Nota:
eccolo, finalmente! Chiedo scusa per il ritardo... ma ho cambiato
talmente tante cose di questo capitolo, come di quello precedente, da
non ricordare neanche più come fosse all'inizio ^^;
Spero che vi
piaccia e, se avete tempo, lasciatemi un commentino!
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vergognosa: date un'occhiata a Kyoto 1865 ;-)
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Epilogo
I figli della pace (e
i loro genitori)
“Isogaba
maware.”
Chi va
piano va sano e lontano
Proverbio
giapponese (e non solo)
Due mesi dopo, levati i punti e guarita
la ferita sul fianco, Kenji era impegnato ad analizzarsi nella luce
fredda dell’inverno di Tokyo, seduto contro il muro della
palestra.
«Piantala
di sfogliarti quella crosta
e renditi utile» esclamò Kaoru, in assetto da
insegnamento. «In
casa mancano miso e salsa di soia.»
«Non
è già uscito papà?»
«Per
la legna.»
«E
io che posso farci?»
«Puoi
farci che, se non vai, stasera
non c’è niente per cena.»
«Cucinavi
tu?»
Sua madre
strinse gli occhi. Con la
scusa che poteva di nuovo sfuggirle, se ne stava approfittando un
po’.
«Kenji…»
S'alzò,
chiudendo il gi verde e
spolverandosi gli hakama. «E va bene,
d’accordo» mugugnò.
«Cos’è
quel muso lungo? Avanti,
marsch. Muovi gli
stecchini!» e gli picchettò i polpacci col
piatto della shinai.
«Il
miso pesa» protestò lui,
allontanandosi. «E poi sono troppo occupato per queste
cose.»
Kaoru
sentì un guizzo al nervo
sopraciliare e non ebbe bisogno di toccarsi per sapere che aveva
un’espressione asimmetrica (assassina) sul viso.
«Ma
davvero?»
Lo stava
scimmiottando. Certo era ritta
sull’ingresso della palestra, le braccia incrociate.
Si permise un
sogghigno e vide Shinta
arrivare a razzo dalla casa, con Inoi e alcune sue amichette che
osservavano dalla cucina.
«Kenji-chan!»
«Ciao
tappo.» Lasciò che gli si
attaccasse alle gambe. «Inoi e le altre Oniwawwa non ti fanno
giocare? Spero non stiano provando una nuova ricetta.
L’ultima era
veleno di Okina.»
E
indirizzò un sorrisetto con tanto di
saluto alla sorella, scura in volto. Da quand’era stata a
Kyoto
s’era infatuata della disciplina degli Oniwabanshu, come lui
aveva
notato a cuor (ingenuamente) leggero; poi aveva coinvolto tutte
quelle sceme delle sue amiche. Inutile dire che si divertiva un mondo
a prenderle in giro.
Non guardatelo
male: aveva cominciato
solo dopo aver rischiato la buccia a causa dei loro biscotti.
«Voglio
venire con te» dichiarò
Shinta, tirandogli una manica.
«Con
me?» Poté scorgere un gesto
preoccupato di sua madre. «Io vado al mercato. Roba
noiosa.»
«Non
è noiosa.»
Un’occhiata
e seppe che avevano il
permesso. Davanti a quella dimostrazione di fiducia salì la
voglia
di far compere.
«Allora
dammi la mano, fratellino.»
Se lo
tirò dietro, marciando con
baldanza fuori di casa.
Il carrellino
a ruote incappò
nell’ennesimo buco e Kenshin dovette balzar fuori della sua
portata
per non rimetterci la caviglia.
La legna
legata sul piccolo, umile
mezzo di trasporto (una “creazione moderna”, a
detta del
farabu―del venditore che gliel’aveva rifila―venduto)
protestò,
scivolando leggermente a lato.
Sospirò
e liberò tutto dalla buca.
Poi, controllati i cordami, proseguì. Aveva ancora una casa
da
visitare, quella mattina.
«Buongiorno,
signor Himura.»
«Oro?
Buongiorno.»
Era un tizio
del vicinato, padre di
un'amichetta di Inoi. Vestito da contadino, una matita dietro
l’orecchio, trasportava fascine di paglia.
«La
vedo in forma.»
«Non
c’è male, proprio no, grazie»
rispose.
«Ah,
vedo, vedo. Riconosco ancora la
falcata di un giovanotto ― se non l’avessi vista in faccia,
l’avrei scambiata per quel bellimbusto di suo
figlio!»
Oro.
«Signor
Togu, mi prende in giro.»
«Affatto»
esclamò quello, un po’
brillo, allontanandosi. «Stia attento alle ragazze, signor
Himura.
Se la credono Kenji, la rincorreranno fino in capo al
Giappone!»
Oroo.
«Gra…zie»
fece, esterrefatto.
Kenji rincorso
dalle ragazze? Questa
era nuova.
Rimuginando
divertito sulla notizia
(suo figlio non era ancora entrato in quella fase, apparentemente),
voltò l’angolo e raggiunse la casa di Yahiko con
la falcata che il
vicino aveva appena ammirato.
Giovane? Non
esageriamo. Fiducioso?
Perché no.
Si sentiva
bene, nello spirito
perlomeno. E da poco c’era una ragione in più per
essere felici.
Entrò
nel piccolo cortile, bussando
sulla porta aperta e trovando subito una donna graziosa con un
bambino. «Buongiorno, Tsubame. Yahiko non
c’è?»
«Oh,
salve, signor Kenshin» sorrise
lei, smettendo di spazzare. «Yahiko è sul retro,
sta recuperando la
palla di Shinya. Vuole che glielo chiami?»
«Non
fa niente. Volevo solo―»
«Zio
Kenshin, la tua legna sta
codendo» disse Shinya, indicando lo scassato carrello alle
sue
spalle.
«Oro?»
«Shinya-chan,
si dice “cadendo”,
non “codendo”» corresse Tsubame.
In quel
momento Yahiko Myojin emerse
dallo stretto retro dell’abitazione stringendo sottobraccio
una
scala e una palla di cuoio. «Hey Kenshin! Come va?»
«Bene,
grazie» rispose lui dalla pila
di legna, stringendo le corde.
«Hmm.
Sembri più contento del solito.
Oserei quasi dire raggiante. Cos’è, Kenji ha
saltato di dieci
metri, stavolta?»
Incapace di
trattenersi, Kenshin
scoppiò in una risata rassegnata.
Rincorso dalle
ragazze, raggiante…
che altro? Doveva proprio avercelo scritto in faccia.
«Ti
ringrazio, Yahiko» anche se
forse dovrei offendermi. «No, Kenji
non c’entra stavolta.
Kaoru ed io volevamo invitarvi a un tè, se non avete
impegni.»
«Oggi?»
«Sì,
questo pomeriggio. Sano e Megumi
hanno detto che verranno. Ma se avete altro da
fare…»
«No,
siamo liberi. E se anche non lo
fossimo ci libereremmo, lo sai» aggiunse Yahiko, riponendo la
scala
contro il fianco della casa.
Kenshin
sorrise.
«Una
festa?» domandò Shinya, gli
occhi già brillanti. «Perché? Chi
compie gli anni?»
«Nessuno.
Non proprio.»
«Uh?»
fece Yahiko, avvicinandosi a
Tsubame. «Che vuoi dire?»
«Sì,
cosa si festeggia, signor
Kenshin?»
«Questo
è un segreto.»
Lo stesso
pomeriggio, con gli stomaci
quasi vuoti (in previsione di chissà quale festino), gli
ospiti si
ritrovarono sulla porta della palestra Kamiya Kasshin.
I Sagara sulla
destra, i Myojin sulla
sinistra, vi fu un attimo di silenzio.
«Heilà.»
«Ciao.»
«Ota
non è venuto?»
«Alla
fine no» rispose Megumi. «Dice
di aver riscoperto la vita campestre. E' salito sul treno per
Shinshu.»
«Peccato»
disse Tsubame, posandosi
una mano sulla guancia.
Ma altri
convenevoli furono poco
cerimoniosamente interrotti da Sanosuke il quale, chinatosi in
avanti, li scrutò uno a uno con aria cospiratoria.
«Ma
voi avete capito perché siamo
qui?»
I bambini e
Tsubame scossero la testa,
mentre Yahiko s'incupiva.
«Io
spero solo che non abbia cucinato
Kaoru.»
«Non
preoccuparti, ci abbiamo pensato
io e papà» ribatté una voce sbucata dal
nulla.
Si voltarono;
l’uscio era socchiuso.
«Ciao
Kenji!» esclamò Sozou.
«Ciao.
Oh, c’è anche Nyannya.»
«Oi,
rosso, mio figlio si chiama
Shinya» brontolò Yahiko, rimpiangendo di non aver
portato Shinuchi
(o anche una bokken… ma poteva sempre recuperarne un
esemplare).
Gli fu
risposto con un inchino
irriverente, cui si aggiunse la risata di Sozou.
«Avanti,
entrate, è tutto pronto.»
«Hey,
Kenji… tu lo sai?» insistette
Sano.
Il ragazzo
sbatté le palpebre, a metà
fra la strada e il cortile. «So cosa?»
«Il
motivo della festa. Ci siamo
spaccati le cervella, ma niente.»
Spallucce.
«Mi venisse un colpo se lo
so. Mamma e papà sono strani da un paio di giorni,
all’inizio
pensavo per i nuovi iscritti… ma la palestra non li ha mai
fatti
canticchiare.» Non fu difficile vederlo reprimere un brivido.
«Ieri
ho visto la mamma indossare il kimono da sposa con aria estatica, in
camera sua. E mangia come una locusta.»
Yahiko rimase
a bocca aperta,
scarmigliato. Poi qualcosa parve risollevarlo.
«Beh,
se non ha cucinato lei, almeno
sappiamo che non è arrivata la nostra ora.»
Il commento
strappò sorrisi malvagi,
compreso quello di Kenji, che li invitò a entrare.
«Piuttosto, se
c’è qualcuno che dovrebbe saperlo quella sei tu,
zia Meg. Non vi
dite sempre tutto, tra signore?»
Lei
arricciò le labbra e non disse
niente, entrando per prima con passo imperiale.
«Oh,
pazienza, lo sapremo presto»
sentenziò Sanosuke. «Se cantano non può
esser così male, no?»
E difatti non
lo era giacché mezz’ora
dopo, tra dolci e notizie e pettegolezzi del vicinato, gli Himura
proposero un brindisi al loro nuovo figlio.
Vi fu un
attimo di silenzio.
Poi, tra
congratulazioni, sorpresa e
risate per la costernazione stampata sui visi dei figli già
nati
(Kenji era persino inciampato a faccia in giù nel piatto dei
fagioli
rossi), l’allegra brigata festeggiò, dimenticando
beghe e
dispiaceri.
Il sole
tramontava quando l’ultimo
avanzo fu spazzolato (da Kaoru) e l’ultimo piatto lavato e
riposto
(da Kenshin). L’uomo si terse la fronte, positivamente
esausto, ed
entrò nella saletta da pranzo dove trovò Inoi
impegnata a pulire
alla bell’e meglio il pavimento.
Dietro di lei,
in un angolo, Shinta
s’era addormentato.
«Inoi,
dov’è tuo fratello? No, non
questo» aggiunse, ridendo quando il piccolo
cominciò a masticare
dolci immaginari.
«Fuori.»
«Gli
avevo detto di pulire.»
«Lo
so, ma ha preso i piatti ed è
sparito.»
«I
piatti li ha portati a me.» La
spettinò con gentilezza. «Lascia stare. Facciamo
domani.»
«D’accordo.»
Si
appoggiò contro la sua gamba e gli
abbracciò la vita, ancora troppo bassa per arrivare
più in alto.
Kenshin sorrise. Col fiocco un po’ storto e il naso sporco di
cioccolato, la sua bambina era adorabile.
La prese in
braccio e le diede un bacio
sulla guancia.
«Papà!»
«Oro?
Adesso protesti anche tu?»
Lei ci
pensò per bene, rossa nella
penombra delle lanterne, poi scosse la testa e ricambiò.
Più
tardi, sbrigate altre faccende,
andò a darle la buonanotte. Rimboccò bene le
coperte a Shinta e
osservò entrambi, soddisfatto. Una volta in corridoio vide
che Kaoru
lo aspettava in camera, col lume acceso.
Non vedeva
l’ora di raggiungerla.
«Ma
prima recuperiamo l’ultimo.»
Qualche tempo
dopo il brindisi, una
sorpresa per tutti tranne che per Megumi («Lo sapevo che
questa
volpe nascondeva qualcosa» ― Sano), Kenji era sparito. Gli
sembrava di ricordarlo mentre trascinava fuori Sozou…
Pensò
che a volte, quando credeva di
non essere visto, cambiava. Il suo sguardo vagava lontano, perso
dietro l'ombra cupa di un temporale.
Forse il viso
che mostrava ogni giorno
non era una maschera, si disse. Forse la perturbazione veniva dal
riaffiorare di brutti ricordi. Sapeva quanto potesse essere forte il
carattere di un adolescente.
Uscito di
casa, lo individuò nello
spiazzo antistante la palestra; impugnava la spada usucapita ad Hiko
e si muoveva nelle forme armoniose del più bel kata del
Kamiya
Kasshin, con i bagliori delle lanterne cittadine alle spalle, appena
sopra il muro di cinta.
Rimase ad
osservarlo. La sua coda
mandava riflessi ramati, mentre il suo corpo eseguiva i movimenti con
ferreo controllo. Uno spettacolo preoccupante e affascinante.
Se solo fosse
rimasto un bambino per
sempre. Se solo non avesse amato in quel modo l’Hiten
Mitsurugi,
accontentandosi dello stile materno. Era stata necessaria una grande
dose di rassegnazione per iniziare ad istruirlo. Dopo aver rifiutato
in passato le richieste di Yahiko, Kenshin non si sentiva molto
onesto.
Ma ormai era
tardi per vacillare.
E la
felicità che coglieva negli occhi
di Kenji, nonostante tutto...
All’improvviso,
l’aria mutò.
Arriva.
Si
scansò quanto bastava per evitare
il colpo. Con una mano gli bloccò la fronte, mentre la spada
vibrava
un fendente a vuoto sul legno.
Lo sguardo in
risposta fu minaccioso.
«’Cidenti.
Non ancora.»
«Non
ti sembra un po’ tardi per
questo? Sarai stanco.»
«No,
sono stato attento a non
abbuffarmi.» Kenji saltò giù dalla
veranda per recuperare una
lanterna spenta. La agganciò alla punta della sakabato, poi
si volse
sogghignando. «Scommetto che invece Inoi rotolava.»
Kenshin
corrugò la fronte. «Quando la
smetterai di tormentare tua sorella…»
«Devo
pur allenarmi per il nuovo
arrivo, no?»
Lo
guardò rinfoderare la spada.
«Sei
geloso?» chiese, divertito.
«Certo
che no! Solo sorpreso. Pensavo
che almeno a me l’avreste detto.»
«Se
l’avessimo fatto, sarebbe andato
a monte lo scopo della festa, non trovi? E poi anch’io e tua
madre
lo sapevamo da poco.»
«Lo
so, vi fate gli occhi dolci
dall'altroieri» bofonchiò Kenji, ficcando le mani
sui fianchi.
«Oro.
Pensavo di farglieli da
quattordici anni.»
Era divertente
prenderlo in giro.
«Dai,
vieni» disse, invitandolo al
chiuso. «Ho messo su l’acqua per un
tè.»
«Lo
sai che il tè non mi fa dormire.»
Lo shoji si
richiuse ugualmente alle
loro spalle.
Kenshin volse
la schiena al figlio e
tolse il bollitore dal piccolo fornello a carbone, quello dove Kaoru
cuoceva il pesce.
«Hai
ragione.» Recuperò qualcosa
dalla vecchia, bassa credenza. «E chissà quante
altre cose mi
dimenticherò di te, col nuovo fratellino.»
Gli
posò davanti un piatto: l’ultima
cosa rimasta del festino.
Poi si
versò l’acqua bollente nella
tazza, osservando con la coda dell’occhio mentre Kenji
passava
dallo sconcertato all’estatico. Per un attimo, chiaro: guai
farsi
vedere contenti come scolaretti.
«Un
takoyaki!»
«Salvato
apposta per te.»
«…Grazie.»
Messaggio
ricevuto? Sulla sua bocca e
negli occhi concentrati danzavano i segni di un sorriso represso.
«Lo
sai» osservò, cominciando a
soffiare sulla tazza mentre il silenzio della notte avvolgeva la casa
e la città, «quando la mamma era incinta di te,
non c’era giorno
che tu le dessi pace. Ti muovevi e ti agitavi. Oro, una volta dormiva
dietro di me e mi hai dato un calcio a metà schiena. Bello
forte.»
Provò
il tè e lo trovò troppo caldo.
Il fuocherello della cucina s’abbassò leggermente,
gettando ombre
tremolanti sui mobili.
Kenji
sogghignò.
«Inoi
invece era calma. Troppo, tanto
che per qualche tempo abbiamo temuto… che non nascesse viva.
E
Shinta aveva sempre il singhiozzo; un goloso annunciato.»
Avvertì
un’involontaria ondata di
nostalgia per quei giorni così vicini e così
lontani, quando tutto
era nuovo e Kaoru non l’aveva ancora reso padre, o quando
Kenji gli
arrivava appena alle ginocchia. Era una nostalgia stemperata alla
felicità, naturalmente; insieme a nuovi problemi erano (e
sarebbero)
arrivate nuove soddisfazioni.
Sorseggiò
la bevanda e sorrise.
«Insomma,
fra un mesetto cominceremo a
scoprire come sarà tuo fratello. O tua sorella.»
Kenji parve
dubbioso. «Vuoi dire che
credete a quella roba?»
«E’
la saggezza delle levatrici.»
«Non
farti sentire da zia Megumi.»
«Finora
ci hanno azzeccato.»
Suo figlio
storse la bocca, offeso.
«Quindi
io sarei un esagitato senza
speranza?»
Kenshin
strinse le labbra.
«Non
saprei. Ma tua madre sta già
pregando di non sentire altri calci.» Finito il
tè, ripose tazza,
barattolo e piatto (del takoyaki) dove potesse individuarli la
mattina seguente per lavarli; quindi sbadigliò.
«Ora
di andare a nanna.»
«Non
sono agitato» protestò lui,
tirandosi in piedi di malavoglia. «E non sono
stanco.»
«Puoi
sempre leggere. Ti impegni
pochino nella scuola.»
«Ugh.»
Uscirono in
corridoio e, dal momento
che la lanterna era una sola, lo accompagnò fino alla sua
porta. La
luce nella camera matrimoniale era ancora accesa.
«Buonanotte.»
«E
se vi somiglia?» chiese Kenji di
punto in bianco.
«Come?»
disse, a metà falcata. «Oro,
non dovrebbe?» rispose, intuendo l'arcano.
«No,
lascia perdere.»
Sparì
in camera.
Kenshin
aggrottò la fronte. Alla sua
età era troppo vecchio per gli indovinelli, sinceramente ―
ma
immaginava di non aver molta scelta, con tre (quattro) pargoli. La
sua perseveranza di solito era ripagata da qualche illuminazione.
Eccola,
infatti.
Scosse il
capo, seguendo Kenji e
guardandolo preparare il futon.
«Hai
paura che venga uguale a te?
Dubito sia possibile.» Sentì un transfuga
rivoletto di sudore
colargli lungo il collo. «Saremmo rovinati.»
«Prego?»
Troppo
sarcasmo alla Hiko.
«Mettiti
un po’ qui, davanti a me.»
Gli
indicò il tatami, facendogli segno
di alzarsi.
«Voi
tre siete tutti diversi. Ognuno
ha qualcosa di speciale che gli altri non hanno.» Gli prese
il naso
tra due dita e lo strizzò forte ― Kenji tirò via
la testa di
scatto, massaggiandoselo con aria oltraggiata. «Non
cambierebbe
nulla se il nuovo fratello ti somigliasse.»
«Lo
so, cosa credi. Non intendevo mica
questo.»
«Certo
che no.»
Un’occhiata
diffidente. «Hm.»
«Alla
mamma hai dato la buonanotte?»
«Sì.»
«Vieni
qui allora» e aprì le
braccia; lui venne con calma, orgogliosa reticenza. Lo strinse forte.
«Sarai
sempre speciale, sciocco.
Sempre Kenji.»
«Lo
so. L’unico e irripetibile.
Senza di me sareste persi.»
Rise.
«Sei
proprio un elemento.»
Kenji attese
di sentire lo shoji che si
chiudeva, distante, lasciò cadere il libretto che aveva
cercato di
leggere e studiò distrattamente il soffitto.
Davanti alla
morte le piccole cose
assumevano un valore sconvolgente, pensò. Non esistevano
altre
certezze.
Con un colpo
di reni si tirò a sedere
e sgattaiolò fuori.
«Kenji,
dove vai?»
«In
bagno» rispose.
«Ricordati
di chiudere quando torni.»
Proseguì
uscendo sulla veranda chiusa
per la notte. Ma non entrò nel bagno ― aprì piano
il paletto del
pesante pannello scorrevole e uscì.
Dal tetto si
dominava un tratto di
quartiere e si poteva vedere il monte Ueno. C’era la luna
piena e
Tokyo sembrava un’altra città, disturbata solo
dall’abbaiare
lontano di un cane.
Si
sdraiò, ben coperto dall’haori
pesante. Guardò su, nel buio.
Quel posto lo
aiutava a pensare.
Il riverbero
del sole sulla lama di una
nagamaki continuava ad accecarlo. Non l’avrebbe scordato.
Le voci dei
suoi genitori gli giunsero
alle orecchie, trasportate da qualche spiffero; era sopra la loro
stanza.
«Come
credi che sarà il bambino in
viaggio?»
Poteva
immaginarla, sua madre, distesa
su un fianco con la testa sulla spalla di suo padre e quel sorriso
sulle labbra.
«Hm,
non saprei, proprio no.»
«Abbiamo
il combattente, la spiona e
il panda» Kenji sorrise, perché lo stava citando.
«Il prossimo
potrebbe essere normale, non credi?»
«Basterà
che sia sano. E che ti
somigli.»
«Già
Inoi e Shinta somigliano a me,
adesso è il tuo turno!»
«Vuoi
dire rosso e con gli occhi a
palla? Ne abbiamo già fatto uno così, mi
sembra.»
Kenji tese un
orecchio, piccato.
«Ma
se somigliasse anche solo per un
quarto a Kenji, io mi riterrei fortunata, Kenshin.»
Con un
profondo respiro d’aria tersa,
si rilassò nella notte.
Tanto, nessuno
poteva vederlo, e...
...basta
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