediga una nuova lista degli effettivi di ogni
plotone.
Sergente Hofmann, venga con me.”
Si
incamminò serio, le mani allacciate dietro la schiena, le labbra
serrate. Ogni
tanto passavano barelle cariche di feriti, taluni ridotti in condizioni
tali da
mettere a dura prova anche la più solida fermezza d’animo.
Dopo
un po’ il sergente Hofmann gli si affiancò e gli porse in silenzio una
sigaretta già accesa. Schultz ringraziò con un cenno del capo, la prese
come
suo solito tra il pollice e l’indice, se la portò alle labbra e diede
un lungo
tiro.
Esalò
il fumo con calma, quasi stesse espellendo con quello tutto l’orrore
che lo
stava tormentando, poi recitò: “Di fronte alle spade e di fronte
alle
bandiere il nostro riso si è spento./ Ma dopo tutto che importa! Noi
saremo gli
avi di nipoti che ridono.”[1]
[1]
Il verso è di Walter Flex.
|