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Autore: Melitot Proud Eye    02/10/2009    4 recensioni
«Allora, perché mi hai chiamato così? “Kenji” è “la via della spada”, hai dimenticato? Perché?»
Non è mai facile trovare il giusto mezzo. E bisogna fare attenzione a non perdere qualcosa d'importante nel tentativo.
[8-11-2011: inizio edit della storia - primo capitolo]
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota: eccolo, finalmente! Chiedo scusa per il ritardo... ma ho cambiato talmente tante cose di questo capitolo, come di quello precedente, da non ricordare neanche più come fosse all'inizio ^^;
Spero che vi piaccia e, se avete tempo, lasciatemi un commentino!
Pubblicità vergognosa: date un'occhiata a Kyoto 1865 ;-)
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Epilogo
I figli della pace (e i loro genitori)




Isogaba maware.”
Chi va piano va sano e lontano

Proverbio giapponese (e non solo)






Due mesi dopo, levati i punti e guarita la ferita sul fianco, Kenji era impegnato ad analizzarsi nella luce fredda dell’inverno di Tokyo, seduto contro il muro della palestra.

«Piantala di sfogliarti quella crosta e renditi utile» esclamò Kaoru, in assetto da insegnamento. «In casa mancano miso e salsa di soia.»
«Non è già uscito papà?»
«Per la legna.»
«E io che posso farci?»
«Puoi farci che, se non vai, stasera non c’è niente per cena.»
«Cucinavi tu?»
Sua madre strinse gli occhi. Con la scusa che poteva di nuovo sfuggirle, se ne stava approfittando un po’.
«Kenji…»
S'alzò, chiudendo il gi verde e spolverandosi gli hakama. «E va bene, d’accordo» mugugnò.
«Cos’è quel muso lungo? Avanti, marsch. Muovi gli stecchini!» e gli picchettò i polpacci col piatto della shinai.
«Il miso pesa» protestò lui, allontanandosi. «E poi sono troppo occupato per queste cose.»

Kaoru sentì un guizzo al nervo sopraciliare e non ebbe bisogno di toccarsi per sapere che aveva un’espressione asimmetrica (assassina) sul viso.
«Ma davvero?»

Lo stava scimmiottando. Certo era ritta sull’ingresso della palestra, le braccia incrociate.
Si permise un sogghigno e vide Shinta arrivare a razzo dalla casa, con Inoi e alcune sue amichette che osservavano dalla cucina.
«Kenji-chan!»
«Ciao tappo.» Lasciò che gli si attaccasse alle gambe. «Inoi e le altre Oniwawwa non ti fanno giocare? Spero non stiano provando una nuova ricetta. L’ultima era veleno di Okina.»
E indirizzò un sorrisetto con tanto di saluto alla sorella, scura in volto. Da quand’era stata a Kyoto s’era infatuata della disciplina degli Oniwabanshu, come lui aveva notato a cuor (ingenuamente) leggero; poi aveva coinvolto tutte quelle sceme delle sue amiche. Inutile dire che si divertiva un mondo a prenderle in giro.
Non guardatelo male: aveva cominciato solo dopo aver rischiato la buccia a causa dei loro biscotti.
«Voglio venire con te» dichiarò Shinta, tirandogli una manica.
«Con me?» Poté scorgere un gesto preoccupato di sua madre. «Io vado al mercato. Roba noiosa.»
«Non è noiosa.»
Un’occhiata e seppe che avevano il permesso. Davanti a quella dimostrazione di fiducia salì la voglia di far compere.
«Allora dammi la mano, fratellino.»
Se lo tirò dietro, marciando con baldanza fuori di casa.

Il carrellino a ruote incappò nell’ennesimo buco e Kenshin dovette balzar fuori della sua portata per non rimetterci la caviglia.
La legna legata sul piccolo, umile mezzo di trasporto (una “creazione moderna”, a detta del farabu―del venditore che gliel’aveva rifila―venduto) protestò, scivolando leggermente a lato.
Sospirò e liberò tutto dalla buca. Poi, controllati i cordami, proseguì. Aveva ancora una casa da visitare, quella mattina.
«Buongiorno, signor Himura.»
«Oro? Buongiorno.»
Era un tizio del vicinato, padre di un'amichetta di Inoi. Vestito da contadino, una matita dietro l’orecchio, trasportava fascine di paglia.
«La vedo in forma.»
«Non c’è male, proprio no, grazie» rispose.
«Ah, vedo, vedo. Riconosco ancora la falcata di un giovanotto ― se non l’avessi vista in faccia, l’avrei scambiata per quel bellimbusto di suo figlio!»
Oro.
«Signor Togu, mi prende in giro.»
«Affatto» esclamò quello, un po’ brillo, allontanandosi. «Stia attento alle ragazze, signor Himura. Se la credono Kenji, la rincorreranno fino in capo al Giappone!»
Oroo.
«Gra…zie» fece, esterrefatto.
Kenji rincorso dalle ragazze? Questa era nuova.
Rimuginando divertito sulla notizia (suo figlio non era ancora entrato in quella fase, apparentemente), voltò l’angolo e raggiunse la casa di Yahiko con la falcata che il vicino aveva appena ammirato.
Giovane? Non esageriamo. Fiducioso? Perché no.
Si sentiva bene, nello spirito perlomeno. E da poco c’era una ragione in più per essere felici.
Entrò nel piccolo cortile, bussando sulla porta aperta e trovando subito una donna graziosa con un bambino. «Buongiorno, Tsubame. Yahiko non c’è?»
«Oh, salve, signor Kenshin» sorrise lei, smettendo di spazzare. «Yahiko è sul retro, sta recuperando la palla di Shinya. Vuole che glielo chiami?»
«Non fa niente. Volevo solo―»
«Zio Kenshin, la tua legna sta codendo» disse Shinya, indicando lo scassato carrello alle sue spalle.
«Oro?»
«Shinya-chan, si dice “cadendo”, non “codendo”» corresse Tsubame.
In quel momento Yahiko Myojin emerse dallo stretto retro dell’abitazione stringendo sottobraccio una scala e una palla di cuoio. «Hey Kenshin! Come va?»
«Bene, grazie» rispose lui dalla pila di legna, stringendo le corde.
«Hmm. Sembri più contento del solito. Oserei quasi dire raggiante. Cos’è, Kenji ha saltato di dieci metri, stavolta?»
Incapace di trattenersi, Kenshin scoppiò in una risata rassegnata.
Rincorso dalle ragazze, raggiante… che altro? Doveva proprio avercelo scritto in faccia.
«Ti ringrazio, Yahiko» anche se forse dovrei offendermi. «No, Kenji non c’entra stavolta. Kaoru ed io volevamo invitarvi a un tè, se non avete impegni.»
«Oggi?»
«Sì, questo pomeriggio. Sano e Megumi hanno detto che verranno. Ma se avete altro da fare…»
«No, siamo liberi. E se anche non lo fossimo ci libereremmo, lo sai» aggiunse Yahiko, riponendo la scala contro il fianco della casa.
Kenshin sorrise.
«Una festa?» domandò Shinya, gli occhi già brillanti. «Perché? Chi compie gli anni?»
«Nessuno. Non proprio.»
«Uh?» fece Yahiko, avvicinandosi a Tsubame. «Che vuoi dire?»
«Sì, cosa si festeggia, signor Kenshin?»
«Questo è un segreto.»

Lo stesso pomeriggio, con gli stomaci quasi vuoti (in previsione di chissà quale festino), gli ospiti si ritrovarono sulla porta della palestra Kamiya Kasshin.
I Sagara sulla destra, i Myojin sulla sinistra, vi fu un attimo di silenzio.
«Heilà.»
«Ciao.»
«Ota non è venuto?»
«Alla fine no» rispose Megumi. «Dice di aver riscoperto la vita campestre. E' salito sul treno per Shinshu.»
«Peccato» disse Tsubame, posandosi una mano sulla guancia.
Ma altri convenevoli furono poco cerimoniosamente interrotti da Sanosuke il quale, chinatosi in avanti, li scrutò uno a uno con aria cospiratoria.
«Ma voi avete capito perché siamo qui?»
I bambini e Tsubame scossero la testa, mentre Yahiko s'incupiva.
«Io spero solo che non abbia cucinato Kaoru.»
«Non preoccuparti, ci abbiamo pensato io e papà» ribatté una voce sbucata dal nulla.
Si voltarono; l’uscio era socchiuso.
«Ciao Kenji!» esclamò Sozou.
«Ciao. Oh, c’è anche Nyannya.»
«Oi, rosso, mio figlio si chiama Shinya» brontolò Yahiko, rimpiangendo di non aver portato Shinuchi (o anche una bokken… ma poteva sempre recuperarne un esemplare).
Gli fu risposto con un inchino irriverente, cui si aggiunse la risata di Sozou.
«Avanti, entrate, è tutto pronto.»
«Hey, Kenji… tu lo sai?» insistette Sano.
Il ragazzo sbatté le palpebre, a metà fra la strada e il cortile. «So cosa?»
«Il motivo della festa. Ci siamo spaccati le cervella, ma niente.»
Spallucce. «Mi venisse un colpo se lo so. Mamma e papà sono strani da un paio di giorni, all’inizio pensavo per i nuovi iscritti… ma la palestra non li ha mai fatti canticchiare.» Non fu difficile vederlo reprimere un brivido. «Ieri ho visto la mamma indossare il kimono da sposa con aria estatica, in camera sua. E mangia come una locusta.»
Yahiko rimase a bocca aperta, scarmigliato. Poi qualcosa parve risollevarlo.
«Beh, se non ha cucinato lei, almeno sappiamo che non è arrivata la nostra ora.»
Il commento strappò sorrisi malvagi, compreso quello di Kenji, che li invitò a entrare. «Piuttosto, se c’è qualcuno che dovrebbe saperlo quella sei tu, zia Meg. Non vi dite sempre tutto, tra signore?»
Lei arricciò le labbra e non disse niente, entrando per prima con passo imperiale.
«Oh, pazienza, lo sapremo presto» sentenziò Sanosuke. «Se cantano non può esser così male, no?»
E difatti non lo era giacché mezz’ora dopo, tra dolci e notizie e pettegolezzi del vicinato, gli Himura proposero un brindisi al loro nuovo figlio.
Vi fu un attimo di silenzio.
Poi, tra congratulazioni, sorpresa e risate per la costernazione stampata sui visi dei figli già nati (Kenji era persino inciampato a faccia in giù nel piatto dei fagioli rossi), l’allegra brigata festeggiò, dimenticando beghe e dispiaceri.

Il sole tramontava quando l’ultimo avanzo fu spazzolato (da Kaoru) e l’ultimo piatto lavato e riposto (da Kenshin). L’uomo si terse la fronte, positivamente esausto, ed entrò nella saletta da pranzo dove trovò Inoi impegnata a pulire alla bell’e meglio il pavimento.
Dietro di lei, in un angolo, Shinta s’era addormentato.
«Inoi, dov’è tuo fratello? No, non questo» aggiunse, ridendo quando il piccolo cominciò a masticare dolci immaginari.
«Fuori.»
«Gli avevo detto di pulire.»
«Lo so, ma ha preso i piatti ed è sparito.»
«I piatti li ha portati a me.» La spettinò con gentilezza. «Lascia stare. Facciamo domani.»
«D’accordo.»
Si appoggiò contro la sua gamba e gli abbracciò la vita, ancora troppo bassa per arrivare più in alto. Kenshin sorrise. Col fiocco un po’ storto e il naso sporco di cioccolato, la sua bambina era adorabile.
La prese in braccio e le diede un bacio sulla guancia.
«Papà!»
«Oro? Adesso protesti anche tu?»
Lei ci pensò per bene, rossa nella penombra delle lanterne, poi scosse la testa e ricambiò.
Più tardi, sbrigate altre faccende, andò a darle la buonanotte. Rimboccò bene le coperte a Shinta e osservò entrambi, soddisfatto. Una volta in corridoio vide che Kaoru lo aspettava in camera, col lume acceso.
Non vedeva l’ora di raggiungerla.
«Ma prima recuperiamo l’ultimo.»
Qualche tempo dopo il brindisi, una sorpresa per tutti tranne che per Megumi («Lo sapevo che questa volpe nascondeva qualcosa» ― Sano), Kenji era sparito. Gli sembrava di ricordarlo mentre trascinava fuori Sozou…
Pensò che a volte, quando credeva di non essere visto, cambiava. Il suo sguardo vagava lontano, perso dietro l'ombra cupa di un temporale.
Forse il viso che mostrava ogni giorno non era una maschera, si disse. Forse la perturbazione veniva dal riaffiorare di brutti ricordi. Sapeva quanto potesse essere forte il carattere di un adolescente.
Uscito di casa, lo individuò nello spiazzo antistante la palestra; impugnava la spada usucapita ad Hiko e si muoveva nelle forme armoniose del più bel kata del Kamiya Kasshin, con i bagliori delle lanterne cittadine alle spalle, appena sopra il muro di cinta.
Rimase ad osservarlo. La sua coda mandava riflessi ramati, mentre il suo corpo eseguiva i movimenti con ferreo controllo. Uno spettacolo preoccupante e affascinante.
Se solo fosse rimasto un bambino per sempre. Se solo non avesse amato in quel modo l’Hiten Mitsurugi, accontentandosi dello stile materno. Era stata necessaria una grande dose di rassegnazione per iniziare ad istruirlo. Dopo aver rifiutato in passato le richieste di Yahiko, Kenshin non si sentiva molto onesto.
Ma ormai era tardi per vacillare.
E la felicità che coglieva negli occhi di Kenji, nonostante tutto...
All’improvviso, l’aria mutò.
Arriva.
Si scansò quanto bastava per evitare il colpo. Con una mano gli bloccò la fronte, mentre la spada vibrava un fendente a vuoto sul legno.
Lo sguardo in risposta fu minaccioso.
«’Cidenti. Non ancora.»
«Non ti sembra un po’ tardi per questo? Sarai stanco.»
«No, sono stato attento a non abbuffarmi.» Kenji saltò giù dalla veranda per recuperare una lanterna spenta. La agganciò alla punta della sakabato, poi si volse sogghignando. «Scommetto che invece Inoi rotolava.»
Kenshin corrugò la fronte. «Quando la smetterai di tormentare tua sorella…»
«Devo pur allenarmi per il nuovo arrivo, no?»
Lo guardò rinfoderare la spada.
«Sei geloso?» chiese, divertito.
«Certo che no! Solo sorpreso. Pensavo che almeno a me l’avreste detto.»
«Se l’avessimo fatto, sarebbe andato a monte lo scopo della festa, non trovi? E poi anch’io e tua madre lo sapevamo da poco.»
«Lo so, vi fate gli occhi dolci dall'altroieri» bofonchiò Kenji, ficcando le mani sui fianchi.
«Oro. Pensavo di farglieli da quattordici anni.»
Era divertente prenderlo in giro.
«Dai, vieni» disse, invitandolo al chiuso. «Ho messo su l’acqua per un tè.»
«Lo sai che il tè non mi fa dormire.»
Lo shoji si richiuse ugualmente alle loro spalle.
Kenshin volse la schiena al figlio e tolse il bollitore dal piccolo fornello a carbone, quello dove Kaoru cuoceva il pesce.
«Hai ragione.» Recuperò qualcosa dalla vecchia, bassa credenza. «E chissà quante altre cose mi dimenticherò di te, col nuovo fratellino.»
Gli posò davanti un piatto: l’ultima cosa rimasta del festino.
Poi si versò l’acqua bollente nella tazza, osservando con la coda dell’occhio mentre Kenji passava dallo sconcertato all’estatico. Per un attimo, chiaro: guai farsi vedere contenti come scolaretti.
«Un takoyaki!»
«Salvato apposta per te.»
«…Grazie.»
Messaggio ricevuto? Sulla sua bocca e negli occhi concentrati danzavano i segni di un sorriso represso.
«Lo sai» osservò, cominciando a soffiare sulla tazza mentre il silenzio della notte avvolgeva la casa e la città, «quando la mamma era incinta di te, non c’era giorno che tu le dessi pace. Ti muovevi e ti agitavi. Oro, una volta dormiva dietro di me e mi hai dato un calcio a metà schiena. Bello forte.»
Provò il tè e lo trovò troppo caldo. Il fuocherello della cucina s’abbassò leggermente, gettando ombre tremolanti sui mobili.
Kenji sogghignò.
«Inoi invece era calma. Troppo, tanto che per qualche tempo abbiamo temuto… che non nascesse viva. E Shinta aveva sempre il singhiozzo; un goloso annunciato.»
Avvertì un’involontaria ondata di nostalgia per quei giorni così vicini e così lontani, quando tutto era nuovo e Kaoru non l’aveva ancora reso padre, o quando Kenji gli arrivava appena alle ginocchia. Era una nostalgia stemperata alla felicità, naturalmente; insieme a nuovi problemi erano (e sarebbero) arrivate nuove soddisfazioni.
Sorseggiò la bevanda e sorrise.
«Insomma, fra un mesetto cominceremo a scoprire come sarà tuo fratello. O tua sorella.»
Kenji parve dubbioso. «Vuoi dire che credete a quella roba?»
«E’ la saggezza delle levatrici.»
«Non farti sentire da zia Megumi.»
«Finora ci hanno azzeccato.»
Suo figlio storse la bocca, offeso.
«Quindi io sarei un esagitato senza speranza?»
Kenshin strinse le labbra.
«Non saprei. Ma tua madre sta già pregando di non sentire altri calci.» Finito il tè, ripose tazza, barattolo e piatto (del takoyaki) dove potesse individuarli la mattina seguente per lavarli; quindi sbadigliò.
«Ora di andare a nanna.»
«Non sono agitato» protestò lui, tirandosi in piedi di malavoglia. «E non sono stanco.»
«Puoi sempre leggere. Ti impegni pochino nella scuola.»
«Ugh.»
Uscirono in corridoio e, dal momento che la lanterna era una sola, lo accompagnò fino alla sua porta. La luce nella camera matrimoniale era ancora accesa.
«Buonanotte.»
«E se vi somiglia?» chiese Kenji di punto in bianco.
«Come?» disse, a metà falcata. «Oro, non dovrebbe?» rispose, intuendo l'arcano.
«No, lascia perdere.»
Sparì in camera.
Kenshin aggrottò la fronte. Alla sua età era troppo vecchio per gli indovinelli, sinceramente ― ma immaginava di non aver molta scelta, con tre (quattro) pargoli. La sua perseveranza di solito era ripagata da qualche illuminazione.
Eccola, infatti.
Scosse il capo, seguendo Kenji e guardandolo preparare il futon.
«Hai paura che venga uguale a te? Dubito sia possibile.» Sentì un transfuga rivoletto di sudore colargli lungo il collo. «Saremmo rovinati.»
«Prego
Troppo sarcasmo alla Hiko.
«Mettiti un po’ qui, davanti a me.»
Gli indicò il tatami, facendogli segno di alzarsi.
«Voi tre siete tutti diversi. Ognuno ha qualcosa di speciale che gli altri non hanno.» Gli prese il naso tra due dita e lo strizzò forte ― Kenji tirò via la testa di scatto, massaggiandoselo con aria oltraggiata. «Non cambierebbe nulla se il nuovo fratello ti somigliasse.»
«Lo so, cosa credi. Non intendevo mica questo.»
«Certo che no.»
Un’occhiata diffidente. «Hm.»
«Alla mamma hai dato la buonanotte?»
«Sì.»
«Vieni qui allora» e aprì le braccia; lui venne con calma, orgogliosa reticenza. Lo strinse forte.
«Sarai sempre speciale, sciocco. Sempre Kenji.»
«Lo so. L’unico e irripetibile. Senza di me sareste persi.»
Rise.
«Sei proprio un elemento.»

Kenji attese di sentire lo shoji che si chiudeva, distante, lasciò cadere il libretto che aveva cercato di leggere e studiò distrattamente il soffitto.
Davanti alla morte le piccole cose assumevano un valore sconvolgente, pensò. Non esistevano altre certezze.
Con un colpo di reni si tirò a sedere e sgattaiolò fuori.
«Kenji, dove vai?»
«In bagno» rispose.
«Ricordati di chiudere quando torni.»
Proseguì uscendo sulla veranda chiusa per la notte. Ma non entrò nel bagno ― aprì piano il paletto del pesante pannello scorrevole e uscì.
Dal tetto si dominava un tratto di quartiere e si poteva vedere il monte Ueno. C’era la luna piena e Tokyo sembrava un’altra città, disturbata solo dall’abbaiare lontano di un cane.
Si sdraiò, ben coperto dall’haori pesante. Guardò su, nel buio.
Quel posto lo aiutava a pensare.
Il riverbero del sole sulla lama di una nagamaki continuava ad accecarlo. Non l’avrebbe scordato.
Le voci dei suoi genitori gli giunsero alle orecchie, trasportate da qualche spiffero; era sopra la loro stanza.
«Come credi che sarà il bambino in viaggio?»
Poteva immaginarla, sua madre, distesa su un fianco con la testa sulla spalla di suo padre e quel sorriso sulle labbra.
«Hm, non saprei, proprio no.»
«Abbiamo il combattente, la spiona e il panda» Kenji sorrise, perché lo stava citando. «Il prossimo potrebbe essere normale, non credi?»
«Basterà che sia sano. E che ti somigli.»
«Già Inoi e Shinta somigliano a me, adesso è il tuo turno!»
«Vuoi dire rosso e con gli occhi a palla? Ne abbiamo già fatto uno così, mi sembra.»
Kenji tese un orecchio, piccato.
«Ma se somigliasse anche solo per un quarto a Kenji, io mi riterrei fortunata, Kenshin.»

Con un profondo respiro d’aria tersa, si rilassò nella notte.
Tanto, nessuno poteva vederlo, e...


...basta


   
 
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