Note dell'autrice:
per chi non conoscesse gli OAVs di Dragon Ball, Tapion e la Spada
Leggendaria sono di proprietà del suddetto autore, e fanno
parte del tredicesimo film intitolato “L'eroe del pianeta
Conuts”.
Irraggiungibile
I raggi solari si
stagliavano nel loro cammino con maestosità, illuminando e
scaldando un terso pomeriggio estivo, giocando con i colori che la
rigogliosa natura sfoggiava con vanità. Carezzevoli, si
riflettevano dispettosi contro il pregiato ed abbagliante metallo, che
deviò come un ostacolo il loro percorso, ferendo
così dei grandi e teneri occhi neri che si serrarono
all'istante.
Il proprietario di
quelle scure pupille indietreggiò bruscamente:
portò un avambraccio davanti alla fronte e,
distraendosi, cadde all'indietro, schivando di pura fortuna l'ennesimo
tentativo di vittoria da parte di quell'arma affilata. Atterrando
rumorosamente di sedere, il ragazzino, non poté fare a meno
che tornare a scrutare quei movimenti così freddi e
affascinati, ma tuttavia anche fatali.
La lama di fronte a
sé veniva infatti destreggiata da una mano inesperta ed
eccitata oltre ogni dire; le risa divertite assalivano continuamente la
tranquillità dell'ambiente come, oltretutto, facevano le
solite note di presunzione.
«Trunks, non
vale, io sto combattendo da solo!» fece notare con
disappunto, appesantendo il broncio, il piccolo Goten.
La suddetta arma si
piantò con prepotenza nel terreno, fra le gambe aperte del
Son, facendolo sobbalzare spaurito.
«Non fare il
bambino!» lo pungolò con la solita nota di innocua
superiorità l'altro: «Sono gli avversari
irraggiungibili che faranno di te un vero guerriero!»
continuò altisonante alzando con fierezza il mento.
Il moro dalla chioma
cespugliosa storse contrariato il naso all'insù.
«Questa
frase la dice sempre Vegeta quando ti mette al tappeto»
protestò, difendendosi, sottolineando la saggezza di
quell'affermazione spudoratamente rubata. «E poi tu non sei irraggiungibile!»
Gli occhi azzurri si
spostarono indispettiti verso il mezzo saiyan, che venne puntualmente
fulminato: «Non fa nulla!» sbottò
seccato il principe ereditario di casa «Non ti
intromettere!» lo sgridò poi, continuando ad
assumere atteggiamenti alquanto paterni.
Dandogli le spalle
tornò all'oggetto che la sua attenzione bramava ormai da
giorni: la pesante spada che aveva fra le mani era il sincero dono di
un amico che non avrebbe mai più rivisto. Alzando l'arma
dritta davanti a sé, che contrastava con la lontana sfera
incandescente regina del cielo, quel pensiero gli fece salire un'amara
nostalgia. Era stata la più bella e magica avventura,
nonché battaglia, che la sua breve vita aveva visto fino a
quel momento: dopo l'incubo di Majin Bu, e la perdita temporanea
dell'amato padre, il piccolo Trunks aveva un nuovo frammento di memoria
e, soprattutto, una speciale persona da portare stretta nel cuore.
Tapion, l'eroe del pianeta Conuts, non avrebbe fatto da meno.
Nel mentre, il giovane
Goten aveva approfittato di quei pochi e sognati istanti del perfido
amico per rialzarsi e sbattere distrattamente la polvere che la sua
tuta arancione aveva accantonato tra il tessuto perennemente
stropicciato. Non fece in tempo ad alzare il capo che, il Brief, gli
stava già puntando la spada acuminata alla gola:
«Forza, fatti sotto! Tanto non riuscirai mai a
battermi!» lo sfidò, con amichevole cinismo.
Quello, che ormai era
il suo avversario, digrignò i denti e trattenne le lacrime
capricciose, che tentavano in tutti i modi di sgorgare dolcemente sulle
guance paffute, e decise di stare nuovamente al gioco, più
per non deludere l'amico che per divertimento.
Fu così che
le urla, le risa, l'agitazione, la confusione e il bagliore dirompente
della Spada Leggendaria, si manifestarono nuovamente al grande giardino
della Capsule Corporetion; proprio come un'inaspettata e imponente
presenza che, con passo felpato, giunse supervisore riempendo l'aria
pacifica di un ancestrale carisma: occhi scuri come la pece,
più profondi della tenebra, si posarono vigili sull'oggetto
che più di ogni altra cosa, in quel mentre, attirava
l'attenzione visiva.
Come se fossero state
quelle di un corvo messaggero di sciagura, le pupille dell'uomo si
spostarono più volte nel seguire i movimenti agili del
piccolo dai capelli color glicine. Muoveva quella spada con una
fierezza che si poteva trasmettere da là dov'era, a venti
metri. Un ringhio aggressivo scappò via, veloce e furtivo,
dalle labbra appena socchiuse e i piedi ricominciarono a marciare
minacciosi.
Con agilità
il piccolo Goten schivò quella lama tagliente aggirando il
suo avversario che, pronto ad un nuovo e facile attacco si fece,
invece, prendere dall'infame distrazione, incrociando la figura alle
spalle dell'amico.
Fu un gesto veloce e
quasi invisibile che lo atterrò. Quel misero istante
condannò il tranello, la beffa, la pugnalata e... la
vergogna di finire al tappeto ai piedi di suo padre. Con occhi
sbarrati, che si insinuavano ingiustamente nella colpevolezza, Trunks
rimase a bocca aperta a fissare quello sguardo omicida, incapace di
proferire alcun suono oltre ad un sommesso: «C-Ciao
papà... Come stai?»
Era naturale come il
suo sarcasmo saliva in superficie nei momenti di letale imbarazzo che
il burbero padre pareva iniettargli; e come ogni volta, il piccolo,
sperava funzionasse. Ma il Principe dei Saiyan non si inteneriva con
nulla e questo, suo malgrado, lo sapeva con chiarezza.
«Cia-Ciao
Vegeta...» l'ospite imitò l'amico senza,
fortunatamente, essere degnato del minimo sguardo.
L'impressionante
silenzio, che sembrava improvvisamente esser calato sull'intera
atmosfera terrestre, venne rotto per la terza volta dal rumoroso
deglutire del giovane saiyan di casa. Il Principe, a braccia conserte,
alzò il sopracciglio destro in segno di rimprovero o,
peggio, di collera.
«Mettiti la
tuta e vieni subito ad allenarti» ordinò
irremovibile nel procinto di dileguarsi, ma l'ennesimo ringhio di
disapprovazione fuoriuscì roco e prepotente. «Hai
giocato fin troppo per oggi!» sbottò, con
un'arroganza molto più marcata della solita caratteriale, e
sparì come una pantera dagli aguzzi e velenosi artigli.
Trunks vide l'ombra di
suo padre congedarsi velocemente da sopra di sé. Prese il
respiro più lungo della sua vita, rilassò la
schiena tesa e finalmente si issò a sedere. Che figura,
pensò demoralizzato adagiando le mani fra le gambe aperte, a
contatto con il terreno umido.
Fin da quando il fiero
Principe dei Saiyan aveva iniziato ad allenare con una costanza
invidiabile il suo erede, quest'ultimo, era sempre stato suscettibile
riguardo all'opinione del suo amato maestro. Avrebbe voluto
dimostrargli sempre la sua forza, il suo coraggio. Voleva che il suo
impenetrabile orgoglio oscillasse e s'accendesse in una calda fiammella
ogni qual volta che lui fosse stato in azione. Desiderava con ardore
che il suo esempio di vita lo mostrasse come il suo piccolo grande
trofeo.
«Ma che gli
è preso?»
L'ingenua voce del
compagno di giochi interruppe bruscamente i suoi pensieri. Trunks
levò il viso, tornato ormai imbronciato, verso il moro.
«Nulla!»
sbottò, afferrando la spada che nello scontro era stata
gettata involontariamente in balia del manto erboso. «Non gli
è preso proprio nulla!» ripeté
più irritato di prima e, mentre strofinava delicatamente la
pregiata arma da riporre nell'apposito fodero, s'incamminò
svogliato verso il retro della grande cupola gialla, seguito
imperterrito dallo sguardo atterrito dell'amico.
«Ma sono
tutti nervosi, oggi?»
Aveva eseguito gli
ordini, aveva fatto tutto quello che voleva, e si sentiva uno stupido
burattino estratto dalla scatola nel momento del bisogno, mentre
cercava di schivare quei dannati colpi. A quel punto sarebbe stato
più ragionevole massacrare un sacco rinforzato da box,
piuttosto che uccidere suo figlio, no?
Avrebbe cercato appositamente lui un materiale in grado di reggere il
suo pesante allenamento, almeno per un paio d'ore, se era questo che
voleva fare. Almeno così avrebbe forse sfogato altrove
quell'improvviso nervosismo che gli stava procurando dei seri danni
all'anca destra.
Trunks
assestò con onore una brutta gomitata alla bocca dello
stomaco. Decise che non avrebbe mollato e che ce l'avrebbe messa tutta.
La sua tenacia non l'avrebbe abbandonato così facilmente:
avrebbe continuato, per ore e ore, incessantemente, mentre il suo umore
scivolava nell'oblio della freddezza, quella freddezza e quella
sensazione di abbattimento che non provava ormai da lungo tempo. Glielo
doveva ricordare che non era fatto di pasta frolla? Si era forse
dimenticato che nelle sue vene scorreva il suo stesso sangue?
Giammai, suo padre non
si scordava di chi erano i saiyan.
E allora
perché sembrava che lo trattasse addirittura con disprezzo?
Come un semplice terrestre?
Perché non lo stava allenando con la solita e costante
severità, dandogli consigli duri per affinare la sua
tecnica, ma sembrava che si stesse semplicemente sfogando?
Perché
papà?
L'ennesimo, amaro,
pugno lo lanciò all'indietro facendogli strisciare il sedere
sul duro e malridotto pavimento della camera gravitazionale; giunse
alla parete sbattendo bruscamente la schiena e rimase lì,
senza muovere un muscolo, a capo chino, ad ascoltare l'asprezza che gli
stava inondando il piccolo cuore.
Si sentiva pesante,
come se un grosso macigno si fosse appoggiato con poca delicatezza
sulle sue esili spalle. Il sudore, che a piccole gocce gli percorreva
flemmatico il viso, sembrava vibrare, come se anche lui avesse sentito
parte di quell'ira. Con il respiro affannato e la vista annebbiata,
Trunks, ruotò lentamente le pupille azzurre poggiandole con
timore sulle spalle dell'uomo che sostava a pochi metri da lui. Vide
l'aura dorata che lo avvolgeva dissiparsi lentamente, senza alcuna
fatica, senza alcun senso di sollievo apparente. Afferrando la
bottiglietta di acqua fresca, Vegeta, non proferì alcuna
parola, fino a che, dopo aver sorseggiato avidamente la fonte
rigeneratrice, s'incamminò con passo calmo e deciso verso
l'uscita.
Interdetto il
ragazzino rimase a fissarlo. Non gli avrebbe certo dato la
soddisfazione di fermarlo e implorarlo di confessare che cosa aveva
fatto per meritarsi questo! Pensò che non avrebbe fiatato,
mentre osservava con rancore quelle spalle allontanarsi sempre
più; no, non si sarebbe minimamente interessato.
Mancavano ormai pochi
passi alla sua meta: piccoli, semplici gesti, azioni, movimenti; e
sarebbe sparito oltre quella porta di spesso acciaio. Ancora pochi
istanti e la grande manopola avrebbe cigolato, avrebbe provocato un
rumore acuto, fastidioso, noioso e... straziante. Questioni di attimi e
quella mano che stava allungandosi verso l'unica via d'uscita sarebbe scappata. Freddi e
impellenti attimi che sembravano così immobili... o forse
era lui che avrebbe voluto che fossero immobili, o forse lui li avrebbe
voluti immobilizzare, o forse...
«Papà!»
Sembrava che il tempo
si fosse fermato, quel maledetto.
Il nemico più
irraggiungibile che possa esistere.
Il piccolo Trunks
prese un profondo respiro e, poggiando una mano alla parete, fece leva
sulle gambe tremanti per potersi alzare: Vegeta si era fermato. Aveva
interrotto il suo incedere. Ma non si era voltato. Il suo mutismo
voleva fargli intendere di spicciarsi a parlare e, anche se con timore,
il figlio non esitò.
«Papà...
perché sei arrabbiato...»
La mano
scivolò via dalla parete e i suoi piedi si mossero con
fatica di qualche passo. Il respiro soffocato era l'unico suono che
produceva, oltre alla sua voce di bambino.
«Non ho
forse combattuto come un vero guerriero? Fino... alla fine?»
chiese intonando la domanda inizialmente come una supplica per finire,
poi, in un tono più fermo e alto. Tanta era la
tensione albergante in quella stanza che la sua frase si sciolse
nell'aria come un insignificante eco. Il mezzo saiyan si
asciugò con un avambraccio la fronte madida di sudore e,
sperando in una risposta, serrò le palpebre, deglutendo.
Sarebbe arrivata, lui
aveva fiducia in suo padre, e gli avrebbe risposto... anche solo con un
grugnito o con una risposta negativa, ma l'uomo che viveva della sua
stessa aria avrebbe parlato, mugugnato, si sarebbe espresso, avrebbe
bofonchiato qualcosa di incomprensibile.
Lo sbattere della
porta d'acciaio diede vita ad un pianto silenzioso.
Era una calzatura
davvero graziosa, scelta con malizia, perfetta nei minimi dettagli e,
sicuramente, molto costosa. Delineata da una forma senza dubbio
elegante, decisa, di gran classe; una di quelle scarpe degna delle alti
passerelle. Veniva mossa di continuo: la punta arrotondata, infatti,
veniva picchiata in modo secco sul pavimento di parquet da un piede,
decisamente, in preda al nervosismo.
«Insomma»
la voce alta e ferma risuonò per l'intera, ampia, cucina.
«Mi volete dare una spiegazione?» scandì
ancora, questa volta, alzando il tono divenuto d'improvviso arrabbiato
e vibrante.
Minacciosi, gli occhi
cristallini, si spostarono prima su uno, poi sull'altro: «So
perfettamente che non siete sordi!» sbraitò ancora
la donna, con una certa ironia, incrociando le braccia sotto il seno
prosperoso. Doveva forse mimargliela quella domanda per far
sì che venisse recepita? Cos'è, erano anche
diventati scemi a suon di cazzotti?
Quello che aveva
davanti agli occhi era inconcepibile. Quella mattina si era alzata di
buon umore. Mancava poco al grande giorno e tutto doveva essere
perfetto. Perfetto e in gran segreto. E lui lo sapeva: era
al corrente di tutto, eppure... gliela aveva fatta un'altra volta.
«Vegeta...»
Bulma si alzò dalla sedia ritraendola bruscamente
all'indietro, appoggiò le mani ai fianchi e
iniziò a squadrare il compagno con maggiore scrupolo.
«Ti ha dato
di volta il cervello?!» urlò, infine.
«Mamma, non
è niente di gr...» provò ad
intromettersi il figlio che, a capo chino, fissava il piatto ricolmo di
pietanze senza provar il minimo languore.
La donna dai capelli
azzurri scostò per qualche istante lo sguardo, addolcendolo
automaticamente: «Tesoro, è una questione tra me e
tuo padre, non preoccuparti e finisci il tuo pranzo.»
mitragliò perentoria, sfoggiando un sorriso perfettamente
sostenuto.
Poi, posando
nuovamente lo sguardo sul Suo
Amato Principe delle Oscenità, il suo viso
perfetto tornò ad accigliarsi.
«Vegeta»
ricominciò adirata, socchiudendo gli occhi, per poi
sgranarli in quella che sua figlio chiamava l'Espressione Ammazzasette della
Mamma «Te lo ripeto per l'ultima volta: come hai
potuto conciare tuo figlio a quest'ignobile modo?!»
Aveva allungato un
braccio e indicato con l'indice tremante il suo povero bambino quando,
finalmente, le scure ed agghiaccianti pupille la degnarono della sua
presenza.
«Mi hai
seccato, Bulma» fu l'asciutta e insensibile risposta del
saiyan che, con assoluta disinvoltura, tornò a dedicarsi al
suo pasto.
Le braccia di Bulma
cascarono lungo i fianchi e la donna rimase per qualche secondo
interdetta, immobile, fissando con dannazione il compagno che si
ingozzava con veemenza di un enorme tacchino farcito. Le rosse labbra
si aprirono e si richiusero, boccheggianti, fino a che, preso un lungo
e profondo respiro, tornarono a spalancarsi: «Mi hai secc...
Come sarebbe a dire mi
hai seccato, razza di scimmione tracotante!»
esplose, accecata dalla furia e dall'indignazione «Stammi
bene a sentire, questo io non lo chiamo allenamento! Hai completamente
massacrato tuo figlio, te ne rendi conto?!»
continuò scandalizzata, ritornando ad additare il soggetto
del discorso che, suo malgrado, si fece ancora più piccolo
nella sedia.
Vegeta alzò
di scatto un sopracciglio e la fulminò con
un'occhiata nervosa, addentando selvaggiamente una coscia di tacchino e
strappandone volgarmente un boccone con i denti. Masticò la
tenera carne e la ingoiò rumorosamente. «Chiudi
quella bocca, o il cibo mi andrà di traverso continuando a
sentire il tuo starnazzare» sputò gelido,
ricominciando da dove si era interrotto.
«Cosa?»
strillò l'altra, un grumo di saliva attorcigliato in gola.
La donna si
lasciò cadere sulla sedia riavvicinandola con una mano,
puntò un gomito sul tavolo e si passò stancamente
una mano sulla fronte sudata, lasciandola poi scivolare delicatamente
fino allo zigomo, mentre pensava saggiamente d'immagazzinare il
più ossigeno possibile nei polmoni, inspirando ed espirando.
Intimò Trunks di andare in camera sua e una volta rimasti
soli si sporse truce verso Vegeta, che dal canto suo continuava
imperterrito a mangiare.
«Che
problemi hai?» pronunciò istericamente,
l'espressione visibilmente scioccata «E' successo qualcosa,
stai giurando rappresaglia, ti sei svegliato con una commozione
celebrale particolarmente efficace?» chiese scettica, la voce
più stridula del solito.
Prese a scrutare con
insistenza il volto teso del compagno con una devastante sensazione di
deja vù nel cuore: quel Vegeta era molto simile al Vegeta
che conobbe ai tempi del lontano Cell Game. Non si sbagliava
nell'affermarlo, da un po' di tempo a quella parte il burbero Principe
aveva preso man mano ad incupirsi, collerico, infastidito. Un orgoglio
ferito, un animo ferito. Non aveva assolutamente idea di cosa l'avesse
fatto regredire così all'improvviso, ma si era chiuso a
riccio, con un piccolissimo e quasi impercettibile barlume di
afflizione negli occhi scuri, un segnale d'allarme che solo lei poteva
individuare.
Era successo qualcosa,
e quel qualcosa l'aveva offeso.
«Senti,
Vegeta» intavolò con risoluzione, facendo appello
a tutto l'autocontrollo di cui poteva disporre, come se stesse parlando
con un bambino particolarmente intestardito nel manifestare i suoi
capricci «Questo sabato nostro figlio compirà nove
anni e ci sarà una grandiosa festa a sorpresa in suo onore,
con tutti i nostri più cari amici, te l'avevo
detto» spiegò falsamente sorniona «Come
mi devo giustificare quando vedranno il meraviglioso aspetto che hai
deciso di conferirgli per l'occasione?» chiese infine, una
punta di sarcasmo mista a irritazione nella voce cristallina.
«Non sono
problemi miei» affermò mestamente il saiyan,
trangugiando avidamente un bicchiere di vino rosso.
Quella frase l'aveva
sentita così infinite volte che ormai non si dava nemmeno
più la pena di coglierla: le rimbalzava addosso,
semplicemente.
«Sono precisamente
problemi tuoi» ribatté bellicosa
«L'unica persona in grado smontare e rimontare al contrario
il viso di tuo figlio sei tu!» ricominciò a
sbraitare e, nella foga, sbatté inconsapevolmente un palmo
al centro del rotondo tavolo di legno, provocando un leggero tremolio.
«Quel
moccioso si sta rammollendo, non fa altro che giocare e bighellonare in
giro con quell'espressione beota stampata in volto!»
proclamò allora l'efferato interlocutore, alzando
definitivamente lo sguardo infuocato dal piatto, per puntarlo con astio
nei grandi occhi accusatori della compagna «E' solo colpa
sua, e quindi sono problemi suoi,
se non riesce più a starmi dietro
nell'allenamento» decise infine stringendo i pugni, la voce
autoritaria che cercava di nascondere dietro una certa dose
d'indifferenza il tono irato e contrariato.
«E' un
bambino!» strillò esasperata la donna, riprendendo
a sudare nell'agitazione «Pensavo ci fossimo chiariti, anni e
anni fa, peraltro, riguardo a questo punto: Trunks è un
bambino! E non perché è tuo figlio gli si deve
togliere il diritto di giocare come tutti i bambini della sua
età fanno!» scacciò seccamente una
ciocca di capelli azzurri che le solleticava la fronte contratta.
«Avevamo fatto un patto, mio caro: giusti spazi e
assolutamente no
agli allenamenti pericolosi!» ricordò infine con
accusa, puntando un indice al soffitto.
«Che io
sappia, il fatto che debba rincitrullirsi giorno dopo giorno con quella
dannatissima spada e quel perfetto cretino del figlio di Kakaroth
appresso, doveva avere un certo limite, mia cara»
fece con intimidazione, masticando l'appellativo appena rivoltole
contro con una profonda derisione, che scivolò naturalmente
oltre le labbra seriche, un ghignò sghembo a sfregiargli il
volto mascolino. «I tuoi diavolo di “giusti
spazi” non vengono più rispettati da mesi, grazie
a quel ridicolo
giocattolo che gli hai permesso di maneggiare, e Trunks
trascura sempre più gli allenamenti. E' bene che quella
pellaccia si irrobustisca, non accetto che batti la fiacca solo
perché stiamo attraversando un periodo di pace»
Così dicendo si alzò in piedi, allontanandola di
qualche passo.
Bulma, che stava per
controbattere acidamente di come quella fosse solo una delle sue
stupidissime scuse, si bloccò d'impulso e, con un lampo ad
attraversarle la mente, spalancò gli occhi. Rimase
completamente sbigottita difronte alle larghe spalle del marito e alle
sue parole. Che si lamentasse di Goten era perfettamente naturale; di
norma, il figlio dell'eterno nemico troppo affezionato al proprio, era
fastidioso quanto un aculeo che, intermittente, gli punzecchiava un
fianco. Ma aveva imparato ad accettare che Trunks lo frequentasse, col
tempo, e perfino a sopportare la sua vista senza avere il morboso
impulso di afferrarlo per la collottola e lanciarlo fuori dalla
finestra ogni volta che il visino arzillo del bambino sopraggiungeva in
casa Brief.
Quel vivo disprezzo
nei confronti della Spada Leggendaria era invece del tutto nuovo:
l'arma che fu un tempo destreggiata da un eroe appartenente a un
pianeta lontano, un ragazzo il cui animo era stato oscurato dalle
peripezie che il lungo cammino gli aveva imposto. Un giovane uomo
tuttavia intriso da un'indole gentile, da princìpi
onorevoli, una figura sprezzante del pericolo, forte, impavida.
Trunks fu attirato da
Tapion nel momento stesso in cui i suoi occhi incrociarono quelli
ardimentosi dell'alieno e, da quel momento in poi, il bambino non si
era più staccato da lui: se non c'era, andava caparbio alla
sua ricerca fino a raggiungere gli angoli più remoti della
città, pur di trovarlo; e se c'era, il piccolo Brief
diveniva tutto un fascio di pura elettricità. I due erano
inseparabili tanto che, una sera, Tapion l'aveva addirittura
accompagnato in camera sua, prima del riposo notturno. E Trunks lo
guardava, lo guardava continuamente con i suoi grandi occhi di bambino
che si allargavano rapiti, illuminati, sognanti, completamente ammirati.
Lo guardava come un
idolo.
Esattamente come
guardava suo padre.
«Quindi...»
mormorò stupefatta, senza saper se credere o meno a quello
che stava per dire «... sarebbe questo, il
problema?» borbottò, la voce fino a qualche
istante prima alta ed echeggiante, ora ridotta a un sussurro strozzato.
Il saiyan si
voltò incerto «Cosa sarebbe questo?»
sfiatò duro, facendosi subito serio, come se avesse intuito
quello strano luccichio negli occhi della moglie.
Bulma
rilassò il viso e, abbassando il capo, passò
pensosa le dita della mano tra la chioma sbarazzina; assunse
un'espressione seria e tornò finalmente a posare le iridi
chiare sul volto del suo uomo.
«Vegeta»
iniziò con voce controllata «Hai esagerato. Trunks
è terribilmente mortificato, chissà cosa gli
starà passando per la testa, in questo momento...»
sfociò in un moto di dispiacere che quasi le fece salire le
lacrime agli occhi. Si alzò a sua volta e, aggirando il
tavolo, accorciò di qualche passo la distanza che c'era fra
loro.
Aprì il
volto in un sorriso commosso: «Tuo figlio ti ama
immensamente!» proclamò, semplicemente, allargando
le braccia, per poi tornare ad unirle davanti al ventre.
Anticipò il saiyan e continuò a parlare, prima
ch'egli potesse investirla con la serie di imprecazioni che
già stavano per fuoriuscire pronte da quella bocca audace.
«Per Trunks
tu sei l'uomo più forte dell'intero universo. Sei l'uomo
più forte e non solo in combattimento, ma in ogni
più piccola cosa. Tu, per lui, sei tutto il mondo e l'intero
universo. Sei tutto quello che vorrebbe essere... tu sei il suo
esempio, la sua giuda, il suo
sogno! Per Trunks, suo padre è la persona
più irraggiungibile e al contempo la persona a cui si
vorrebbe avvicinare molto più di ogni altra!»
Parlava trasportata da
una profonda commozione, le parole le scivolavano calde e sicure oltre
la lingua, insorgevano dentro di sé limpide, naturali.
Vegeta era l'uomo che
le aveva cambiato la vita, per sempre. Giunto per la prima volta sulla
Terra, ad ogni passo che aveva compiuto, aveva lasciato cadere
lentamente dai palmi delle mani nient'altro che terrore e disperazione.
Sentimenti barbari e inumani, erano ciò che offriva con
spietatezza e divertimento, erano ciò di cui era fatto.
Un'anima oscura, sporca, talmente orgogliosa, viva, che sembrava non
poter essere contenuta in un unico corpo. Era un uomo crudele, che
reggeva con fierezza l'unica cosa che aveva: lui stesso. E gli bastava,
lui non aveva mai voluto avere altro che sé stesso.
In quelle stesse
sporche mani, anni dopo, Bulma vi aveva adagiato il suo cuore. Anche se
lui non lo voleva e anche se lei sapeva perfettamente che non avrebbe
fatto altro che gettarlo via, non aveva potuto far altro che compiere
quel gesto: era inevitabile. Bulma non aveva potuto fermarsi, i suoi
sentimenti si erano fatti inarrestabili, come la lava che copiosamente
scende lungo il vulcano. E così era stata a guardarlo mentre
sbatteva quel cuore lontano, nell'angolo più lontano della
stanza, e lì abbandonarlo.
Dopodiché
era venuto il tempo dell'attesa. Un'interminabile attesa dedicata a
quel suo irraggiungibile amore. Un'ulteriore, piccolo, cuore era stato
offerto al Principe dei Saiyan, ma lui non aveva voluto nemmeno
sfiorarlo e l'aveva lasciato cadere, nel momento stesso in cui gli era
stato allungato, al centro della stanza.
Poi, un giorno, Vegeta
aveva silenziosamente messo un piede dietro l'altro, con circospezione,
senza farsi cogliere da occhi indiscreti. Aveva raccolto quel cuore che
aveva gettato e l'aveva portato al centro di quella stanza, deponendolo
affianco all'altro. E si era seduto sulla stessa superficie, poco
lontano da loro.
Infine,
arrivò il giorno in cui Vegeta si strappò
violentemente il cuore dal petto per donarlo interamente a Bulma e al
suo unico figlio, Trunks. Il giorno i cui il Principe dei Saiyan si
rese conto che, ora, la sua anima era contenuta un po' in sé
stesso, un po' in Bulma e un po' in Trunks.
«In questo
momento sta morendo di paura» continuò il suo
discorso, reggendo quegli occhi scuri che la fissavano contrariati da
quell'improvviso scorrere di sentimenti «Sarebbe la fine del
mondo, per Trunks, se tu non lo considerassi. Stroncheresti il suo
obiettivo e...»
«Adesso
piantala!» sbottò astioso, digrignando i denti e
stringendo i pugni, il fiato corto e il nervosismo che scorreva avanti
e indietro percorrendo ogni capillare del suo corpo. «Non ho
intenzione di continuare a dover sentire il tuo vagheggiare, stupida donna!»
l'ammonì, truce, le diede frettolosamente le spalle e
s'incamminò spedito verso l'uscita che dava sul giardino.
Era da parecchio che
non la chiamava a quel modo, subito pensò, la stupida donna.
Sapeva che Vegeta stava per uscire e spiccare il volo. Sapeva anche
ch'egli era già da tempo cosciente di tutto ciò
che gli aveva appena detto, ma andava bene così. Era
indispettito perché geloso delle attenzioni di suo figlio.
Lui era terribilmente possessivo nei confronti di tutto ciò
che gli apparteneva, di natura, e ora che loro avevano finalmente
ricevuto il suo cuore, lo era diventato ancor di più. E
questo Bulma lo adorava, perché era una delle poche
manifestazioni dell'amore che quel burbero e tracotante Principe dei
Saiyan provava per loro.
Solo per loro.
Tanto da arrivare a
donare la propria vita.
Lo adorava, anche se a
volte faceva male, ma Vegeta era Vegeta, non lo si poteva cambiare. E
nonostante tutto, loro non lo avrebbero cambiato per nessuno al mondo.
Sfrecciava a
supervelocità in alto nel cielo, facendo dissipare ogni
candida nuvola che attraversava con la forza abbacinante dell'aura che
gli avvolgeva l'intero corpo. Teneva le braccia nerborute piegate su
sé stesse, i pugni chiusi in una morsa tale che poteva
spappolare con estrema facilità una testa umana. La fronte
spaziosa era divisa da una profonda ruga, le scure sopracciglia
corrugate donavano al volto fiero un'aria stizzosa, gli angoli della
bocca erano inclinati verso il basso.
Gli occhi di Vegeta
apparivano turbati, concentrati, come se il saiyan fosse
particolarmente coinvolto dal turbine di pensieri che gli affollavano
la mente. Esprimevano fastidio, rabbia, preoccupazione.
Un ringhiò
salì roco dalla gola dell'uomo che strinse con maggiore
forza i pugni, e la mascella si serrò, mentre d'improvviso
l'andatura già veloce, venne aumentata tanto che la figura
del suo corpo parve smaterializzarsi.
Quando scorse
l'imponente cupola della Capsule Corporetion, planò in sua
direzione, lasciandosi spingere verso il basso dalla forza di
gravità, e atterrò nel giardino di casa, come al
solito perfettamente curato e pulito. Evitò con assoluta
indifferenza i vari sguardi e saluti che gli invitati a cui passava
vicino, nel suo veloce incedere, gli porgevano e continuò ad
arrancare con passo pesante, voltando il capo da una parte all'altra,
alla ricerca di qualcuno.
Nel momento in cui lo
vide, egli vide lui. Trunks stava in piedi accanto alla lunga tavolata
allestita in giardino per il buffet, reggeva fra le braccia un pacco
molto grande, che non riusciva ad avvolgere completamente con le sue
braccia di bambino.
Vegeta si
bloccò, fissandolo con il suo sguardo severo, mentre quello
già gli stava andando in incontro, correndo leggermente.
«Papà!»
lo chiamò, arrestandosi a qualche passo da lui e levando il
capo per guardarlo negli occhi. Il lividi sul volto erano ancora
freschi, gonfi, ma il bambino non pareva curarsene.
Il saiyan
puntò a sua volta le pupille scure in quelle limpide del
figlioletto e rimase così, per qualche interminabile
secondo, in silenzio. E per la prima volta nella sua vita si diede
francamente dell'idiota.
Poi, socchiuse appena
le labbra e così come aveva fatto le richiuse,
voltò di scattò il viso imbronciato, guardando
altrove, e mugugnò qualcosa d'incomprensibile che il piccolo
Trunks non capì minimamente; infatti il figlio
allargò gli occhi e chiese che cosa avesse appena detto.
«Auguri!»
sbottò, allora, Vegeta, il tono più alto e
aggressivo di quel che avrebbe voluto e il sangue che gli saliva
velocemente verso le tempie, in un principio di collera.
Ma quell'ira si spense
sul nascere, persa in quell'incredibile sorriso, che vide non appena si
voltò, richiamato dalla dolce e spensierata risata del
piccolo.
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