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L’aeroporto di Seattle era
stato colpito da una nevicata piuttosto
intensa, considerato il periodo dell’anno. Era solo fine novembre, eppure la
neve aveva già bloccato la città un paio di volte. I ritardi dei voli furono
inevitabili, e così anche noi arrivammo a destinazione sei ore e mezzo dopo
rispetto al previsto. Ci fermammo a noleggiare un’auto e a chiamare mia madre:
ci aspettavano tutti. Osservavo i paesaggi tanto noti e mi chiedevo cosa fosse
cambiato. Ero talmente sicura di non essere più la stessa persona da non poter
nemmeno credere che Benjamin stesse ancora lì con me.
-Grazie per essere venuto-
dissi, mentre leggevo il giornale del giorno prima, distratta e annoiata dalle
notizie sempre simili a se stesse.
-Eh?-
-Voglio dire, io lo sapevo che
tu non volevi ritornare qui-. Chiusi definitivamente il giornale. Lui mi guardò di sbieco, con quei suoi grandi
occhi scuri, più inquieti che mai. Rimase un po’ lì a guardarmi e rise.
-Però ci sei voluta venire
comunque!-
-Bè, dovevo farlo- risposi
piccata.
-Giusto. Renesmee e il senso
del dovere, un’inscindibile connubio-. Anche io sorrisi, perché effettivamente
c’era dell’ironia.
-Dai, mi voglio impegnare-
-Lo so- sospirò –dobbiamo
cercare di essere civili-. Sbuffava irrequieto, guardandosi attorno. Proprio
non voleva tornare, ma ero convinta che fosse meglio per tutti e due.
-Fidati, vedrai che non sarà
male. Potremo tornare a scuola…-dissi con poca convinzione.
-Ecco, adesso mi hai
convinto. Ma come diavolo non ti è venuto in mente di dirmelo prima, che d’ora
in poi potremo fingere di essere degli adolescenti complessati e asociali!-
-Ma no, io dico, diciamo che
la cosa mi aiuta. Ho bisogno di un momento di normalità, così, per conciliarmi
un po’..-
-E poi ti manca casa-, disse,
voltandosi a guardarmi negli occhi. Era ritornato serio.
-e poi mi manca casa- ammisi
sottovoce, come una sconfitta. Era una sconfitta, in effetti, e anche bella
grossa.
-Guarda che anche io lo
sapevo già che ti mancava casa-, mi sorrise.
-Potevamo anche dirci tutto
prima, allora- sbuffai, più divertita che infastidita dalle nostre rivelazioni
paradossali.
-Certo, ma sarebbe stato
semplice. E a noi piacciono le cose complicate-. Sorrise di nuovo, ammiccante.
-Lo hai notato anche tu?-,
dissi, mettendomi gli occhiali da sole di Ben. Non c’era il sole, ma era la
stessa cosa.
-Sì, però se ci fai caso, io
sono una persona molto semplice, quindi tutte le complicazione in realtà le
porti tu-
-Mmm-. Mi allungai sul comodo
sedile della monovolume, e cercai qualche stazione radio decente. Non avevo cd
miei, su quella macchina anonima e un po’ triste, come una camera d’albergo.
-Okay, era un sì- ridacchiò
soddisfatto.
-E stai zitto un po’!-
La sensazione della sua mano
che mi carezzava i capelli, leggera come non mai. Me la portai alle labbra.
-Manca molto?-
-Boh-
-Per te è un problema che mi
manchi casa?-. lo guardai di sottecchi, da sotto gli occhiali scuri. Si strinse
nelle spalle, come faceva sempre quando doveva darmi un parere.
-Dipende- disse alla fine- da
chi ti manca. Ma in generale lo capisco: anche io se avessi una famiglia vorrei
rivederla, credo-.
-Non è lui che mi manca, stai
tranquillo. E non devi vergognarti di essere geloso-
-Tu mi psicanalizzi, e la
cosa ti diverte-
-Nah. La cosa mi affascina-.
Gli feci una linguaccia, e ricevetti in risposta una tirata di orecchie. Ma
decisi di piantarla, visto che non era proprio il caso di finire fuori di
strada con la macchina appena presa a nolo.
Il viaggio durava parecchio a
causa della neve, che aveva riempito le strade di una poltiglia gelata grigio
marrone che ci impediva di superare con successo le sessanta miglia orarie, e
io mi addormentai un paio di volte. Verso sera cominciarono a comparire
cartelli stradali in direzione di Bremerton.
Bremerton era la nostra nuova
città, dopo Forks. Per ovvi motivi molti della famiglia avevano lasciato Forks
prima di me, come Carlisle ed Esme, che avrebbero dovuto dimostrare dieci anni
più della loro apparente età, e che già cinque anni fa, per i bravi abitanti di
Forks, si erano ritirati nel Maine perché il dottore aveva deciso di
trasferirsi nella casa natia, da poco lasciata vuota a causa della morte del
padre. La tristezza della circostanza mise a tacere le chiacchiere. Poi fu il
momento di Jasper e Alice, entrambi vincitori di una borsa di studio alla
facoltà di fisica dell’università di Cambridge, Inghilterra, seguiti l’anno
successivo dai novelli sposi Rosalie ed Emmett, che decisero di trasferirsi ad
Augusta, nel Maine, per vivere a meno di quattro ore di fuso orario dai
genitori adottivi. Fino a che non rimanemmo solo io e i miei genitori, nella
piccola casetta perfetta. Ma anche il loro aspetto divenne presto un problema,
fino a quando anche noi ci trasferimmo nel Maine. Soffrii il distacco da mio
nonno, e Jacob soffrì il distacco dal suo branco. Ci aveva seguiti,
giustamente. Fu soprattutto il pensiero di Charlie e dei compagni di Jake a
convincerci a tornare da quelle parti, almeno ancora per un po’. Almeno fino a
quando Charlie sarebbe rimasto tra noi, era quello che tutti tacitamente pensavamo.
E così la primavera precedente arrivammo tutti a Bremerton.
Era un’insulsa cittadina a
sud di Forks, brutta e scomoda per le nostre esigenze, perché la foresta
attorno era povera di animali e troppo ricca di campeggiatori. Ma era
abbastanza vicina a Forks perché potessimo mantenerci in contatto con i nostri
legami, e abbastanza lontana perché nessuno si ricordasse della nostra
famiglia. Alcuni di noi, per precauzione, cambiarono cognome. Quando ne
attraversammo la strada principale, mi sembrò quasi di non esserci mai stata
prima.
-La tua casa era in
affitto?-, dissi, mentre lasciavamo la macchina all’autonoleggio. Avremmo
proseguito con l’auto di Ben, che si trovava ancora nel garage della grande
casa.
-No. Me l’aveva procurata
Thomas-
-Allora la possiamo usare
ancora?-
-Se vuoi sì.-. controllò di
aver dato l’importo giusto, consegnò le chiavi, non lasciò mancia. Non era
tirchio, ma non dava molta importanza al denaro, perciò non capiva il motivo
per cui alla gente normale i soldi piacessero tanto. Si dimenticava quasi
sempre di lasciare le mance. –Ti piacerebbe?-. mi osservò, con un mezzo sorriso
che lasciava intravedere i denti lucidi, affilati.
-Non so. Mi fa tutto un po’
impressione, non so se mi piacerà così tanto-
-Hai dei ricordi tanto
brutti?- . Con indifferenza mi mise un braccio attorno al collo, non prima di
aver alzato il cappuccio del mio giubbotto. Aveva cominciato a piovere un po’.
-No. Ma nemmeno con la mia
famiglia ho dei ricordi tanto brutti, eppure adesso che sto per tornare vorrei
non essere qui-. Chissà dov’era Jacob. Chissà se mio padre poteva già sentire
un’ eco dei miei pensieri. Fermammo un taxi e Ben diede l’indirizzo della casa:
non era lontana, e saremmo arrivati nel giro di dieci minuti. Il taxista era
impegnato a canticchiare una canzone che non avevo mai sentito, continuammo il
nostro discorso.
-Vorrei capire qual è il tuo
problema-, disse giocherellando col mio indice sinistro. –Per poterci
lavorare-. Aveva un senso del dovere molto sviluppato, al contrario di me.
Sorrisi.
-Quando lo saprò, stai certo
che te lo farò sapere-
-Tu hai capito qual è il
motivo per cui siamo così giusti insieme?-. strinse un po’ i suoi occhi scuri.
Mi sembrò più perfetto che mai.
-Sinceramente no-
-Nemmeno io. Ma non ci faccio
più tanto caso, perché alla fine mi piace, non riuscire ad arrivarci-
-Anche a me, mi fa sentire
viva-
-Anche io mi sento vivo. Non
capitava da un po’-
Scendemmo dal taxi, Ben pagò,
mi guidò lungo il lungo viale, dopo aver aperto il cancello con una lunga
chiave dall’aria antica. Il viale era coperto di neve, la coltre avvolgeva la
casa, il giardino poco curato. Della neve riuscì ad entrarmi negli stivali, mi
inzaccherai tutti i piedi. Volevo cambiarmi le calze.
-Quando avremo messo a posto
un po’ di cose, ti porterò a fare un viaggio-, disse distraendomi dal mio
tentativo di non fare entrare altra neve negli stivali. Aveva alzato il viso al
cielo, lo sguardo rivolto verso l’alto, alle nubi chiare cariche di nuova neve.
Non si rivolgeva direttamente a me, ci stava pensando su, e mi piaceva essere
le confidente. Le cose che non si potevano dire proprio a nessuno, era bello
dirle tra di noi. –Così potrai vedere tante cose. Sei una brava compagna di
viaggio-
-E da cosa lo sai?-
-Quando ci sono cose nuove da
vedere, la tua attenzione si focalizza su quelle, e basta: non c’è altro, solo
quello che c’è di nuovo. Anche quando hai visto me, non mi hai notato per
qualcosa di… speciale. Era solo la tua curiosità a spingerti ad avvicinarti a
me-
Qualche fiocco pesante
ricominciò a cadere.
-Vero. Ma la mia curiosità
non poteva sapere a cosa mi avrebbe portato, per fortuna. Altrimenti mi sarei
spaventata-
-Vero anche questo. Prendiamo
la macchina, ci aspettano-
Andammo verso il garage sul
retro, dove se ne stava, inutilizzata, l’auto di Ben. Quella lunga berlina
dall’aria veloce e costosa non gli si addiceva per niente, e capii che anche
quella gliel’aveva procurata Thomas. Ma c’era troppa neve sulle strade per
poter prendere la moto, e ci arrangiammo con quello che c’era.
-Ho proprio voglia di
partire, ci sto-, dissi, mentre osservavo le strade della città, note e allo
stesso tempo inesplorate. –Dove mi vuoi portare?-. Avevo viaggiato spesso con
la mia famiglia, soprattutto nella stagione invernale, più umida e piovosa, e
avevo visto tanti posti. Mi piaceva viaggiare, essere coccolata nei grandi
alberghi, entrare nelle boutique delle più belle città d’Europa ed essere
servita da commessi impeccabili, visitare i musei più famosi del mondo. Ma
ovviamente con Benjamin sarebbe stata tutta un’altra cosa. Sembrava contento
che gli avessi rivolto quella domanda, e mi ricordai dei suoi lunghi
vagabondaggi.
-Per prima cosa- disse,
solenne –ti porterò a sud di San Francisco. Poi ti dovrò portare in Norvegia, e
poi in Turchia, a vedere Istanbul. E poi ti dovrò portare in Kashmir. Sono dei
gran bei posti-
-E questa tabella di viaggio
non ha alcun senso, giusto?-
-Assolutamente no-. Mi venne
da ridere –Il bello è non essere mai rintracciabili, al punto che nemmeno tu
sai dove sarai il giorno dopo-.
Osservavo il paesaggio
cambiare, i prati lasciare il posto alla foresta fitta, sentivo casa
avvicinarsi.
-Anche da umano sei sempre
scappato via-
-Sempre. È il mio talento,
essere…-
-Schivo?-. Non era
esattamente quello il concetto, ma nemmeno io trovavo la parola giusta.
-Forse direi più…bugiardo. In
ogni cosa, ed è per questo che i tuoi mi detestano: non riescono mai a capire
le mie intenzioni, ed è per lo stesso motivo che i Volturi mi hanno ritenuto
adatto ai loro scopi. Abbastanza ragionevole per non tradire, cinico quel tanto
che serve per essergli utile-
-Non è giusto, sbuffai- anche
io voglio essere una brava bugiarda-. Lui mi guardò un po’ storto,
disapprovando.
-Vai benissimo così, non c’è
nessun gusto in quello che sono-
-Ti capisco, nemmeno io lo
faccio apposta, a essere crudele-
-Tanto non vale la pena di
cercare l’approvazione della gente-, disse alzando le spalle-sinceramente,
finché tu mi perdoni, non devo giustificare altro-. Era una dichiarazione
d’amore così articolata, per i suoi standard contorti, da spaventarmi quasi.
-Bè, quando si parla di
famiglia, forse anche tu cercheresti l’approvazione di quelli che ti hanno
cresciuto-
-Magari sì, ma non è che me
lo ricordo, quindi non posso giudicare. Però te l’ho sempre detto, che capisco
che tu abbia bisogno della loro approvazione-
-Approvazione…non
esageriamo-, mi lamentai frustrata. Detestavo doverlo ammettere, proprio lo
odiavo profondamente. E d’accordo che tanto tra noi ci si poteva dire davvero
tutto e si poteva accettare ogni debolezza, ma quella davvero non la potevo
soffrire. Rise un po’ di me e ci rimasi un po’ male, ma non avevo tanto tempo
per pensarci su. La parte più previdente, intelligente e ordinata della mia
testa stava già pensando a quello che sarebbe successo di lì a dieci minuti.
Famiglia, realtà, problemi.
Problemi a non finire. Mi girava la testa, ma dovevo pur cominciare ad
adattarmi. Non si può vivere nella propria dimensione per sempre , e anche se Benjamin sembrava volermi dimostrare il
contrario, per me era diverso. Le somme io dovevo tirarle.
-Cerco solo di far quadrare i
conti Ben, lo sai. Perché le cazzo di cose io le devo mettere a posto, mi
capisci?-
-Sono proprio un selvaggio
del cazzo. Mi spiace che io sia così un selvaggio del cazzo e che tu debba
rimettere a posto le cose anche per conto mio-
-Non è un problema, meglio:
lo è ma ci sarebbe anche se tu non ci fossi-
-Non credo proprio. Non te ne
sarebbe successa mezza se non ci fossi stato io, Nes. Nel bene e nel male-
-Be, questo non lo so-.
Pensai un secondo alla faccenda –Mi piace che tu sia venuto, alla fine. Anche
se non capisco più niente di niente e se tutti pensano che sono una traditrice.
Non è che si tia troppo male-
-A me non sembrava-, disse,
sbuffando nervoso.
-E’ solo qualche effetto
collaterale. Insomma, non è che volevo suicidarmi per colpa tua. Sono una
ragazzina incredibilmente lagnosa, Ben, dovresti saperlo-
-Vedi di ricordarti una cosa
sola, e ricordatela sempre. Per quanto chiunque possa pensare che tu sia sbagliata, e che hai dei peccati sulla
coscienza, la tua parte migliore è mia. È mia, la tengo con me, e non posso
separarmene, e non posso vedere altro. Mi capisci? Io ho il meglio di te-
Il tono con cui aveva parlato
non mi spaventò, ma mi turbò. Il suo amore passava per il sangue e la materia,
eppure non era una cosa sbagliata. Volevo avere dei diritti su di lui come lui
li aveva su di me. Se dovevamo essere liberi, dovevamo esserlo insieme.
-Anche io ho il meglio di te.
Non è di nessun altro-, sussurrai.
Non parlammo più fino a
quando giungemmo a casa, e con un sospiro, mi ritrovai di fronte alla porta
semi aperta. Benjamin non più alle mie spalle, ma di fianco a me.