Ero
giovane. Non ero un Dio nello sport. Non ero il primo della classe. I risutati li ottenevo con fatica. La mia mente si
stiracchiava assonnata tra le nubi della mia esistenza inconsistenze e di
repentino cambiamento. Vivevo sfrecciando annoiato tra il vivere altrui. Mai un
gruppo fisso. Ero appestato dal tragico afflato virulento dell’incostanza e del
non voler essere. Non volevo essere limitato. Non volevo sentirmi obbligato.
Non volevo annoiarmi. Non volevo annoiare. Paranoie e paradossi di apparente oscurità saettavano nel mio ego. Così mi
sentivo un spirito libero. Oltre umana l’ambizione di indipendenza. Infine ricadevo sempre nella stessa
contraddizione. Abbiamo bisogno degli altri per vivere. Le mie manie di
solitudine erano vere. Dei miei spazi non potevo fare
a meno ma fino a che punto? A che prezzo? Rendendomi conto che la dolorosa
solitudine non faceva parte di me dovevo ammettere che
gli altri hanno un senso e hanno un ruolo nella nostra vita. Cosa
porta allora noi a pensare che il giudizio degli altri non abbia valore? Non è
forse la pietra del confronto? Del giudizio non dobbiamo vivere
però dal giudizio dobbiamo apprendere di noi e degli altri. Innanzi tutto la sincerità con se stessi è fallace. Non siamo mai
realmente sinceri fino a che non esteriorizziamo il nostro pensiero. Quando una fantasia, un ragionamento entra allo stridente
impatto e attrito con il reale fuori che ci circonda allora inizia ad assumere
una forma, una concretezza. Come un preparato sospeso che si
deposita. Solo con molta più violenza e dolore. In questo contatto
quello che fatto pensato e immaginato acquista un peso, quello del confronto
con gli altri. Ho sempre detto di non avere problemi a dire
le cose in faccia. Calato nel ruolo del giusto smisi di accorgermi la selezione
che inconsciamente facevo tra cosa doveva appartenere alla mia sincerità e cosa
cadere nel dimenticatoio tra scuse, attenuanti, rancori. Nuovi
volti per voi spettatori, nuovi volti per me attore. Di rappresentazione
in rappresentazione decadevo nello squallore. Ha
veramente senso pensare di essere liberi? Quando riconosciamo che dagli altri non possiamo prescindere
cosa ci può ancora dare l’illusione di poter sopravvivere nella nostra essenza?
Quale forza è richiesta? Se ti rendi conto di non
possederla o di non averla mai posseduta? Uno smacco netto. Un’epifania
schizofrenica di una nottata di primavera. L’accavallarsi di immagine cangianti e oniriche. Alcol,
sonno, droga, troppi ricordi, troppi dolori, troppi pensieri e persone che
giocano a nascondino dentro di te tra i tuoi sentimenti. Socchiudi gli
occhi e prende il trip. Tenti di artigliarti alla
terra con le unghie, ai flebili fili d’erba con i polpastrelli
ma troppo stanco e troppo forte è il delirio che ti aspetta. Persa ogni
presa del fenomeno slanciato dal mio masochismo naufrago
nel deliquio lancinante dei miei sogni. Un incubo lungo una notte. Privo di
senso. Colmo di significati. Paura, rabbia, frustrazione, amore. Ma non è questo il momento. Sono stanco.