Incliti
lettori,
ecco un altro capitolo del mappazzone,
sempre con la speranza che vi sia gradito. Ringrazio moltissimo tutti
coloro
che sono passato di qui e hanno dato un’occhiata. Ringrazio con
particolare
commozione chi mi ha anche lasciato un commento.
Capitolo 3
Schultz
si alzò in piedi e inforcò il binocolo. Osservò a lungo i dintorni,
cercando di
compensare coi movimenti del corpo gli scossoni che la strada
dissestata
trasmetteva al semicingolato, quindi riabbassò lo strumento. Le colonne
di fumo
che salivano dall’orizzonte dovevano essere sopra a Minsk. Cercò di
decifrare
qualcuno dei cartelli che ogni tanto si incontravano lungo la strada,
ma non
aveva familiarità col cirillico e le indicazioni scorrevano via prima
che fosse
riuscito a dar loro un significato. “Weber, cosa dicono?” chiese senza
girare
lo sguardo.
“Quindici chilometri a Minsk, signor capitano.”
Schultz
annuì. “Lo immaginavo. Stanno combattendo parecchio laggiù.”
“La terza armata sovietica è stata accerchiata,”
dichiarò il tenente Weber, al solito ben informato.
Il
capitano si limitò a battergli una mano sulla spalla. “Bravo ragazzo.
Cosa
farei se non avessi lei...”
“Grazie, signore.”
Al
solito, il più vecchio rinunciò a capire se quella sobria risposta
fosse seria,
sottilmente ironica o solo infastidita. Il tenente Weber continuava a
rappresentare per lui un mistero insondabile: perfetto in ogni
situazione, ma
non ricordava di averlo mai visto ridere.
Una
moto si affiancò al veicolo distogliendolo da ulteriori elucubrazioni:
un
portaordini gli consegnò un foglietto ripiegato, poi diede gas e
scomparve
lungo la colonna di veicoli.
Schultz
lesse la breve nota, poi se la infilò in tasca. Si voltò verso il
tenente e
disse: “Weber, avrò di nuovo bisogno della sua conoscenza del
cirillico: la
compagnia deve portarsi verso una località detta Shcho...” Imprecò fra
i denti,
tirò fuori di nuovo il biglietto, lo lesse aggrottando le sopracciglia
e
lentamente scandì: “Shchomys’litsa.”
“Sissignore,” si limitò a rispondere il giovane
ufficiale, come se gli avesse chiesto di avvisarlo quando passavano il
cartello
per Berlino.
“Ci attesteremo là e ci uniremo al contingente che
raggiungerà il centro di Minsk da sud. Ci sarà da combattere parecchio,
i russi
non ne vogliono sapere di mollare.”
Il
tenente si limitò ad annuire.
Ancora
una volta il capitano si guardò intorno. Il caldo di fine giugno
arroventava le
lamiere dei blindati, la polvere sollevata da cingoli e ruote rendeva
l’atmosfera caliginosa. Stipati sui mezzi, gli uomini parlavano tra
loro o
semplicemente guardavano sfilare il monotono paesaggio russo. I più
esperti
erano impegnati in veementi partite di Skat, dalle quali provenivano
esclamazioni che alle volte coprivano anche il rombo continuo dei
motori.
Portaordini
a bordo di motociclette facevano la spola su e giù lungo le colonne.
Ogni tanto
a lato della strada si trovava qualche mezzo che aveva avuto un’avaria,
regolarmente con il cofano alzato e un paio di gambe che uscivano dal
vano
motore.
A
un certo punto si imbatterono anche in un Panzer. In uniforme nera,
allineati
lungo la fiancata del veicolo alla vana ricerca di un lembo d’ombra, i
membri
dell’equipaggio sembravano merli su un filo della luce.
Assieme
a una buona parte della colonna, svoltarono per quella che sulle prime
parve
poco più che una strada di campagna appena un po’ più larga del
normale. Sul
terreno battuto si vedevano sulle prime solo due solchi paralleli come
per il
passaggio dei carri e solo dopo, a ben guardare, si intravedeva sotto
lo strato
di terra un lastricato grigiastro e fessurato, che sembrava composto da
lastre
di cemento messe una accanto all’altra.
Da
una parte e dall’altra della strada, le campagne si estendevano appena
ondulate, perdendosi all’orizzonte tutte uguali. Solo qua e là qualche
albero
da frutto rompeva la monotonia del paesaggio.
Schultz
alzò gli occhi sul cielo immobile, pensando che tutta quella calma non
era
normale.
Seduto
al fianco del conduttore, il sergente Hofmann allungò le gambe davanti
a sé
cercando di stirarle. Era tutto il giorno che avanzavano e ormai gli
pareva di
avere al posto della schiena un blocco di cemento.
Si
sporse in avanti: dopo ore di campagne tutte uguali, stavano
raggiungendo le
propaggini di un centro abitato. Erano comparse case ai lati della
strada e più
avanti si vedevano anche edifici a più piani.
I
mezzi si inoltrarono in quello che probabilmente era stato fino a poco
prima un
grazioso sobborgo di Minsk: edifici di fine ottocento, lampioni di
ghisa, un
marciapiede alberato che correva lungo il fiume. Civili non ce n’erano,
ovviamente, ma poteva immaginare la gente che nelle giornate di
primavera
passeggiava all’ombra.
Emise
un sospiro pensando a prima della guerra, anche lui andava a passeggio
nello
stesso modo, magari sottobraccio con qualche ragazza. Notò
distrattamente che
proprio in mezzo alla strada c’era un tombino un po’ sollevato.
Poi
il mondo esplose.
Ci
furono un boato assordante, un lampo di luce gialla e poi lingue di
fuoco
dappertutto. La sua prospettiva si capovolse, vide buio, poi luce, poi
buio di
nuovo. Un dolore acutissimo lo trafisse al fianco, tanto che spalancò
la bocca
per urlare, ma non riuscì a emettere alcun suono. O forse semplicemente
aveva
urlato ma non riusciva a sentire nulla.
L’ultima
sua percezione chiara fu quella di trovarsi con la faccia sul selciato
e la
bocca piena di sangue, poi tutto si confuse in una nebbia oscura che
aveva il
tanfo del gasolio bruciato.
“Copertura!” ordinò il capitano Schultz nell’udire
l’esplosione. “Copertura, via dalla strada!”
Si
girò e vide un autoblindo rovesciato, con lingue di fuoco che uscivano
dal
motore. Tutt’intorno c’erano soldati esanimi, mentre i feriti lievi,
pur
intontiti dallo scoppio, si stavano già trascinando lontano. Si accorse
che tra
i corpi immobili c’era anche quello del sergente Hofmann, intrappolato
per metà
nelle lamiere accartocciate.
In
quel momento, dalle finestre raffiche di mitragliatrice cominciarono a
spazzare
la strada.
“Copertura!” ripeté il capitano, “Via di qui immediatamente,
è un’imboscata!”
Saltò
giù dal veicolo ancora in movimento, poi si girò e disse: “Tenente
Weber,
prenda il comando della compagnia fino al mio ritorno. Comunichi al
comando che
siamo stati attaccati!” Senza attendere risposta si lanciò di corsa
attraverso
la strada, evitò di stretta misura una sventagliata di proiettili e si
appiattì
contro un muro a poca distanza dal blindato in fiamme. “Hofmann!” urlò.
Gli
rispose un gemito.
Si
sporse a guardare: il sergente giaceva faccia in giù in una pozza di
sangue, le
fiamme gli si stavano pericolosamente avvicinando.
Tossì
investito dal fumo dell’incendio, poi scattò in avanti approfittando di
quella
momentanea copertura, raggiunse il blindato e senza perdere tempo
afferrò il
sottufficiale per le braccia. Lo tirò a sé, ma non ottenne altro che di
strappargli un gemito di dolore. Non riuscì a spostarlo da sotto il
blindato.
Nonostante
si trovasse a poca distanza dalle fiamme, Schultz sentì un brivido di
freddo
percorrerlo. Se non fosse riuscito a liberarlo, il sergente sarebbe
bruciato
vivo. Tirò di nuovo, con più forza, ma non successe nulla.
Le
fiamme si stavano rinvigorendo di attimo in attimo, il capitano quasi
non
riusciva più ad avvicinarsi al veicolo. Cercò di ragionare più in
fretta che
poteva: cosa fare?
Il
peso della pistola contro la coscia gli parve un sinistro monito:
meglio una
morte rapida e pietosa che...
Diede
un ultimo strattone con tutte le sue forze: si udì il rumore di stoffa
che si
lacerava e finalmente Hofmann fu libero. Senza nemmeno accertarsi delle
sue
condizioni, augurandosi che il fumo fosse sufficiente a nascondere
entrambi,
Schultz lo trascinò via dalla strada, verso un palazzo semidiroccato,
il cui
androne offriva comunque copertura rispetto alle mitragliatrici che
spazzavano
l’esterno.
Quando
fu dentro, si accorse che già altri superstiti vi avevano trovato
rifugio. Li
passò in rassegna con lo sguardo: alcuni erano leggermente feriti, tra
o
quattro apparivano illesi. Uno era sdraiato da una parte con una
medicazione
gli copriva metà testa, già macchiata di sangue in più punti.
“Vediamo di organizzarci,” disse asciutto. “Chi è il
più alto in grado, qui?”
Si
fece avanti un giovanotto che non poteva avere più di vent’anni, con la
giacca
sulle spalle e un braccio al collo. Aveva il nastrino della croce di
ferro di
seconda classe, la croce di ferro di prima classe e il distintivo di
combattimento corpo a corpo in argento. “Caporale Altendorf, signore,”
si
presentò con voce ferma.
Schultz
annuì, poi rapido ordinò: “Due uomini a recuperare le munizioni, la
cassetta di
medicazione e l’acqua potabile finché il fumo riesce a nasconderci.
Altri due a
ispezionare questo posto, voglio che sia organizzata il prima possibile
la
difesa.”
“Sissignore.”
L’ufficiale
si chinò a quel punto sul sergente, che giaceva ancora immobile dove
l’aveva
trascinato.
“Hofmann,” lo chiamò a bassa voce. Il più giovane
riuscì solo a sollevare lo sguardo annebbiato su di lui.
“Hofmann,” insisté Schultz, sbottonandogli rapidamente
la giubba fradicia di sangue, “dove le fa male?”
Il
sergente schiuse le labbra per rispondere. Avrebbe voluto dire
“ovunque,” ma
non riusciva a emettere un suono. Il volto del capitano chino su di lui
era
poco più di una macchia bianca, i rumori della battaglia arrivavano
come
attraverso l’acqua.
Percepì
mani abili e rapide che gli applicavano addosso compresse di garza,
gemette
quando il tocco si fece più deciso. Sussultò ma non fu in grado di
sottrarsi.
Sbatté
un paio di volte le palpebre. La consapevolezza andava e veniva a
ondate,
insieme a fitte di dolore che gli mozzavano il respiro.
Percepì
che Schultz gli stava dicendo qualcosa, ma la sua voce gli giungeva
come un
mormorio confuso, del quale coglieva solo il tono di premura.
A
fatica articolò: “Sto...” Avrebbe voluto dire “bene,” invece balbettò:
“Sto
morendo…?”
Il
capitano gli prese il viso fra le mani, si piegò su di lui. “Coraggio,
ragazzo
mio,” scandì adagio, “si riprenderà presto.”
Hofmann
schiuse le labbra per rispondere, ma all’ultimo gliene mancarono le
forze.
Chiuse gli occhi e sprofondò nel buio.
Schultz
lasciò delicatamente ricadere la testa del subalterno, quindi si
raddrizzò e si
voltò verso Altendorf, che stava entrando in quel momento con una
cassetta di
nastri da mitragliatrice nella mano sana. “Abbiamo recuperato il
possibile,
signore,” disse in tono neutro.
“Il resto della colonna?” chiese il capitano.
“Non è più in vista, signore.” Il caporale tacque per
qualche secondo, quindi soggiunse: “La strada è sotto il tiro delle
mitragliatrici pesanti, non potevano rimanere.”
A
Schultz diede l’idea che stesse cercando di convincere se stesso prima
di lui,
comunque assentì e rispose: “Vedremo di arrangiarci per conto nostro.
Che cosa
è stato recuperato dall’autoblindo?”
L’elenco
di Altendorf fu desolatamente breve.
Il
capitano alzò lo sguardo verso una delle finestre: ormai stava calando
la sera,
fuori regnava un silenzio sinistro, interrotto qua e là da qualche
scoppio
lontano. Gli parve di veder balenare un fuoco da qualche parte, fra le
rovine,
e si chiese se fosse un gruppetto di civili che cercava di tenere
lontana
l’angoscia della notte.
Nella
luce che andava scemando fece scorrere lo sguardo su quelle che per il
momento
erano diventate le sue truppe. Vide volti stanchi, alcuni rigati di
sangue, ma
nessuna espressione rassegnata.
“Per chi ancora non lo sapesse, io sono il vostro comandante di
compagnia, capitano Hermann Schultz,” disse loro, approfittando di quel
breve
momento di calma, “in questo momento assumo il comando della squadra.”
Strinse
le labbra. Avrebbe voluto poter raccontare loro che qualcuno sarebbe
andato a
riprenderli, che tutto si sarebbe presto risolto, ma non era sua
abitudine
mentire. Meglio dire le cose come stavano senza mezzi termini.
“Non credo che entro stasera verranno a prenderci,”
disse quindi. “Non so nemmeno se sanno che siamo ancora vivi, quindi
sarà
necessario che qualcuno trovi il comando di battaglione e lo riferisca
a chi di
dovere.” Fece una pausa, di nuovo squadrò uno per uno i volti che lo
circondavano. “E anche in quel caso, non illudetevi che far sapere che
qui c’è
un contingente di superstiti sia sufficiente ad attivare un’operazione
di
salvataggio. Sapete bene anche voi che verrà ordinata unicamente se la
situazione tattica lo consentirà, diversamente dovremo arrangiarci.”
Nessuno
replicò e un silenzio consapevole calò sullo sparuto gruppo. Uno dei
soldati,
con una medicazione sommaria che gli circondava una coscia, volse lo
sguardo
verso i feriti gravi e poi lo sollevò con fare significativo verso di
lui.
Schultz
strinse le labbra. Come ufficiale comandante, in caso di necessità gli
sarebbe
toccato il compito ingrato di ordinare che fossero lasciati indietro.
“Faremo
quel che c’è da fare,” disse semplicemente. Poi, a voce più alta:
“Altendorf!”
Il
caporale si avvicinò. “Signore?”
“Altendorf, organizzi turni di guardia. Non è escluso
che questa notte i russi vengano a farci visita.”
“Sissignore.”
Di
nuovo, il capitano si girò verso i soldati. “Mi serve un volontario,”
disse.
“Qualcuno che sappia destreggiarsi al buio e in silenzio.”
Un
ragazzetto magro alzò la mano. “Io, signore.”
Schultz
lo squadrò attento: occhi vispi, movimenti sicuri. “Come ti chiami,
soldato?”
gli chiese.
“Hans Welke, signore.”
“Sai leggere le mappe, soldato?”
“Sissignore.”
Il
capitano aprì una carta spiegazzata e strappata della città, indicò un
punto
col dito e disse: “Noi siamo qui.” Spostò l’indice fino a raggiungere
una croce
tracciata con la matita rossa. “E qui è dove teoricamente dovrebbe
essere
attestato il battaglione, se le cose sono andate come dovevano. Ti è
chiaro?”
“Sissignore.”
“Sarà necessario raggiungere il comando e comunicare
che la nostra sezione è bloccata qui con dei feriti gravi, naturalmente
senza
attirare l’attenzione dei russi. Pensi di potercela fare?”
Il
ragazzo guardò fuori attraverso una finestra sventrata e per un po’
rimase a
scrutare la strada con le sopracciglia aggrottate. Fece anche un passo
avanti,
e nel nuovo punto d’osservazione trascorse un paio di minuti. Infine si
voltò
di nuovo verso il capitano e rispose: “Penso di sì, signore.”
Il
capitano tirò fuori di tasca un foglietto, vi scrisse una breve nota e
glielo
consegnò. “Allora aspetta il buio e poi cerca di raggiungere il comando
di
battaglione, soldato.”
“Sissignore.”
A
quel punto, Schultz fece un giro delle postazioni difensive che erano
state
approntate. Era consapevole che alle sue spalle ci fossero i feriti
gravi, e
fra tutti Hofmann, che di certo era quello conciato peggio, ma si
costrinse a
ignorarli in favore delle priorità, ovvero la possibilità di dover
respingere
un eventuale attacco russo.
Passò
di postazione in postazione, fermandosi a scambiare due parole con
ognuna delle
sentinelle. Distribuì le sigarette che aveva, controllò il puntamento
delle
mitragliatrici e le esigue scorte di munizioni.
Solo
quando fu certo che le difese fossero per quanto possibile efficienti,
tornò
nell’androne.
Hofmann
cominciava ad avere freddo. Ormai era calata la notte e non si vedeva
quasi più
nulla. Sempre più si faceva strada in lui l’impressione di essere
completamente
solo, abbandonato a se stesso, destinato a morire. Ogni volta che quel
pensiero
si presentava, faceva intervenire la sua parte razionale e lo
scacciava, ma
mantenere la lucidità stava diventando sempre più difficile.
Una
giacca un po' tiepida gli si stese addosso. Dal buio provenne la voce
del
capitano Schultz: “Come va, ragazzo?”
Il
sergente si limitò a piegare la testa verso di lui e un attimo dopo
sentì la
sua mano ruvida posarglisi sulla fronte. “Fa male, vero?” chiese
l’ufficiale in
tono pacato.
Hofmann
aprì la bocca per rispondere, ma al solito non riuscì a emettere un
suono.
La
mano gli diede due colpetti affettuosi. “Lo so che fa male,” disse
Schultz.
Un’altra carezza. “Ma vedrà… vedrai che presto ne usciremo. Com’è che
fai di
nome, a proposito?”
“Friedrich,” esalò Hofmann a fatica.
“Ah, Friedrich.” La
mano non smetteva di passargli sul viso, lenta, ipnotica. “Fritz,
giusto?
Coraggio, Fritz, lo so che fa un male del diavolo, ma non abbiamo
nemmeno una
fiala di morfina, è andato tutto distrutto col blindato. Non posso
nemmeno
cercare di stordirti con le chiacchiere, altrimenti scommetto che
arrivano
anche i russi ad ascoltare.”
Nel
buio Hofmann stirò le labbra in un sorriso stentato e piegò ancora la
testa
verso quella mano calda e un po’ ruvida, come alla ricerca di un
contatto
maggiore. Schultz se ne accorse e gliela passò adagio fra i capelli,
poi
sistemò meglio la giacca che gli aveva steso addosso.
Egli
cercò di rannicchiarsi per sfruttare maggiormente quel po’ di calore,
ma il
movimento gli strappò un gemito. Subito la mano gli batté un paio di
pacche
affettuose sulla guancia, come per dirgli di stare fermo, di non
preoccuparsi.
Con
un movimento dettato più che altro dall’istinto, di nuovo Hofmann cercò
di
inseguirla nei suoi lenti passaggi: era tranquillo quando se la sentiva
addosso, ma appena si allontanava, ecco che un angosciante senso di
vuoto lo
pervadeva e lo spingeva a ricercare ansiosamente il suo contatto.
Un
brivido di freddo lo fece sussultare. Subito dopo ebbe l’impressione
che un
artiglio enorme gli stritolasse il torace frantumando tutto quello che
c’era
dentro: dietro le palpebre serrate vide come un lampo bianco, si
accorse di
aver stretto i denti quando le mandibole serrate gli scricchiolarono
come rami
sul punto di spezzarsi.
“No, no,” sussurrò la voce calma del capitano. “Va
tutto bene, figliolo. Non agitarti.”
Hofmann
emise un sospiro. Nei rari sprazzi di razionalità sapeva che niente
andava
bene, che erano in territorio nemico e accerchiati dai russi, ma nel
limbo di
dolore e paura nel quale era immerso, e nel quale di razionale non
c’era ormai
quasi più nulla, quelle pacate rassicurazioni erano tutto ciò che gli
impediva
di lasciarsi affogare.
“Va tutto bene,” ripeté il capitano sottovoce, come se
gli avesse letto nel pensiero. “Va tutto bene, ragazzo mio. Sta’
tranquillo.”
Hofmann
chiuse gli occhi e in un attimo sprofondò nell’incoscienza.
Quando
Schultz percepì un respiro approssimativamente regolare, anche se non
si
sarebbe certo potuto definire tranquillo, ritirò la mano e si rialzò.
Una
volta in piedi volse lo sguardo verso il basso, cercando di cogliere la
figura
del suo subalterno, ma ormai era troppo buio e non riuscì a vederlo.
Hofmann
non era per niente in buone condizioni. Soffriva molto e gli era anche
venuta
la febbre. Avrebbe avuto bisogno di cure adeguate, tanto per
cominciare, di
tranquillità e di un letto caldo. Di certo non gli faceva bene starsene
sdraiato per terra, affamato, con addosso l’uniforme indurita dal
sangue secco,
ma d’altra parte non avevano nient’altro a disposizione. Si passò le
mani sulle
braccia per scaldarsi: per quanto di giorno facesse caldo, di notte la
temperatura si faceva decisamente meno piacevole.
“Altendorf?” sussurrò.
Subito
una voce gli rispose: “Sono qui, signore.”
“Molto bene,” approvò il capitano, “direi che possiamo
fare un altro giro di ispezione alle postazioni difensive.”
“Sissignore.”
Si
incamminarono cauti.
Le
stelle emanavano un lieve lucore, che rendeva possibile distinguere
almeno i
contorni delle cose. Dappertutto c’erano palazzi distrutti, con
finestre come
orbite vuote. Tra le rovine non c’era una luce, regnava ovunque un
silenzio
spettrale, rotto solo da un lontano latrare di cani.
Era
una tranquillità sinistra, naturalmente, che comunicava un tormentoso
senso di
attesa.
Fece
cenno al caporale di seguirlo e tornò nell’androne. “Lei crede che i
russi
sappiano dove siamo?” gli chiese sottovoce.
L’altro
rispose: “La domanda è: hanno voglia di rischiare uomini in un attacco
notturno
o pensano di venirci a prendere con calma domattina?”
“Non è che ai russi importi molto di rischiare uomini,”
considerò Schultz con un’alzata di spalle.
“Già,” rispose Altendorf. A quel punto qualcuno si
avvicinò. Istintivamente Schultz si irrigidì e portò la mano alla
pistola, poi
si accorse che era il soldato Welke.
“Sono pronto, signore,” disse il giovanotto.
Il
capitano annuì, ma si rese conto che forse nel buio il suo gesto non
era stato
notato. “Va bene,” disse allora, “hai con te la mappa e il messaggio?”
Welke
tirò fuori dalla tasca il foglietto, poi disse: “La mappa l’ho imparata
a
memoria, signore. Là fuori non potrei consultarla.”
“Vero anche questo,” considerò Schultz. Gli batté una
mano sulla spalla e gli disse: “Ora va', soldato, e vedi di non farti
scoprire.”
“Sissignore.”
Welke
rimase per un po' a scrutare i dintorni, poi a un certo punto
sgattaiolò via,
con un rumore non più forte di quello che avrebbe prodotto un topo.
Un
attimo dopo sembrava essersi letteralmente volatilizzato. A Schultz
parve di
intravedere un movimento qualche metro più avanti, ma a una seconda
occhiata
tutto era di nuovo perfettamente immobile.
Emise
il fiato che aveva involontariamente trattenuto e rinculò fino a
scomparire di
nuovo nell'androne oscuro.
Per
quanto quel soldato gli desse l'idea di essere un tipo sveglio, si
impose di
non fare troppo affidamento su di lui. Le variabili del resto erano
infinite e
perlopiù a sfavore della riuscita dell'operazione: Welke poteva finire
ucciso o
cadere in mano nemica, o semplicemente perdersi, visto che si muoveva
in una
città sconosciuta, quasi completamente distrutta, al buio e con il solo
ausilio
di una mappa mandata a memoria. Oppure il battaglione poteva non essere
dove
avrebbe dovuto trovarsi, poteva aver ricevuto l'ordine di procedere,
poteva a
sua volta essere sotto attacco...
Stabilì
di non pensarci, non avrebbe risolto gran che tormentandosi con quei
ragionamenti. Si aggirò quasi tentoni per l'androne ingombro di
macerie, quindi
raggiunse di nuovo la più avanzata delle postazioni difensive.
Si
sedette in silenzio accanto al soldato di guardia e di nuovo scrutò i
dintorni.
Nella
notte senza luna la Vistola sembra un immobile nastro di ossidiana.
Solo ogni
tanto un'increspatura fa comparire sulle acque silenziose un rapido
luccichio,
come di un pesce che guizza per un attimo e poi scompare di nuovo nelle
profondità.
Hermann
Schultz, tenente delle Waffen-SS, scruta assorto le rovine di Stare
Miasto.
L'alta facciata di una chiesa gotica si staglia contro il cielo,
palazzi
distrutti ospitano qua e là tenui luci palpitanti e rendono la città
oscurata
simile alla distesa di lapidi di un cimitero. Da lontano giunge la vaga
eco di
colpi d'artiglieria.
D'un
tratto, il tenente ode un passo leggero. Si gira in quella direzione e
vede
muoversi una luce. Una sottile voce femminile dice: “Kamerad!”
L'ufficiale
aggrotta le sopracciglia e porta la mano alla pistola, ma già qualcuno
alle sue
spalle sta dicendo: “Una ragazza!”
Compare
in effetti una ragazza, o forse una bambina, a giudicare dalla
corporatura
minuta. Porta in testa un fazzoletto dal quale spuntano due trecce
bionde. In
una mano ha una lanterna e nell'altra un paniere coperto da un telo
bianco.
“Kamerad, Kamerad,” ripete, rivolgendo ai soldati un sorriso timido.
Gli
uomini si avvicinano. “Una ragazza, tenente!” dice qualcuno passando.
Un altro
suona con l'armonica a bocca 'In einem Polenstädtchen'[1]. Tutti sono
di colpo
molto allegri.
Schultz
stringe gli occhi, fissa il panierino, che gli pare un po' troppo
pesante per
contenere solo cibarie. Il manico di vimini scricchiola a ogni
movimento, il
cesto ha troppa inerzia nei movimenti.
D'un
tratto capisce. “Tutti indietro!” urla estraendo la pistola. “Indietro!”
Concentrati
sulla bella ragazza, i soldati non scattano come dovrebbero.
“Indietro!” urla
di nuovo Schultz, ma nello stesso momento la nuova arrivata tira fuori
dal
contenitore una bomba a mano senza sicura e la lascia cadere al centro
del
gruppo di militari, poi si gira e comincia a correre, cercando di
scomparire
tra le rovine.
Il
tenente si butta a terra, l'ordigno esplode. Nel lampo arancione
l'ufficiale
vede le pareti schizzarsi di sangue. Si guarda intorno: la ragazza si
sta
dileguando a tutta velocità lungo un vicolo oscuro, la sua gonna chiara
nel
buio sembra una medusa abissale.
Si
rialza, comincia a inseguirla, ma si rende conto che non riuscirà a
raggiungerla. Si ferma ansante, punta la pistola e preme il grilletto.
La
detonazione secca della P38 squarcia il silenzio, la medusa abissale
smette di
ondeggiare e si affloscia al suolo.
Gelido,
Schultz abbassa l'arma, la rinfodera e torna sui suoi passi.
✠
Strisciando
su gomiti e ginocchia, il soldato Welke procedeva tra le macerie.
Sembravano
disabitate, ma non lo erano affatto: c’erano delle pattuglie russe che
giravano
e gli pareva di avere visto anche dei civili rannicchiati in una casa
sventrata. Ringraziò che non ci fossero cani, perché in quel caso
sarebbe stato
molto più difficile passare inosservato.
Udì
il passo cadenzato di diverse paia di stivali militari e subito si
immobilizzò
a ridosso di un muro, avendo cura di occultarsi nell’ombra.
Una
pattuglia russa si avvicinò. Gli uomini parlavano fra loro a bassa
voce, sentì
nell’aria l’odore del grasso degli stivali e del tabacco Machorka.
Scrutando
nel buio riusciva anche a intravedere la forma rotondeggiante degli
elmetti.
Un
mozzicone di sigaretta cadde, qualcuno disse qualcosa a cui un altro
rispose
con una lieve risata, poi gli uomini si allontanarono camminando con
circospezione nella strada ingombra di detriti.
Welke
aspettò qualche minuto, poi uscì cauto dal nascondiglio, solo per
accorgersi
che gli acquartieramenti dei russi erano a meno di dieci metri di
distanza.
[1]
“In una cittadina polacca”, è l’inizio di una canzone dell’epoca che
parla di
una ragazza che viveva in una cittadina della Polonia.
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