If a dream becomes reality…

di Guitarist_Inside
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La custodia della mia chitarra in una mano e l’amplificatore nell’altra. Il freddo vento di un 18 novembre soffiava in direzione contraria a quella in cui procedevo io. Mi fermai, per abbottonarmi meglio il giubbotto e per far riposare qualche secondo le braccia affaticate dal camminare portando gli strumenti. Davanti a me vidi una ragazza: anche lei camminava controvento, e imprecava cercando inutilmente di levarsi i capelli dalla faccia e tenerli fermi, ma il vento aveva sempre la meglio con quei capelli imbizzarriti che continuavano a muoversi e ad appiccicarsi alla sua faccia pochi secondi dopo che lei li aveva appena cercati di sistemare. In un certo senso era una scena comica, e non potei fare a meno di sorridere, ringraziando di avere i capelli corti: il vento riusciva sì a scompigliarmeli più di quanto già non fossero, ma almeno avevo la visuale libera. Poi la ragazza girò l’angolo e non la vidi più. Raccolsi la chitarra e l’amplificatore e continuai a camminare, col vento che mi sferzava la faccia. A un certo punto svoltai in una strada di sinistra, poi a destra… In quella via il vento era meno forte, e potei aumentare l’andatura.
Continuai a camminare finché non raggiunsi il locale. Entrai. Il palco era già stato allestito e gli altri due chitarristi che si sarebbero esibiti erano arrivati. Li raggiunsi e appoggiai anch’io la chitarra e l’amplificatore in un angolo dietro al palco, con grande sollievo delle mie braccia… Salutai i due. Uno aveva grossomodo la mia età, l’altro qualche anno in più. Tirai fuori la chitarra dalla custodia per provare anch’io i pezzi che avrei suonato. Appena la vidi, mi sentii meglio, mi tornò l’energia e l’entusiasmo: aveva un potere speciale su di me quella chitarra, l’avevo sempre detto. La mia “Baby Billie Joe”, la mia Gibson Les Paul Junior Billie Joe Armstrong, di colore bianco: la chitarra che avevo tanto desiderato e che avevo aspettato pazientemente e testardamente per sei mesi e mezzo dall’ordinazione, che mi aveva accompagnato nei momenti difficili, che era stata al mio fianco anche in quelli belli facendomi esprimere la mia felicità… Me la misi a tracolla e iniziai a suonare.
Smettemmo tutti e tre alle 8; verso le 9 avremmo cominciato a suonare. Quella sera, infatti, quel locale di una via appartata del centro di Milano, aveva organizzato una serata in cui tre chitarristi (noi tre appunto), a turno, avrebbero suonato per circa un’ora a testa. Nonostante fosse in una via appartata, il locale era abbastanza ampio, il più ampio in cui avessi mai suonato da sola. Potevamo eseguire due o tre pezzi nostri e, per il resto, cover di band a nostra scelta. Iniziava a suonare il ragazzo della mia età, poi quello poco più grande, e infine io. Non mi dispiaceva avere l’ultimo turno, anzi... Comunque, come stavo dicendo prima, smettemmo di suonare verso le 8 e andammo a mangiare: il cibo era gratis, come le bevande, dato che suonavamo in quel pub. Ordinai una pizza e una birra. Ridemmo un po’ per sciogliere la tensione. Poi, arrivarono le 9. Nel locale c’era già un po’ di gente, e il primo chitarrista salì sul palco. Suonò per un’oretta, poi iniziò il secondo, con pezzi più sul metal. Verso le 11 finì anche lui. Toccava a me.





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