Non
ci credo: sono riuscita ad aggiornare la mia raccolta sul primo
Ordine della Fenice. Giuro non credevo possibile che la mia mediocre
ispirazione sarebbe improvvisamente zampillata. Bastarda, fra
l'altro, perché dopo mesi, e mesi, e mesi, e mesi e ancora
mesi di
nulla, decide bene di risvegliarsi ora. Ora, che sono quasi le tre e
a me non restano che tre ore di sonno. È davvero una
creatura
bastarda. Anyway, domani mi imbottirò di caffè.
Al solito, fra
l'altro.
Non
credo che io debba spiegare questo capitolo della Raccolta; anzi, non
credo nemmeno che vi anticiperò il contenuto. Vi basti
sapere che il
protagonista è Remus (strano!).
L'idea
mi era venuta rileggendo il punto di DH in cui Remus ammonisce quel
rintronato di Harry dicendogli: «These
people are trying to capture and kill you! At least Stun if you
aren't preparated to kill!» aka
«Finiscila di fare il pirla e spara granate serie».
Remus ha le
palle quadre in quel momento, sa che quella guerra fa affrontata
senza troppi fronzoli e senza troppi ripensamenti. Altro che
dispensatore di cioccolata. Ma nessun adulto è lo stesso di
quando
era giovane.
(I
soprannomi dei Malandrini sono in lingua originale; non sono nemmeno
paragonabili a quelli tradotti. Tutti gli altri termini,
però, sono
quelli dell'edizione italiana. I vari nomi di incantesimi e notizie
varie sono state estrapolate dal sempre fido Lexicon).
Fine
del comunicato, grazie e arrivederci.
A mani
sporche
“La
vita umana va presa a piene mani”
(Goethe)
Alastor
Moody conosceva
bene il sapore della battaglia. Nel corso della sua carriera, ne
aveva affrontate tante – troppe, forse. Aveva imparato a
riconoscerle una dall'altra, a distinguerle fra quelle in cui si
andava rischiando la vita, quelle in cui andava rischiando l'onore e
quelle in cui si rischiavano entrambe le cose. La guerra aveva un
particolare gusto agrodolce, che nulla al mondo era in grado di
eguagliare; in certe battaglie, si era ritrovato inebriato talmente
dal sapore dell'adrenalina, da desiderare di poterlo provare in
eterno.
Non
che per Moody fosse
un diletto, in ogni caso: era un Auror – uno dei migliori,
fra
l'altro – ed il suo lavoro era spalleggiare la giustizia
quando i
tempi si facevano più cupi e maligni. Nonostante fosse
pagato per
scendere in battaglia, tuttavia, non si era mai ritenuto un
mercenario. Al contrario, riteneva tale appellativo una grave onta
per quello che la sua categoria rappresentava: i mercenari non erano
altro che burattini al servizio del migliore offerente; gli Auror
erano guerrieri al servizio del Bene e il loro onore non era
negoziabile per definizione.
Tanti
anni prima, quando
aveva varcato per la prima volta la soglia del Quartier Generale
degli Auror, al secondo livello del Ministero della Magia, si era
ripromesso che avrebbe difeso l'Inghilterra dagli attacchi dei maghi
Oscuri fino alla morte. Non ci sarebbe stata alcuna pensione, per
lui: non l'avrebbe mai accettato. Sarebbe caduto in battaglia,
stringendo con forza la bacchetta magica e fissando negli occhi un
avversario più forte di lui.
O
più fortunato, a
seconda dei casi.
Sollevò
lo sguardo
dalla nebbia e dal sudiciume che avvolgeva i quartieri poveri
dell'Essex e studiò nuovamente il ragazzo.
Remus
Lupin aveva
compiuto diciotto anni da poco più di un mese.
Moody
era dell'idea che
avesse notevoli potenzialità, ma che fosse ancora troppo
giovane e
inesperto per saperle sfruttare al meglio. Era perspicace e sapeva
ragionare con rapidità e buonsenso: due caratteristiche che
Moody
aveva sempre ritenuto fondamentali per un mago. Ed era incline a
rimanere in silenzio; una caratteristica che riteneva fondamentale
per chiunque dovesse lavorare insieme a lui. Sarebbe potuto diventare
un ottimo Auror, se solo avesse potuto.
Al
momento, tuttavia,
rimaneva solo un diciottenne spigliato e preparato, e Moody, per
quanto apparisse rude e senza cuore ai più, sentiva di avere
la sua
incolumità fra le tante responsabilità di quella
notte insidiosa.
«Ragazzo»
ringhiò
piano. «Come ti senti?».
Remus
annuì
nervosamente.
«Sono
pronto, Alastor»
sussurrò con voce roca. «E non ho paura»
aggiunse determinato,
guardandolo con serietà.
Moody
lo fissò
un'ultima volta e sogghignò nell'ombra.
Bravo
ragazzo.
«Vigilanza
costante»
lo ammonì, indicandogli di seguirlo con la mano sinistra.
«E spera
di avere una buona stella, lassù, da qualche
parte».
Quando
si era reso conto
di essere finito in un'imboscata, era già troppo tardi per
evitarla.
Un istante dopo, lui e Moody erano già circondati da cinque
alte
figure incappucciate.
Per
un attimo, Remus
dimenticò di respirare, poi, istintivamente,
sollevò la bacchetta e
la mirò dritta al petto del Mangiamorte che lo fronteggiava.
Il suo
Schiantesimo era stato incredibilmente preciso, ma poco potente;
l'altro mago era stato capace di respingerlo con un Sortilegio Scudo
di mediocre energia.
Colse
un movimento con
la coda dell'occhio e si scansò con un guizzo rapido. Un
improvviso
bruciore alla spalla sinistra gli fece storcere il naso, ma non
riusciva a rendersi conto di cosa stava succedendo attorno a lui. Non
sentiva né le grida, né gli incantesimi. Dov'era
Alastor? Chi fra
quei due Mangiamorte lo avrebbe colpito prima? Sarebbe morto quella
notte?
«Corri
verso Buffalo, attraversa il ponte!» sentì tuonare
Moody. «ORA!».
Cos'è
Buffalo?
Non
ricordo.
Le
gambe di Remus si
mossero da sole: il ragazzo pregò che sapessero dove andare.
Mentre
saltava una cassetta di legno abbandonata sul ciglio umido di Gliwell
Street, volse il capo indietro, spaventato. Cerco con lo sguardo la
figura di Moody, ma non riusciva a vedere oltre la spessa coltre di
nebbia dell'Essex. Sapeva che non avrebbe dovuto ignorare gli ordini
di Moody – tantomeno in una situazione critica come quella
– ma
voleva avere la certezza che l'Auror fosse scappato a sua volta.
Volevamo
sigillare il quartiere per intrappolare loro.
Ora
non possiamo Smaterializzarci.
Siamo
noi ad essere finiti in trappola.
Stava
per tuffarsi
nuovamente nella nebbia, quando una mano gli comparve improvvisamente
davanti e tentò di afferrare il bavero del suo logoro e
sciupato
mantello. Incespicò sulle gambe e cadde all'indietro, senza
distogliere lo sguardo dal Mangiamorte che lo sovrastava.
Lo
vide sollevare con
misurata lentezza la bacchetta...
Fu
questione di un
secondo.
Facendo
forza sulla
mani, calciò con forza lo stinco dell'altro mago, che si
ritrasse
con un gemito e perse di vista la propria preda. Remus si
rialzò
rapidamente, strinse la bacchetta e la indirizzò verso il
terreno.
Merlino,
aiutami.
«Dominusterra!»
gridò con quanto fiato aveva in gola.
Un
potente fascio
luminoso colpì il suolo, e la terra attorno ai piedi del
Mangiamorte
iniziò a tremare, dapprima leggermente, poi con
intensità
crescente. L'uomo tentò di muovere un passo, ma i suoi
movimenti
erano scoordinati e presto perse l'equilibro e rovinò in una
pozza
d'acqua putrida.
Remus
girò rapidamente
sui tacchi e iniziò a correre con quanta più
velocità avesse mai
corso: dopo pochi istanti, tuttavia, il Mangiamorte gli era
già alle
costole. Il suo incantesimo gli aveva solo concesso un paio di
secondi di vantaggio.
Sapeva
di essere un bersaglio troppo facile da quella distanza. Si
voltò
improvvisamente e scandì rapido: «Lacarnum
Inflamare!».
Non aspettò di vedere l'esito delle fiamme da lui evocate;
non ne
avrebbe mai avuto il tempo. Riprese a correre e si infilò in
un cupo
portico di Pontoon.
«Lumos!».
Respirando
affannosamente, guardò a destra e a sinistra, cercando di
riconoscere la zona di Londra nella quale era finito. Riconobbe le
luci del porto in distanza, e si gettò nella zona marittima
con un
moto di sollievo. Il canale di Buffalo non era molto distante dal
porto dell'East End: oltre il ponte avrebbe potuto Materializzarsi in
un luogo sicuro. Mancava meno di un miglio...
«Avada
Kedavra!».
Si
buttò oltre la cinta
di una diroccata casa popolare dei quartieri poveri. La Maledizione
si infranse con un boato a pochi passi da dove lui era prima.
«Dannazione»
imprecò
a bassa voce.
Attraversò
di corsa il cortile interno, scivolando fra erbacce, pezzi di rottami
abbandonati e fili arrugginiti. L'orlo del mantello si
impigliò in
un rovo, così Remus lo sfilò e mormorò
nervosamente: «Wingardium
Leviosa».
Diresse
l'abito verso
una scala d'emergenza del secondo piano, facendo attenzione che dal
punto in cui lui era entrato fosse bene in vista, e si
allontanò
quatto quatto nel buio.
Scavalcò
il muricciolo
dall'estremità opposta e si ritrovò –
con suo grande stupore –
sull'argine di Greaving Dock, a poco più di cinquecento yard
dal
ponte di Buffalo.
«Alarte
Ascendare!».
Precipitò
al suolo
ancor prima di rendersi conto di essere stato sollevato da terra.
Atterrò sulla schiena con un tonfo sordo ed ebbe uno spasimo
di
dolore talmente intenso che rimase senza fiato. Boccheggiò e
tentò
di girarsi sulla pancia, sputando un grumo di saliva e sangue e
cercando a tentoni la bacchetta. Fu sufficientemente fortunato da
trovare immediatamente l'impugnatura, ma il Mangiamorte già
lo
sovrastava per la seconda volta.
«Credevi
davvero di
poter scappare da
me?»
sibilò perfidamente, inclinando il capo. «Hai idea
di chi io sia,
ragazzino?».
Respirando
affannosamente, Remus riuscì a voltarsi ed ad arretrare di
pochi
passi dal Mangiamorte. Riverso nel fango, alzò tremante la
mano e si
pulì malamente il volto sporco: per un momento, un guizzo di
onore e
coraggio squarciò la paura che gli si leggeva negli occhi
ambrati.
«Uno
sporco assassino»
mormorò con voce roca. «Nient'altro».
Il
Mangiamorte gli
scagliò un calcio violento ai reni, strappandogli un
sommesso gemito
di dolore e costringendolo a voltarsi sul fianco sinistro.
«Crucio!».
Ebbe
l'impressione di
essere trafitto da mille lance acuminate.
Oddio,
fa' che sia
veloce.
Nell'accecante
impeto
del dolore causato dalla maledizione del Mangiamorte, nella sua mente
annebbiata riecheggiò un grido lontano.
«Ti
prego... ti
prego, non farmi del male! Ti prego... ti prego, va' via da
me!».
Gli
artigli squarciarono
ferocemente la sua pelle candida di fanciullo.
La
sua carne si stava
squarciando.
Le
zanne penetrarono con
ingordigia nell'incavo del suo piccolo collo.
I
suoi muscoli stavano
bruciando.
Le
sue ossa si
spezzavano come giunchi sottili.
Pietà,
basta!
Il
Mangiamorte sferzò
nuovamente l'aria con la propria bacchetta: tremante, Remus rimase
con la schiena a terra, gli occhi serrati e le braccia spalancate
verso il cielo stellato. Non ricordava di aver mai avuto la mente
tanto sgombra come in quel momento.
Sto
per morire.
Buon
Dio, non riesco
a rendermene conto.
Dunque
morire è
questo.
«Alzati,
animale» ordinò imperioso il Mangiamorte.
«Alzati!»
gridò ancora, sollevando con disprezzo per il colletto
logoro del
mantello e gettandolo lontano. Remus barcollò diversi
secondi,
stringendo con forza il braccio destro: nonostante fosse ancora
intorpidito dalla tortura appena subita, ebbe la netta impressione
che fosse rotto. Ghignando beffardo, il Mangiamorte gli
lanciò la
bacchetta, che cadde a pochi passi dal suo piede.
«Raccoglila»
intimò
stentoreo.
Apatico,
Remus abbassò
lo sguardo verso il suolo e, lentamente, si inginocchiò
nella melma
e strinse la mano sinistra all'impugnatura di frassino.
«Tredici
pollici di
lunghezza con un nucleo di corde di cuore di drago; un degli
esemplari femmina più brillanti dell'allevamento del clan
dei
MacFusty, se non vado errato. Niente male, giovane Lupin. È
una
grande bacchetta, non c'è che dire. Pare che tu sia
destinato a
risultati altrettanto grandi».
Era
la sua
bacchetta:
la possedeva da oltre sette anni. Con lei aveva imparato i primi
rudimenti di magia – l'incantesimo di Levitazione fu il
primo, in
effetti – e, di tanto in tanto, l'aveva aiutato a credere di
non
essere poi così tanto diverso dagli altri ragazzi.
Sono
un mago.
Strego
gli oggetti.
Sono
un lupo mannaro.
Uccido
le persone.
Cosa
sono, io?
Il
sorriso del
Mangiamorte era quanto di più ripugnante avesse mai visto.
Con la
coda dell'occhio lo vide alzare il braccio con il quale impugnava la
bacchetta.
Fra
due secondi sarò
morto.
Il
ghigno si contorse in
un'espressione di pura malvagità.
Un
solo secondo.
Un
solo respiro.
Le
sue labbra si stavano
schiudendo.
Ora.
«AVADA
KEDAVRA!».
Seduto
sul freddo
marciapiede che costeggiava le deliziose villette di Godric's Hollow,
Remus Lupin si rigirava la bacchetta fra le mani sottili, osservando
con sguardo perso un punto indistinto davanti a lui.
L'autunno
era ormai alle
porte: la nebbia andava infittendosi giorno dopo giorno e il vento
soffiava sempre più gelido. Quella sera, tuttavia, non
pareva in
grado di avvertire la brezza pungente, nonostante Indossasse una
semplice maglietta di cotone grigia – sfilata lungo i bordi,
ma
perfettamente linda.
Un
cadenzato e calmo
suono di passi alle proprie spalle lo distolse dall'incessante fluire
dei propri ragionamenti. Il suo udito – di un poco superiore
alla
norma – avrebbe riconosciuto quella lenta camminata fra mille.
Albus
Silente.
«Si
preannuncia una
notte tormentosa» affermò pacatamente la voce
dell'anziano mago. «E
anche tu mi sembri tormentato, Remus. Cosa ti angustia, se mi
è
concesso chiedere?».
Remus
rimase in silenzio
e deglutì faticosamente. Scosse il capo.
«Nulla,
signore».
Dietro
di lui, Silente
sorrise amaramente.
«Non
addossare altri
fardelli a quelli che già ti sei costretto a
portare» disse. «Non
avresti potuto fare diversamente; non colpevolizzarti più di
quanto
non sia necessario».
«Ho
ucciso un uomo!»
sbottò infine Remus, voltandosi e fissandolo angosciato.
«Come può
dire questo!?».
Silente
fece un profondo
respiro.
«Capisco
cosa stai
provando, Remus».
«No,
signore...» mormorò flebile lui, scuotendo debole
il capo. «Lei
non può
capire».
«Uccidere
è molto più
difficile di quanto appaia agli occhi di chi non l'ha mai
fatto»
parlò piano Silente, scrutandolo con intensità
disarmante. «Lascia
un segno indelebile che ognuno di noi sarà costretto a
portare fino
alla fine dei suoi giorni. I tempi si faranno sempre più
duri,
Remus. Le battaglie sempre più pericolose. In
virtù di ciò, resti
comunque libero di scegliere da te la strada che ti è
più
congeniale. Se preferirai allontanarti da tutto quello che la guerra
rappresenterebbe per te, non potrei che comprenderti. Se preferirai
restare per combattere tutto quello che la quella rappresenterebbe
per il mondo intero, non potrei che apprezzarti».
Remus
emise un lungo
sbuffo.
«Non
faccia leva sul
mio senso del dovere» disse. «Non ne vale la
pena».
«Al
contrario, Remus.
Non credo che ti renda conto del talento che possiedi».
«Uccidere
la gente?
Molto talentuoso, davvero» ribatté con un velo di
sprezzo.
«Professore, conosce meglio di me l'esecuzione di una
Maledizione
Senza Perdono».
Silente
non lo
interruppe.
«Bisogna
volerlo»
concluse Remus in un sussurro. «Bisogna desiderare
di
uccidere qualcuno. E se io ne sono stato in grado...»
lasciò cadere
la frase nel nulla, affondando la testa nelle mani.
Mani
sporche.
Assassino.
«Sai
chi era
quell'uomo, Remus?» domandò a bruciapelo Silente.
«Devlin
Wilkes»
rispose atono lui.
«Sì»
mormorò
stancamente l'altro. «Devlin Wilkes. Complessivamente, il
Ministero
presume che la sua collaborazione con Lord Voldemort abbia portato
alla morte di una quarantina di Babbani e alla tortura di almeno un
centinaio di loro» Silente si fermò un attimo.
«Ed era presente la
notte in cui vennero aggrediti i Bones».
Remus
trasalì,
stringendo gli occhi e serrando le labbra.
«Avrei
fatto giustizia, dunque? È questo che mi sta
dicendo?» rispose
debolmente. «Uccidere un assassino non è una
colpa? Professore,
io... io volevo
la
sua morte».
Gli
occhi azzurri di
Silente parvero trapassarlo da parte a parte.
«Tu
non sei come lui,(*)
Remus. Tu sei un giovane di grande coraggio, di notevole intelletto e
di ammirevole altruismo. Dovresti smetterla di convincerti di essere
un mostro».
«Ti
prego... ti
prego, va' via da me!».
Io
non sono un
mostro.
«Per
favore, non
farmi del male...».
Ho
ucciso un
assassino.
«AVADA
KEDAVRA!».
Cosa
sono, io?
«Cosa
farai, Remus, se
mi è permesso domandartelo?».
Remus
scosse il capo,
distratto.
«Non
lo so».
Forse,
non l'ho mai
saputo realmente.
In
effetti, ci sono
molte cose che non ho mai – mai – saputo realmente.
Cosa
sono, io?
Chinò
lo sguardo e
osservò le proprie mani, sfiorando con estrema lentezza una
sottile
cicatrice che attraversa l'intera larghezza del suo dorso sinistro.
«Hai
delle mani assurde, Moony».
Studiò
con calma
meticolosa ogni falange ed ogni nocca.
«Hai
ragione,
Padfoot. Moony, nemmeno una ragazza ha delle mani così
pulite e
curate. Bisognerà fare qualcosa, a riguardo».
Pulite?
Perché
continuava a
vederle sporche?
Cosa
sono, io?
___
(*)
Nel caso non fosse chiaro, Silente si riferisce a Fenrir Greyback.
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