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Autore: Old Fashioned    27/01/2023    9 recensioni
Una breve storia di guerra ambientata sul fronte orientale. I protagonisti sono alcuni personaggi secondari di "Perdizione" (https://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3766794&i=1).
Un piccolo reparto tedesco rimane isolato in territorio nemico: gli uomini dovranno trovare il modo di assistere i feriti, passare la notte approssimativamente incolumi e fronteggiare all'alba l'attacco del nemico.
Questa storia è stata scritta per Spoocky, che mi ha graziosamente concesso il permesso di pubblicarla sulla mia pagina.
Genere: Angst, Guerra, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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Incliti lettori,
ecco un altro capitolo del mappazzone, sempre con la speranza che vi sia gradito. Ringrazio moltissimo tutti coloro che sono passato di qui e hanno dato un’occhiata. Ringrazio con particolare commozione chi mi ha anche lasciato un commento.
 




Capitolo 3
 
Schultz si alzò in piedi e inforcò il binocolo. Osservò a lungo i dintorni, cercando di compensare coi movimenti del corpo gli scossoni che la strada dissestata trasmetteva al semicingolato, quindi riabbassò lo strumento. Le colonne di fumo che salivano dall’orizzonte dovevano essere sopra a Minsk. Cercò di decifrare qualcuno dei cartelli che ogni tanto si incontravano lungo la strada, ma non aveva familiarità col cirillico e le indicazioni scorrevano via prima che fosse riuscito a dar loro un significato. “Weber, cosa dicono?” chiese senza girare lo sguardo.
“Quindici chilometri a Minsk, signor capitano.”
Schultz annuì. “Lo immaginavo. Stanno combattendo parecchio laggiù.”
“La terza armata sovietica è stata accerchiata,” dichiarò il tenente Weber, al solito ben informato.
Il capitano si limitò a battergli una mano sulla spalla. “Bravo ragazzo. Cosa farei se non avessi lei...”
“Grazie, signore.”
Al solito, il più vecchio rinunciò a capire se quella sobria risposta fosse seria, sottilmente ironica o solo infastidita. Il tenente Weber continuava a rappresentare per lui un mistero insondabile: perfetto in ogni situazione, ma non ricordava di averlo mai visto ridere.
Una moto si affiancò al veicolo distogliendolo da ulteriori elucubrazioni: un portaordini gli consegnò un foglietto ripiegato, poi diede gas e scomparve lungo la colonna di veicoli.
Schultz lesse la breve nota, poi se la infilò in tasca. Si voltò verso il tenente e disse: “Weber, avrò di nuovo bisogno della sua conoscenza del cirillico: la compagnia deve portarsi verso una località detta Shcho...” Imprecò fra i denti, tirò fuori di nuovo il biglietto, lo lesse aggrottando le sopracciglia e lentamente scandì: “Shchomys’litsa.”
“Sissignore,” si limitò a rispondere il giovane ufficiale, come se gli avesse chiesto di avvisarlo quando passavano il cartello per Berlino.
“Ci attesteremo là e ci uniremo al contingente che raggiungerà il centro di Minsk da sud. Ci sarà da combattere parecchio, i russi non ne vogliono sapere di mollare.”
Il tenente si limitò ad annuire.
Ancora una volta il capitano si guardò intorno. Il caldo di fine giugno arroventava le lamiere dei blindati, la polvere sollevata da cingoli e ruote rendeva l’atmosfera caliginosa. Stipati sui mezzi, gli uomini parlavano tra loro o semplicemente guardavano sfilare il monotono paesaggio russo. I più esperti erano impegnati in veementi partite di Skat, dalle quali provenivano esclamazioni che alle volte coprivano anche il rombo continuo dei motori.
Portaordini a bordo di motociclette facevano la spola su e giù lungo le colonne. Ogni tanto a lato della strada si trovava qualche mezzo che aveva avuto un’avaria, regolarmente con il cofano alzato e un paio di gambe che uscivano dal vano motore.
A un certo punto si imbatterono anche in un Panzer. In uniforme nera, allineati lungo la fiancata del veicolo alla vana ricerca di un lembo d’ombra, i membri dell’equipaggio sembravano merli su un filo della luce.
Assieme a una buona parte della colonna, svoltarono per quella che sulle prime parve poco più che una strada di campagna appena un po’ più larga del normale. Sul terreno battuto si vedevano sulle prime solo due solchi paralleli come per il passaggio dei carri e solo dopo, a ben guardare, si intravedeva sotto lo strato di terra un lastricato grigiastro e fessurato, che sembrava composto da lastre di cemento messe una accanto all’altra.
Da una parte e dall’altra della strada, le campagne si estendevano appena ondulate, perdendosi all’orizzonte tutte uguali. Solo qua e là qualche albero da frutto rompeva la monotonia del paesaggio.
Schultz alzò gli occhi sul cielo immobile, pensando che tutta quella calma non era normale.
 
Seduto al fianco del conduttore, il sergente Hofmann allungò le gambe davanti a sé cercando di stirarle. Era tutto il giorno che avanzavano e ormai gli pareva di avere al posto della schiena un blocco di cemento.
Si sporse in avanti: dopo ore di campagne tutte uguali, stavano raggiungendo le propaggini di un centro abitato. Erano comparse case ai lati della strada e più avanti si vedevano anche edifici a più piani.
I mezzi si inoltrarono in quello che probabilmente era stato fino a poco prima un grazioso sobborgo di Minsk: edifici di fine ottocento, lampioni di ghisa, un marciapiede alberato che correva lungo il fiume. Civili non ce n’erano, ovviamente, ma poteva immaginare la gente che nelle giornate di primavera passeggiava all’ombra.
Emise un sospiro pensando a prima della guerra, anche lui andava a passeggio nello stesso modo, magari sottobraccio con qualche ragazza. Notò distrattamente che proprio in mezzo alla strada c’era un tombino un po’ sollevato.
Poi il mondo esplose.
Ci furono un boato assordante, un lampo di luce gialla e poi lingue di fuoco dappertutto. La sua prospettiva si capovolse, vide buio, poi luce, poi buio di nuovo. Un dolore acutissimo lo trafisse al fianco, tanto che spalancò la bocca per urlare, ma non riuscì a emettere alcun suono. O forse semplicemente aveva urlato ma non riusciva a sentire nulla.
L’ultima sua percezione chiara fu quella di trovarsi con la faccia sul selciato e la bocca piena di sangue, poi tutto si confuse in una nebbia oscura che aveva il tanfo del gasolio bruciato.
 
“Copertura!” ordinò il capitano Schultz nell’udire l’esplosione. “Copertura, via dalla strada!”
Si girò e vide un autoblindo rovesciato, con lingue di fuoco che uscivano dal motore. Tutt’intorno c’erano soldati esanimi, mentre i feriti lievi, pur intontiti dallo scoppio, si stavano già trascinando lontano. Si accorse che tra i corpi immobili c’era anche quello del sergente Hofmann, intrappolato per metà nelle lamiere accartocciate.
In quel momento, dalle finestre raffiche di mitragliatrice cominciarono a spazzare la strada.
“Copertura!” ripeté il capitano, “Via di qui immediatamente, è un’imboscata!”
Saltò giù dal veicolo ancora in movimento, poi si girò e disse: “Tenente Weber, prenda il comando della compagnia fino al mio ritorno. Comunichi al comando che siamo stati attaccati!” Senza attendere risposta si lanciò di corsa attraverso la strada, evitò di stretta misura una sventagliata di proiettili e si appiattì contro un muro a poca distanza dal blindato in fiamme. “Hofmann!” urlò.
Gli rispose un gemito.
Si sporse a guardare: il sergente giaceva faccia in giù in una pozza di sangue, le fiamme gli si stavano pericolosamente avvicinando.
Tossì investito dal fumo dell’incendio, poi scattò in avanti approfittando di quella momentanea copertura, raggiunse il blindato e senza perdere tempo afferrò il sottufficiale per le braccia. Lo tirò a sé, ma non ottenne altro che di strappargli un gemito di dolore. Non riuscì a spostarlo da sotto il blindato.
Nonostante si trovasse a poca distanza dalle fiamme, Schultz sentì un brivido di freddo percorrerlo. Se non fosse riuscito a liberarlo, il sergente sarebbe bruciato vivo. Tirò di nuovo, con più forza, ma non successe nulla.
Le fiamme si stavano rinvigorendo di attimo in attimo, il capitano quasi non riusciva più ad avvicinarsi al veicolo. Cercò di ragionare più in fretta che poteva: cosa fare?
Il peso della pistola contro la coscia gli parve un sinistro monito: meglio una morte rapida e pietosa che...
Diede un ultimo strattone con tutte le sue forze: si udì il rumore di stoffa che si lacerava e finalmente Hofmann fu libero. Senza nemmeno accertarsi delle sue condizioni, augurandosi che il fumo fosse sufficiente a nascondere entrambi, Schultz lo trascinò via dalla strada, verso un palazzo semidiroccato, il cui androne offriva comunque copertura rispetto alle mitragliatrici che spazzavano l’esterno.
Quando fu dentro, si accorse che già altri superstiti vi avevano trovato rifugio. Li passò in rassegna con lo sguardo: alcuni erano leggermente feriti, tra o quattro apparivano illesi. Uno era sdraiato da una parte con una medicazione gli copriva metà testa, già macchiata di sangue in più punti.
“Vediamo di organizzarci,” disse asciutto. “Chi è il più alto in grado, qui?”
Si fece avanti un giovanotto che non poteva avere più di vent’anni, con la giacca sulle spalle e un braccio al collo. Aveva il nastrino della croce di ferro di seconda classe, la croce di ferro di prima classe e il distintivo di combattimento corpo a corpo in argento. “Caporale Altendorf, signore,” si presentò con voce ferma.
Schultz annuì, poi rapido ordinò: “Due uomini a recuperare le munizioni, la cassetta di medicazione e l’acqua potabile finché il fumo riesce a nasconderci. Altri due a ispezionare questo posto, voglio che sia organizzata il prima possibile la difesa.”
“Sissignore.”
L’ufficiale si chinò a quel punto sul sergente, che giaceva ancora immobile dove l’aveva trascinato.
“Hofmann,” lo chiamò a bassa voce. Il più giovane riuscì solo a sollevare lo sguardo annebbiato su di lui.
“Hofmann,” insisté Schultz, sbottonandogli rapidamente la giubba fradicia di sangue, “dove le fa male?”
 
Il sergente schiuse le labbra per rispondere. Avrebbe voluto dire “ovunque,” ma non riusciva a emettere un suono. Il volto del capitano chino su di lui era poco più di una macchia bianca, i rumori della battaglia arrivavano come attraverso l’acqua.
Percepì mani abili e rapide che gli applicavano addosso compresse di garza, gemette quando il tocco si fece più deciso. Sussultò ma non fu in grado di sottrarsi.
Sbatté un paio di volte le palpebre. La consapevolezza andava e veniva a ondate, insieme a fitte di dolore che gli mozzavano il respiro.
Percepì che Schultz gli stava dicendo qualcosa, ma la sua voce gli giungeva come un mormorio confuso, del quale coglieva solo il tono di premura.
A fatica articolò: “Sto...” Avrebbe voluto dire “bene,” invece balbettò: “Sto morendo…?”
Il capitano gli prese il viso fra le mani, si piegò su di lui. “Coraggio, ragazzo mio,” scandì adagio, “si riprenderà presto.”
Hofmann schiuse le labbra per rispondere, ma all’ultimo gliene mancarono le forze. Chiuse gli occhi e sprofondò nel buio.
 
Schultz lasciò delicatamente ricadere la testa del subalterno, quindi si raddrizzò e si voltò verso Altendorf, che stava entrando in quel momento con una cassetta di nastri da mitragliatrice nella mano sana. “Abbiamo recuperato il possibile, signore,” disse in tono neutro.
“Il resto della colonna?” chiese il capitano.
“Non è più in vista, signore.” Il caporale tacque per qualche secondo, quindi soggiunse: “La strada è sotto il tiro delle mitragliatrici pesanti, non potevano rimanere.”
A Schultz diede l’idea che stesse cercando di convincere se stesso prima di lui, comunque assentì e rispose: “Vedremo di arrangiarci per conto nostro. Che cosa è stato recuperato dall’autoblindo?”
L’elenco di Altendorf fu desolatamente breve.
Il capitano alzò lo sguardo verso una delle finestre: ormai stava calando la sera, fuori regnava un silenzio sinistro, interrotto qua e là da qualche scoppio lontano. Gli parve di veder balenare un fuoco da qualche parte, fra le rovine, e si chiese se fosse un gruppetto di civili che cercava di tenere lontana l’angoscia della notte.
Nella luce che andava scemando fece scorrere lo sguardo su quelle che per il momento erano diventate le sue truppe. Vide volti stanchi, alcuni rigati di sangue, ma nessuna espressione rassegnata.
“Per chi ancora non lo sapesse, io sono il vostro comandante di compagnia, capitano Hermann Schultz,” disse loro, approfittando di quel breve momento di calma, “in questo momento assumo il comando della squadra.” Strinse le labbra. Avrebbe voluto poter raccontare loro che qualcuno sarebbe andato a riprenderli, che tutto si sarebbe presto risolto, ma non era sua abitudine mentire. Meglio dire le cose come stavano senza mezzi termini.
“Non credo che entro stasera verranno a prenderci,” disse quindi. “Non so nemmeno se sanno che siamo ancora vivi, quindi sarà necessario che qualcuno trovi il comando di battaglione e lo riferisca a chi di dovere.” Fece una pausa, di nuovo squadrò uno per uno i volti che lo circondavano. “E anche in quel caso, non illudetevi che far sapere che qui c’è un contingente di superstiti sia sufficiente ad attivare un’operazione di salvataggio. Sapete bene anche voi che verrà ordinata unicamente se la situazione tattica lo consentirà, diversamente dovremo arrangiarci.”
Nessuno replicò e un silenzio consapevole calò sullo sparuto gruppo. Uno dei soldati, con una medicazione sommaria che gli circondava una coscia, volse lo sguardo verso i feriti gravi e poi lo sollevò con fare significativo verso di lui.
Schultz strinse le labbra. Come ufficiale comandante, in caso di necessità gli sarebbe toccato il compito ingrato di ordinare che fossero lasciati indietro. “Faremo quel che c’è da fare,” disse semplicemente. Poi, a voce più alta: “Altendorf!”
Il caporale si avvicinò. “Signore?”
“Altendorf, organizzi turni di guardia. Non è escluso che questa notte i russi vengano a farci visita.”
“Sissignore.”
Di nuovo, il capitano si girò verso i soldati. “Mi serve un volontario,” disse. “Qualcuno che sappia destreggiarsi al buio e in silenzio.”
Un ragazzetto magro alzò la mano. “Io, signore.”
Schultz lo squadrò attento: occhi vispi, movimenti sicuri. “Come ti chiami, soldato?” gli chiese.
“Hans Welke, signore.”
“Sai leggere le mappe, soldato?”
“Sissignore.”
Il capitano aprì una carta spiegazzata e strappata della città, indicò un punto col dito e disse: “Noi siamo qui.” Spostò l’indice fino a raggiungere una croce tracciata con la matita rossa. “E qui è dove teoricamente dovrebbe essere attestato il battaglione, se le cose sono andate come dovevano. Ti è chiaro?”
“Sissignore.”
“Sarà necessario raggiungere il comando e comunicare che la nostra sezione è bloccata qui con dei feriti gravi, naturalmente senza attirare l’attenzione dei russi. Pensi di potercela fare?”
Il ragazzo guardò fuori attraverso una finestra sventrata e per un po’ rimase a scrutare la strada con le sopracciglia aggrottate. Fece anche un passo avanti, e nel nuovo punto d’osservazione trascorse un paio di minuti. Infine si voltò di nuovo verso il capitano e rispose: “Penso di sì, signore.”
Il capitano tirò fuori di tasca un foglietto, vi scrisse una breve nota e glielo consegnò. “Allora aspetta il buio e poi cerca di raggiungere il comando di battaglione, soldato.”
“Sissignore.”
A quel punto, Schultz fece un giro delle postazioni difensive che erano state approntate. Era consapevole che alle sue spalle ci fossero i feriti gravi, e fra tutti Hofmann, che di certo era quello conciato peggio, ma si costrinse a ignorarli in favore delle priorità, ovvero la possibilità di dover respingere un eventuale attacco russo.
Passò di postazione in postazione, fermandosi a scambiare due parole con ognuna delle sentinelle. Distribuì le sigarette che aveva, controllò il puntamento delle mitragliatrici e le esigue scorte di munizioni.
Solo quando fu certo che le difese fossero per quanto possibile efficienti, tornò nell’androne.
 
Hofmann cominciava ad avere freddo. Ormai era calata la notte e non si vedeva quasi più nulla. Sempre più si faceva strada in lui l’impressione di essere completamente solo, abbandonato a se stesso, destinato a morire. Ogni volta che quel pensiero si presentava, faceva intervenire la sua parte razionale e lo scacciava, ma mantenere la lucidità stava diventando sempre più difficile.
Una giacca un po' tiepida gli si stese addosso. Dal buio provenne la voce del capitano Schultz: “Come va, ragazzo?”
Il sergente si limitò a piegare la testa verso di lui e un attimo dopo sentì la sua mano ruvida posarglisi sulla fronte. “Fa male, vero?” chiese l’ufficiale in tono pacato.
Hofmann aprì la bocca per rispondere, ma al solito non riuscì a emettere un suono.
La mano gli diede due colpetti affettuosi. “Lo so che fa male,” disse Schultz. Un’altra carezza. “Ma vedrà… vedrai che presto ne usciremo. Com’è che fai di nome, a proposito?”
“Friedrich,” esalò Hofmann a fatica.
“Ah, Friedrich.” La mano non smetteva di passargli sul viso, lenta, ipnotica. “Fritz, giusto? Coraggio, Fritz, lo so che fa un male del diavolo, ma non abbiamo nemmeno una fiala di morfina, è andato tutto distrutto col blindato. Non posso nemmeno cercare di stordirti con le chiacchiere, altrimenti scommetto che arrivano anche i russi ad ascoltare.”
Nel buio Hofmann stirò le labbra in un sorriso stentato e piegò ancora la testa verso quella mano calda e un po’ ruvida, come alla ricerca di un contatto maggiore. Schultz se ne accorse e gliela passò adagio fra i capelli, poi sistemò meglio la giacca che gli aveva steso addosso.
Egli cercò di rannicchiarsi per sfruttare maggiormente quel po’ di calore, ma il movimento gli strappò un gemito. Subito la mano gli batté un paio di pacche affettuose sulla guancia, come per dirgli di stare fermo, di non preoccuparsi.
Con un movimento dettato più che altro dall’istinto, di nuovo Hofmann cercò di inseguirla nei suoi lenti passaggi: era tranquillo quando se la sentiva addosso, ma appena si allontanava, ecco che un angosciante senso di vuoto lo pervadeva e lo spingeva a ricercare ansiosamente il suo contatto.
Un brivido di freddo lo fece sussultare. Subito dopo ebbe l’impressione che un artiglio enorme gli stritolasse il torace frantumando tutto quello che c’era dentro: dietro le palpebre serrate vide come un lampo bianco, si accorse di aver stretto i denti quando le mandibole serrate gli scricchiolarono come rami sul punto di spezzarsi.
“No, no,” sussurrò la voce calma del capitano. “Va tutto bene, figliolo. Non agitarti.”
Hofmann emise un sospiro. Nei rari sprazzi di razionalità sapeva che niente andava bene, che erano in territorio nemico e accerchiati dai russi, ma nel limbo di dolore e paura nel quale era immerso, e nel quale di razionale non c’era ormai quasi più nulla, quelle pacate rassicurazioni erano tutto ciò che gli impediva di lasciarsi affogare.
“Va tutto bene,” ripeté il capitano sottovoce, come se gli avesse letto nel pensiero. “Va tutto bene, ragazzo mio. Sta’ tranquillo.”
Hofmann chiuse gli occhi e in un attimo sprofondò nell’incoscienza.
 
Quando Schultz percepì un respiro approssimativamente regolare, anche se non si sarebbe certo potuto definire tranquillo, ritirò la mano e si rialzò.
Una volta in piedi volse lo sguardo verso il basso, cercando di cogliere la figura del suo subalterno, ma ormai era troppo buio e non riuscì a vederlo.
Hofmann non era per niente in buone condizioni. Soffriva molto e gli era anche venuta la febbre. Avrebbe avuto bisogno di cure adeguate, tanto per cominciare, di tranquillità e di un letto caldo. Di certo non gli faceva bene starsene sdraiato per terra, affamato, con addosso l’uniforme indurita dal sangue secco, ma d’altra parte non avevano nient’altro a disposizione. Si passò le mani sulle braccia per scaldarsi: per quanto di giorno facesse caldo, di notte la temperatura si faceva decisamente meno piacevole.
“Altendorf?” sussurrò.
Subito una voce gli rispose: “Sono qui, signore.”
“Molto bene,” approvò il capitano, “direi che possiamo fare un altro giro di ispezione alle postazioni difensive.”
“Sissignore.”
Si incamminarono cauti.
Le stelle emanavano un lieve lucore, che rendeva possibile distinguere almeno i contorni delle cose. Dappertutto c’erano palazzi distrutti, con finestre come orbite vuote. Tra le rovine non c’era una luce, regnava ovunque un silenzio spettrale, rotto solo da un lontano latrare di cani.
Era una tranquillità sinistra, naturalmente, che comunicava un tormentoso senso di attesa.
Fece cenno al caporale di seguirlo e tornò nell’androne. “Lei crede che i russi sappiano dove siamo?” gli chiese sottovoce.
L’altro rispose: “La domanda è: hanno voglia di rischiare uomini in un attacco notturno o pensano di venirci a prendere con calma domattina?”
“Non è che ai russi importi molto di rischiare uomini,” considerò Schultz con un’alzata di spalle.
“Già,” rispose Altendorf. A quel punto qualcuno si avvicinò. Istintivamente Schultz si irrigidì e portò la mano alla pistola, poi si accorse che era il soldato Welke.
“Sono pronto, signore,” disse il giovanotto.
Il capitano annuì, ma si rese conto che forse nel buio il suo gesto non era stato notato. “Va bene,” disse allora, “hai con te la mappa e il messaggio?”
Welke tirò fuori dalla tasca il foglietto, poi disse: “La mappa l’ho imparata a memoria, signore. Là fuori non potrei consultarla.”
“Vero anche questo,” considerò Schultz. Gli batté una mano sulla spalla e gli disse: “Ora va', soldato, e vedi di non farti scoprire.”
“Sissignore.”
Welke rimase per un po' a scrutare i dintorni, poi a un certo punto sgattaiolò via, con un rumore non più forte di quello che avrebbe prodotto un topo.
Un attimo dopo sembrava essersi letteralmente volatilizzato. A Schultz parve di intravedere un movimento qualche metro più avanti, ma a una seconda occhiata tutto era di nuovo perfettamente immobile.
Emise il fiato che aveva involontariamente trattenuto e rinculò fino a scomparire di nuovo nell'androne oscuro.
Per quanto quel soldato gli desse l'idea di essere un tipo sveglio, si impose di non fare troppo affidamento su di lui. Le variabili del resto erano infinite e perlopiù a sfavore della riuscita dell'operazione: Welke poteva finire ucciso o cadere in mano nemica, o semplicemente perdersi, visto che si muoveva in una città sconosciuta, quasi completamente distrutta, al buio e con il solo ausilio di una mappa mandata a memoria. Oppure il battaglione poteva non essere dove avrebbe dovuto trovarsi, poteva aver ricevuto l'ordine di procedere, poteva a sua volta essere sotto attacco...
Stabilì di non pensarci, non avrebbe risolto gran che tormentandosi con quei ragionamenti. Si aggirò quasi tentoni per l'androne ingombro di macerie, quindi raggiunse di nuovo la più avanzata delle postazioni difensive.
Si sedette in silenzio accanto al soldato di guardia e di nuovo scrutò i dintorni.
 
Nella notte senza luna la Vistola sembra un immobile nastro di ossidiana. Solo ogni tanto un'increspatura fa comparire sulle acque silenziose un rapido luccichio, come di un pesce che guizza per un attimo e poi scompare di nuovo nelle profondità.
Hermann Schultz, tenente delle Waffen-SS, scruta assorto le rovine di Stare Miasto. L'alta facciata di una chiesa gotica si staglia contro il cielo, palazzi distrutti ospitano qua e là tenui luci palpitanti e rendono la città oscurata simile alla distesa di lapidi di un cimitero. Da lontano giunge la vaga eco di colpi d'artiglieria.
D'un tratto, il tenente ode un passo leggero. Si gira in quella direzione e vede muoversi una luce. Una sottile voce femminile dice: “Kamerad!”
L'ufficiale aggrotta le sopracciglia e porta la mano alla pistola, ma già qualcuno alle sue spalle sta dicendo: “Una ragazza!”
Compare in effetti una ragazza, o forse una bambina, a giudicare dalla corporatura minuta. Porta in testa un fazzoletto dal quale spuntano due trecce bionde. In una mano ha una lanterna e nell'altra un paniere coperto da un telo bianco. “Kamerad, Kamerad,” ripete, rivolgendo ai soldati un sorriso timido.
Gli uomini si avvicinano. “Una ragazza, tenente!” dice qualcuno passando. Un altro suona con l'armonica a bocca 'In einem Polenstädtchen'[1]. Tutti sono di colpo molto allegri.
Schultz stringe gli occhi, fissa il panierino, che gli pare un po' troppo pesante per contenere solo cibarie. Il manico di vimini scricchiola a ogni movimento, il cesto ha troppa inerzia nei movimenti.
D'un tratto capisce. “Tutti indietro!” urla estraendo la pistola. “Indietro!”
Concentrati sulla bella ragazza, i soldati non scattano come dovrebbero. “Indietro!” urla di nuovo Schultz, ma nello stesso momento la nuova arrivata tira fuori dal contenitore una bomba a mano senza sicura e la lascia cadere al centro del gruppo di militari, poi si gira e comincia a correre, cercando di scomparire tra le rovine.
Il tenente si butta a terra, l'ordigno esplode. Nel lampo arancione l'ufficiale vede le pareti schizzarsi di sangue. Si guarda intorno: la ragazza si sta dileguando a tutta velocità lungo un vicolo oscuro, la sua gonna chiara nel buio sembra una medusa abissale.
Si rialza, comincia a inseguirla, ma si rende conto che non riuscirà a raggiungerla. Si ferma ansante, punta la pistola e preme il grilletto.
La detonazione secca della P38 squarcia il silenzio, la medusa abissale smette di ondeggiare e si affloscia al suolo.
Gelido, Schultz abbassa l'arma, la rinfodera e torna sui suoi passi.
 

 
Strisciando su gomiti e ginocchia, il soldato Welke procedeva tra le macerie. Sembravano disabitate, ma non lo erano affatto: c’erano delle pattuglie russe che giravano e gli pareva di avere visto anche dei civili rannicchiati in una casa sventrata. Ringraziò che non ci fossero cani, perché in quel caso sarebbe stato molto più difficile passare inosservato.
Udì il passo cadenzato di diverse paia di stivali militari e subito si immobilizzò a ridosso di un muro, avendo cura di occultarsi nell’ombra.
Una pattuglia russa si avvicinò. Gli uomini parlavano fra loro a bassa voce, sentì nell’aria l’odore del grasso degli stivali e del tabacco Machorka. Scrutando nel buio riusciva anche a intravedere la forma rotondeggiante degli elmetti.
Un mozzicone di sigaretta cadde, qualcuno disse qualcosa a cui un altro rispose con una lieve risata, poi gli uomini si allontanarono camminando con circospezione nella strada ingombra di detriti.
Welke aspettò qualche minuto, poi uscì cauto dal nascondiglio, solo per accorgersi che gli acquartieramenti dei russi erano a meno di dieci metri di distanza.
 
 
 
 
 
 
[1] “In una cittadina polacca”, è l’inizio di una canzone dell’epoca che parla di una ragazza che viveva in una cittadina della Polonia.
 
   
 
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