15
«Sei
sicuro che sia qui?»
Rebecca
fissava con sospetto l’ingresso del teatro. «A me sembra
che sia tutto chiuso...»
«No,
mi ha detto di venire proprio qui... anche se a questo punto sembra
strano anche a me».
Jean
lesse nuovamente la locandina che Sanson gli aveva mandato.
L’indirizzo era quello giusto, ma effettivamente il teatro
aveva l’aspetto di essere in disuso.
«Sì,
è il posto giusto. Guardate, c’è una locandina
con il nome dello spettacolo» fece Marie, euforica. Tutti si
radunarono intorno al cartellone sbiadito a cercare il nome di Sanson
Garrett, senza riuscire a trovarlo.
«Mah...
a me sembra che questa locandina risalga a quando hanno costruito il
teatro» fece Hanson scettico, grattandosi la grossa mascella
bovina. «Ma siamo sicuri? Non vorrei che a entrare lì
dentro incappassimo in qualche fantasma o che so...»
«Hanson,
sei davvero un idiota» disse Rebecca. «Andiamo, se il
posto è questo, è questo».
«Sì
ma non c’è nessuno» notò Nadia. «Come
facciamo con i biglietti?»
«Proviamo
a entrare. Magari qualcuno ci dirà qualcosa» fece Jean,
perplesso.
In
quel momento, un piccolo ometto tarchiato vestito in un lercio
completo gessato, sbucò da una porticina laterale, tutto
intento a pulirsi delle piccole e unticce mani grassocce sul bavero
della sua redingote. Fissò con noncuranza i presenti,
continuando a masticare, quindi si passò una mano a lisciare i
mustacchi sgualciti per poi sfregarsela sulla fronte lucida come una
boccia di vetro. Con pochi movimenti decisi, sollevò una
saracinesca che rivelò dietro di sé un’entrata
improbabile, ornata da un panno sdrucito che un tempo, forse molto
remoto, doveva essere di un colore che assomigliava vagamente alla
porpora.
«Se
siete qui per lavorare, siamo al completo» fece l’omino,
passandosi con noncuranza un’unghia tra i denti. Marie seguì
l’operazione con una smorfia nauseata.
«Anche
se tu... tu e tu... potreste andare bene» fece riferendosi a
Nadia, Alex e Rebecca. «Se volete, ho dei costumi da farvi
provare».
«Veramente...»
intervenne Jean.
«Tu
no. Non saprei che farti fare. Ma dì, ti sei visto?»
Jean
si guardò da capo a piedi.
«Senta...
– fece Jonathan».
«E
tu, men che meno. Ma da dove sbuchi, dal Circolo
Pickwick?»
Nadia
rise. Non si aspettava certo una citazione tanto dotta da un tipo del
genere. John la fulminò con lo sguardo, e lei soffocò
la propria ilarità.
«Veramente,
siamo qui per lo spettacolo» fece Alex con un sorriso. L’uomo
la fissò come se stesse aspettando qualcosa. «Come
spettatori...»
Con
un sonoro schiocco, lui estrasse il dito che si era ficcato in un
orecchio. Marie si lasciò scappare un verso di disgusto.
«Spettatori?
Ah, sì? E tutti quanti? Ma va!»
«È
una cosa così strana?» chiese Hanson.
«Beh...
veramente... ma che dico! Prego, prego: si accomodino. Sono otto
pence a biglietto, sette e mezzo per i bambini!»
«Alla
faccia dello sconto famiglia!» sussurrò Hanson a Jean,
rimediando un’occhiata torva da parte dell’ometto.
Presero
posto nella sala deserta. Le poltrone erano coperte da uno spesso
strato di polvere e quasi tutte presentavano strane macchie sul
rivestimento. Le fodere di velluto erano lise e strappate. Alcune
poltrone avevano solo lo scranno di legno, in altre i chiodi
spuntavano dal sedile. Si sistemarono verso il centro della sala. Le
file davanti a loro erano coperte da un telone su cui era depositato
uno strato di calcinacci. Hanson fissò preoccupato il
soffitto, dando di gomito a Jean.
«Sai,
ti ricordi di quel pazzoide in Germania che voleva far cadere il
teatro in testa agli spettatori? Beh, mi sa che qui poco ci manca...»
Jean
studiò il soffitto, su cui si allungavano parecchie crepe e
fenditure.
«“L’arte
è fatta per turbare e la scienza per rassicurare”...»
«E
tu, va al diavolo!» fece Hanson.
Alcune
altre persone fecero il loro ingresso in sala, sedendosi un po’
qui e un po’ là. Quindi, il sipario si alzò a
scatti, rivelando la scena.
Era
una scena piuttosto bella, a dir la verità. Restarono tutti
molto colpiti. Lo spettacolo che veniva rappresentato era il “Sogno
di una notte di mezza estate” di Shakespeare e la scenografia
consisteva in una foresta, con un grazioso gazebo in stile
neoclassico sullo sfondo, che si affacciava su di un laghetto di
ninfee. L’unico aspetto negativo, fu che non mutò per
tutto il corso della rappresentazione.
«Ma
siamo sicuri che ci sia? No perché...»
«Sst!
Eccolo!» fece Rebecca.
Sanson
apparve sulla scena truccato pesantemente e anche piuttosto
malamente. Recitò la sua battuta, senza lode né
infamia. Fu solo quando poco dopo riapparve con in testa un paio di
orecchie da asino che Hanson non ce la fece più. Non appena lo
vide, esplose in una fragorosa risata, e poco mancò che si
mettesse a rotolarsi sul sudicio pavimento di moquette.
Dal
palco, Sanson gli indirizzò un’occhiata feroce.
«Oh,
al diavolo! Ma devi proprio ridere così?» gridò,
nonostante si trovasse nel bel mezzo di una scena. Qualcuno del
pubblico si spazientì. Volò qualche fischio.
«Hanson,
maledizione! Mi hai rovinato lo spettacolo» ragliò
Sanson, tra l’imbarazzo generale.
«Ma
ti sei visto?» fece Hanson, con le lacrime agli occhi. «Sai,
ho sempre pensato che tu meritassi di trasformarti in quel somaro che
sei, ma mai avrei pensato di poter vedere i miei sogni diventare
realtà!»
Sanson
digrignò i denti. «Ah, è così? Aspetta
solo un attimo!»
Si
gettò giù dal palco, agguantando Hanson per il collo,
mentre dal pubblico si levavano ingiurie e grida. Qualcuno incitava
alla lotta. Jean cercò di dividere i due, ma tenere testa alla
forza di Sanson era impresa dura.
«Voi
due, smettetela» fece Rebecca, e immediatamente i due
contendenti smisero di lottare. Hanson si lisciò il vestito e
Sanson si sistemò la tunica, voltandogli le spalle.
«Insomma»
disse lei, al colmo dell’esasperazione. «Possibile che
sia sempre la solita storia? Non riuscirete mai a lasciarvi il
passato alle spalle?»
«Quel
ciuco mal riuscito deve ancora chiedermi scusa, a dir la verità!»
fece Hanson.
«Io
non mi devo scusare di niente. Non è colpa mia se la tua
ragazza era una dai facili costumi» obiettò Sanson. «La
prossima volta, cercatene una migliore».
Hanson
andò su tutte le furie. «Vicky era una brava ragazza,
prima che io commettessi l’errore di presentarle te, brutto
bestione».
«Ah!
Forse allora si annoiava solo con te...» ironizzò
Sanson. Solo l’intervento di Rebecca riuscì a dividerli,
poiché Hanson era già con le mani attorno al collo del
cugino.
«Ora
basta! Hanson: Sanson ti chiede scusa. Sanson: Hanson dice che ti
perdona se sei un idiota. Ora va meglio?»
Sanson
ci pensò su un attimo. Qualcosa non gli tornava, aveva
l’impressione che solo lui avesse chiesto scusa. E in più,
si era preso anche dell’idiota. Tuttavia, decise di passarci
sopra.
«Per
me, va bene. Qua la mano, cugino».
Hanson
lo fissò truce, ma poi si arrese e gli strinse la mano. «E
va bene. Pace».
Rebecca
tirò un sospiro di sollievo. «Alleluia! Allora, possiamo
finalmente parlare del perché siamo qui?»
Sanson
rivolse a Rebecca uno sguardo curioso. «Ma come, non eravate
venuti per vedermi recitare?»
«A
vedere te?» ghignò Rebecca, infilandosi i guanti. «Ma
vorrai scherzare? Piuttosto, ci devi sessantaquattro pence».
«Sessantatré
e cinquanta» la corresse Marie, che fissava Sanson con
simpatia. «Io pago cinquanta penny in meno!»
«Sessantaquattro
pence? Ma se io prendo una sterlina a spettacolo! Non mi resterà
nulla!»
«Ed
è un problema mio?» obiettò Rebecca. «Su,
andiamocene. Dobbiamo discutere di cose importanti».
«Aspettate
un momento» fece Sanson deciso. «Questo è il mio
mondo, la mia vita. Io voglio essere un attore».
«D’accordo,
e quando pensi di cominciare?» lo sfotté Hanson.
«Non
ti azzardare...»
«Ma
scusa, Sanson» intervenne Marie «se tu reciti qui, perché
sul cartellone non c’è il tuo nome?»
Sanson
agitò una mano. «Perché il cartellone è
quello dell’ultima recita che è stata fatta, ecco
perché. E da allora non è più stato cambiato».
«E
tra gli spettatori c’era per caso George Washington?»
fece Hanson, caustico.
«Sai
dove ti infilo quella tua ironia?» ringhiò Sanson in
risposta.
«Sanson!»
abbaiò Rebecca.
«Ok»
fece lui, tirando un respiro profondo. «Allora, sentiamo.
Perché siete qui?»
Jean
si fece avanti. «Stiamo per partire per una spedizione. Abbiamo
bisogno di un pilota e di un tiratore scelto».
«Oh,
oh!» fece Sanson, incrociando le braccia, con un sorriso
compiaciuto. Le orecchie da asino presero a vibrare sopra la sua
testa. «E così, ecco che rispunta fuori il vecchio
Sanson...»
«Ma
fammi il piacere» grugnì Hanson. «Se non fosse per
noi, quale alternativa avresti? Stare qui a saltellare come un
cretino su quel palco tarlato?»
Il
volto di Sanson arrossì violentemente ma poi, d'improvviso, si
sgonfiò come fosse un pallone forato.
«Sapete?
Avete ragione» fece, tirandosi via le orecchie da asino. «Ma
a chi voglio darla a bere... come attore sono negato».
«No,
non è vero» fece Marie. «A me sei piaciuto».
«È
vero» disse Nadia, con sincerità. «Non c’era
nessun paragone tra te e quel tipo che sembrava ubriaco, quello che è
finito nel proscenio alla fine del primo atto».
«Ah,
ma quello era davvero ubriaco».
«Oh...»
«Comunque,»
riprese Sanson «basta! Sono stanco di indossare abiti pulciosi
per questi spettatori pidocchiosi. Mi avete sentito?» fece lui
rivolgendosi a quelli del pubblico che ancora erano in sala. «Io
me ne vado».
Nessuno
rispose.
«Forse
qualcuno dovrebbe andare a controllare che quel poveretto in terza
fila respiri ancora» suggerì Alex.
«Ah,
nessun problema» disse Sanson. «Dunque: dov’è
che si va?»
«Siamo
diretti in sud America» disse Nadia.
«Fantastico»
fece lui, estatico. «Già mi vedo a prendere il sole su
spiagge dorate... esotiche bellezze che ballano solo per me...»
«Non
correre con la fantasia» interloquì Hanson. «La
nostra è una cosa seria. Quindi non metterti a fare il buffone
come tuo solito».
«Fidati
di me. Vi ho mai dato modo di dubitare delle mie capacità?»
Hanson
alzò gli occhi al cielo, in una preghiera silenziosa.
«Aspettatemi
fuori. Vado a cambiarmi e vi raggiungo. Tra poco il vecchio Sanson vi
traghetterà con mano ferma e sicura oltre le scure e profonde
acque dell’oceano.
«Per
favore» fece Hanson «qualcuno spieghi a quel cretino che
non si trova più su un palco, prima che ci spedisca tutti
sotto terra».
Nadia
sorrise. Era felice: tutti i suoi amici, vecchi e nuovi, si erano
riuniti. Mentre uscivano, si accorse che Jean la fissava curioso e
lei gli rivolse un cenno di intesa.
«Perché
ridi?» le chiese lui.
«Sono
felice. Ora ci siamo proprio tutti, come ai vecchi tempi».
Lui
annuì. «Già, è bello. Sono contento
anch’io».
«Vorrei
che fosse sempre tutto così... facile» disse,
osservandolo con complicità. «Non lo pensi anche tu?»
Jean
la guardò dritta negli occhi. Lei si voltò verso di
lui, offrendosi completamente alla sua vista. Gli sorrideva come un
tempo, un sorriso che, come allora, lui sapeva leggere come nessun
altro. E Nadia si lasciò abbracciare da quella consapevolezza.
«Non
vuoi proprio dirmi che cosa ti tormenta, né perché hai
deciso di partire per questo viaggio?» le chiese. «Non è
da te essere così...»
«Misteriosa?»
«No»
rise lui. «Quello lo sei sempre stata. È parte del tuo
fascino».
«Grazie»
fece lei allegra. E arrossì.
«Ti
trovo... ansiosa».
Lei
si incupì. «Forse. Mi ero dimenticata quanto tu mi
conoscessi».
«Ti
va di parlarne?»
Lei
lo fissò dolcemente. «Prima o poi. Ma ora... ora
preferisco essere felice. Almeno per un po’. Credi di riuscire
a capirmi?»
Lui
annuì. «Sì».
Con
un sorriso, lei gli posò la mano sul braccio e si allontanò,
lasciandolo solo a fissare la porta, da dietro la quale giungevano le
voci allegre degli altri.
La
sala era vuota: ormai le luci erano spente e il sipario era calato.
Il tipo solitario in terza fila aveva preso a russare.
Nell’aria
immota e pesante, resisteva l’eco delle ristate che provenivano
dall’esterno, come qualcosa di delicato, un profumo flebile e
dolcissimo che ricorda qualcuno che è appena andato via e che
ancora stenta a dissolversi. Jean lo aspirò, come per
ricordarsene una volta che fosse svanito.
E
così uscì, mentre anche l’ultima luce si spegneva
alle sue spalle.
|