PREMESSA
Ebbene.
Questo è un canto di dolore.
Ho impiegato molto tempo a finirlo, ma poi
è giunto un inaspettato aiuto.
Credo che andrebbe anche danzato.
ὕμνος
(Ymnos)
Ah.
Così, quello era
Mu.
Doko
gli offrì un sorriso confortante, e intanto che era caldo, anche del tè verde.
Non ebbe difficoltà ad immaginare il motivo di quello sguardo sfuggente e
vagamente attonito da cui si sentiva sfiorato per un istante, di tanto in
tanto, con furtiva prudenza.
Se Sion gli aveva
mai parlato di lui – e l’aveva fatto, ne era certo – doveva averlo descritto in
ben altri termini. Badare a cose come il tempo che scorre e solca volti e corpi
indistintamente, così come fa con i sassi nel letto di un fiume non sarebbe
stato da lui. Era il Cavaliere di Libra che l’aveva lasciato per la Cina
pochissimi anni or sono che ricordava, e quello aveva raccontato a Mu, con
quella sua cocciuta sicurezza che la sua troppa perspicacia aveva reso
nostalgica fin quasi alla disperazione.
Sion lo stava
scrutando, attraverso quegli occhi candidi, riempiendolo per un momento della
gioia incontenibile di rivederlo.
Ma non era tempo.
Se Mu, se l’unico
allievo di Sion si era mosso dal suo prudente rifugio per venire fin lì, sulle
cascate tinte di verde del Goro Ho, significava una cosa soltanto: guerra.
Ma Doko aveva fatto
pace con la pace, nei lunghi giorni, che erano diventati mesi, ed anni, e
infine vuote parole che indicavano suddivisioni che avevano perso di
significato, con la sola compagnia, e compagnia era davvero, dell’acqua scintillante
che sciabordava allegramente sotto al suo sguardo disteso eppure mai distratto.
Pensò che non aveva mai visto un ambasciatore di sciagura con due occhi tanto
grandi e puri, e una freschezza nel volto che può esser figlia soltanto di
saggezza, e del sole di montagna.
Mu gli disse
qualcosa.
Parlava in modo
completamente diverso da Sion, ma corrucciava la fronte nella stessa sua
maniera. E Doko era vecchio abbastanza da concedersi il lusso di non prestargli
troppo ascolto, per regalarsi invece il piacere di indagarlo. Avrebbe voluto
chiedere a Sion, con viva curiosità, come mai non avesse aspettato qualche anno
ancora, per proclamare lui suo successore. Non era perché l’attesa gli avrebbe
salvato la vita, forse, tutt’altro: Sion era impaziente, ma non avventato; se
aveva detto Aiolos, era perché Aiolos avrebbe dovuto essere, tutto lì. Però Mu
era così evidentemente adatto al ruolo. Come il Sommo Sage prima di lui, così
dopo avrebbe potuto essere un discendente della sua razza ad indossare il venerabile
elmo.
Oh, non gli era mai
piaciuto considerare Sion in termini di razza. Si era sempre fatto scrupolo di
farlo sentire inferiore, con una definizione del genere, covando intanto la
paura di vederlo anzi superiore. Per virtù, per forza, per bellezza soprattutto.
E non si poteva negare: ricordava nitidamente il Sommo Sage, come anche il suo
venerabile gemello, due figure piene di maestà; e Mu era bellissimo, bellissimo
davvero, come i primi fiocchi di neve sulle rocce luccicanti della cascata.
Quanto a Sion, poi, si era sempre divertito ad uccidergli il fiato nei polmoni
con quelle sue labbra da cui era capace di stare ad ascoltare per ore parole
d’amore, di saggezza, oppure enormi sciocchezze.
Quelle sue labbra,
sì.
Era pericoloso
chiedersi che cosa sarebbe stato disposto a dare per poterle sfiorare ancora
una volta, anche una soltanto.
C’era da
combattere, gli stava dicendo Mu. Lui socchiuse serenamente gli occhi, provando
un po’ di nostalgia per la furia tossica dello scontro. Strinse fra le mani la
sua povera coppa di legno colma di tè, mostrandole al suo ospite mentre beveva,
come a dirgli “guarda, come pretendi che combatta con queste dita scheletriche
e fiacche?”.
Mu dovette aver
compreso, perché si zittì, imbarazzato. A Doko dispiacque di non poterlo
rassicurare sulla sua reale potenza, ma scoprire le sue carte con qualcuno che
si accingeva a far ritorno al covo del nemico era un rischio troppo grande.
Ora che il giorno
dello scontro si avvicinava nuovamente, che Aiòn compiva il suo corso e del
serpente infinito si intravedeva di nuovo la testa, Doko fu sfiorato da un
debole dubbio.
Per quale motivo
era rimasto, allora, a vegliare su quei sigilli che si sarebbero spezzati da
soli?
E a che scopo Sion
era, era…?
Aveva certo fatto
buona guardia affinché nulla risvegliasse il temibile nemico prima del tempo,
ma mai nessuno era venuto ad attentare alla calma sua e a quella di chi
riposava lì inerme.
Era dunque stato
tutto inutile?
Adesso che né lui,
né Athena stessa avrebbero potuto far nulla per impedire la catastrofe, niente
gli sembrava più vacuo che restare seduto lì con gli occhi fissi sulle ultime,
sbiadite lettere che scolorivano sulla pergamena dei sigilli, macera quanto il
suo corpo.
Il tempo che aveva
gettato ad infrangersi contro le pareti immobili che aveva dovuto custodire,
avrebbe potuto spenderlo fra le braccia di chi gli era più caro, invecchiando
per davvero e più in fretta, magari, ma circondato da sorrisi e gioie?
Domande di un
vecchio.
Era ancora troppo
presto, e di ben altra guerra stava parlando Mu, fremendo non senza vergogna.
A questa guerra di
vendetta Doko non avrebbe partecipato. Non nominalmente, ché era sua
prerogativa mantenere gli equilibri il più possibile intatti e non lasciarsi
andare alle pulsioni personali. Mu poteva farlo, era giovane ed apparteneva al
fuoco. Shiryu sarebbe stato un degno delegato, di questo era sicuro.
Vendicare Sion.
Oh, sì.
Stringere le dita
attorno alla gola di quell’impostore disgraziato – stringerle con tutta la sua
sopita forza autentica – e ruggire “che cos’hai fatto, che cos’hai fatto,
pazzo, sciagurato, assassino”.
E poi, stare a
guardare la sua agonia senza muovere un muscolo, senza lasciarsi andare ad un
fremito delle sopracciglia. Strozzarlo, come non si farebbe nemmeno con un cane
rognoso. Assaporare il piacere stridente dell’ira che si libera nella vendetta,
godere dell’espressione attonita del traditore morente, sputare sulle sue
labbra tese e sempre più bluastre improperi che raggelerebbero gli dèi.
Fantasticherie, lo
sapeva bene; sapeva anche che Saga era per davvero un povero disgraziato a cui
si faceva una gran fatica ad addossare delle colpe.
E da quando la
vendetta era un comportamento degno di un Cavaliere della Speranza?
Dettagli, cavilli,
quisquilie.
La verità era che
lui riusciva a sentire molto bene il rumoreggiare sotterraneo della roccia,
mentre tutti gli altri se ne stavano a starnazzare su chi avesse tradito chi.
C’era una dea da rimettere sul trono, una dea che, per fortuna, quel trono lo
voleva, e poi c’era una nuova Guerra Sacra a cui prepararsi.
Ma combatterla
senza Sion non aveva più alcun senso.
Tornò a guardare
Mu, che ricambiava il suo sguardo sbattendo rapidamente le ciglia.
Evidentemente doveva essere in attesa della risposta ad una qualche domanda che
Doko non aveva sentito, e qualcosa gli diede la vertiginosa certezza, per un
attimo, che di lì a poco si sarebbe spazientito.
Questione di
istanti, e Sion avrebbe preso il suo posto. Con il suo indice affusolato lo
avrebbe puntato. “Ma mi ascolti o no?” avrebbe detto in tono accusatorio. “Posso
avere la tua attenzione, o pensi di continuare a fissare la cascata?”
E sarebbe andato
avanti ancora, e ancora, a rimproverarlo sorridendo via via sempre più, e alla
fine incassando il suo mormorio di scuse con un broncio prezioso che non voleva
dire niente, ma che stava così bene sul viso elegantissimo.
- Venerabile
Maestro. –
L’impressione era
già svanita, e lui non si era alterato. Incredibilmente, pareva che avesse
ereditato da lui la pazienza che non aveva mai potuto insegnargli.
- Concedetemi la
vostra forza d’animo, perché temo che la mia rabbia possa avere il sopravvento
sul mio senso del dovere. –
Oh, Sion. Oh anima
mia violata.
Oh stella, oh sacro.
Oh Sion, Sion. Puoi
sentire le parole del tuo adorato allievo?
- Sì. È con te, la
mia forza. –
Uccelli che cantano
come violini al tramonto, sui riverberi di passato che poi, nulla sono, nel
nulla cadono.
È quel dolore che
ti fa chiudere gli occhi fino a quando il mondo non diviene una fessura che
scintilla delle tue stesse lacrime.
E allora, che cosa
fai.
Ti bevi l’esistenza
e trovi che sappia d’albicocca.
Oh Sion, Sion che
sei mio, Sion che sei morto.
Sion che sei un
ciliegio in fiore.
Sion che canti come
i violini del tramonto.
Quanto amore,
quanto.
Da piangerci, da
impazzirci, da morire.
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