Le foglie secche scricchiolavano sotto alle suole delle
sue scarpe imitando il rumore del fuoco che aveva bruciato casa sua, ma non
poteva evitare di pestarle, perché erano ovunque, ovunque!!!
E il senso di rabbia e frustrazione che le cresceva
dentro ad ogni passo si faceva pesante come un macigno e le impediva di pensare
e respirare e allora incominciava a sentirsi cattiva e a prendersela con la
prima cosa che le capitava a tiro, fosse stata una pietra, un albero un animale
o peggio una persona.
Aveva 11 anni a quel tempo, e la sua vita era appena
finita.
La sua vita felice, serena e spensierata di bimba era
bruciata in pochi attimi come la sua casa di periferia, e la rimessa degli
attrezzi e il recinto del suo cane, persino il giardino era bruciato e anche le
mattonelle che rivestivano il cortile e la stradina per il garage erano
bruciate e annerite.
Era tutto nero tutto morto, i suoi genitori i suoi
fratellini il suo cane…solo lei non lo era.
Si era salvata solamente perché dormiva in mansarda e la
sua cameretta era stata raggiunta dalle fiamme per ultima, quando i vicini
avevano già dato l’allarme, pochissimi attimi prima che la finestra si
spaccasse e che quell’uomo in divisa entrasse e la portasse via.
E quei pochi secondi non erano stati sufficienti al fuoco
per prendere anche lei, l’aveva appena scottata, le aveva bruciato la voce e il
sorriso.
Aveva chiuso gli occhi fra le braccia del pompiere
sentendo il buco allo stomaco quando scendevano dalle scale meccaniche della
camionetta, sentiva degli spruzzi gelidi sulle guancie ustionate e sentiva che
l’oblio pian piano la stava ghermendo fra tosse paura e odore acre di fumo e
plastica bruciata.
Quando aveva riaperto gli occhi era diventato tutto
bianco e profumato.
Tutto silenzioso e tranquillo e per un attimo aveva quasi
creduto d’aver sognato, ma il dolore e il prurito e il fastidio che sentiva
dentro al naso l’avevano riportata subito alla realtà.
Erano le bende che le stringevano le braccia a pruderle e
il dolore alle gambe a farla quasi piangere e dei tubi nel naso le permettevano
di respirare bene.
Voltò la testa a destra e vide due letti vuoti, a
sinistra ce n’era un altro, il pavimento era verde acqua e lucido e la porta
bianca semiaperta verso l’interno mostrava a metà dei numeri.
Un cinque ed un uno che letti alla maniera giusta davano
15 quindi.
Probabilmente era all’ospedale, e non era stato affatto
un sogno.
Aveva cercato d’alzarsi ma si sentiva il corpo molliccio,
non riusciva a comandarlo né a muoversi, poteva pensare ma non agire.
“Ben svegliata tesoro…”
Alzò appena le pupille incontrando lo sguardo dolce e
pieno di pietà di una signora con gli occhiali ed un ciuffo biondo che le
usciva dal lato della cuffietta.
Un infermiera.
“Come stai?”
Non le rispose, e non lo fece perché non ci riusciva, ma
perché semplicemente non voleva; piano piano aveva
messo a posto ogni tassello e aveva capito.
Incendio, ospedale, infermiera, pietà.
Era rimasta sola, e la lacrima che le nacque dall’occhio
non bendato fece intuire alla donna che aveva capito.
“No non piangere ti
prego shhh stai calma…tranquilla
angelo tran…”
“Che succede?”
“Dottore si è
ripresa,…sa…”
“Le dia del
calmante e veda se qualcuno può firmare quelle dannate carte!”
Vedendolo così alterato fu spaventata da quell’omone alto
dal camice bianco ma solo poi capì il motivo di quelle sue urla.
Doveva essere operata all’occhio con urgenza o rischiava
di perdere la vista ma nessun parente si era fatto vivo nonostante le
telefonate fatte dalla polizia e dall’ospedale stesso.
Più tardi, quando vide i cancelli dell’istituto che
l’avrebbe ospitata capì che non era per quel medico che l’aveva operata
comunque assumendosi ogni responsabilità che costituiva un peso, ma per i
parenti che non avevano alzato la
cornetta a nessuna chiamata.
Aveva visto la zia Michelle e lo zio Bob solamente due
giorni prima dell’incidente, eppure non erano andati a trovarla in ospedale, né
l’avevano presa con loro a casa…né si erano mai più
fatti sentire.
Aveva 11 anni quando entrò alla casa degli angeli di St
Thomas, che non era una casa-famiglia o un orfanotrofio come gli altri, era una
casa speciale per chi aveva perso tutte le proprie emozioni o la voce o la
voglia di vivere, o come lei tutte queste cose in una volta sola.
Rimase li per quattro anni, covando rancore per il mondo
intero, distruggendo le lampade della sua camera, tagliandosi con le schegge di
vetro dei paralumi, sradicando le piante prendendo a calci i volontari i cani o
i gatti che le si avvicinavano, tirando sassi ai cavalli delle scuderie
cercando in ogni modo di allontanarsi dalla vita.
Fu quasi per caso che il sole rientrò nella sua visuale,
quando a dodici anni e mezzo un pallone la colpì al braccio facendole cadere i
liberi che voleva leggersi in santa pace sotto allo scivolo arrugginito del
parco giochi.
“La palla!”
Si ritrovò a terra stringendo i denti per il dolore,
l’aveva presa secca quella dannata pallonata, e quel bastardo che l’aveva
colpita anziché chiederle scusa e aveva urlato di rimandargli la palla.
…col cazzo che l’avrebbe fatto!
Si alzò e arretrò di alcuni passi mentre l’altro ancora
aspettava, prese la rincorsa e calciò la sfera con tutta la forza che aveva….verso la strada, riprendendo poi la marcia verso il
suo angolo di pace.
“Ma sei deficiente?”
Uno strattone improvviso sul braccio leso le strappò un
gemito strozzato.
I libri caddero di nuovo e si ritrovò a fissare una
maglietta nera.
“Quassù scema!”
Alzò gli occhi e incrociò due gemme gelide senza tuttavia
rimanerne intimorita.
Fece per superarlo ma ancora le venne impedito.
“Sto parlando con
te ragazzina, almeno rispondi…”
Di nuovo lo guardò spostando poi lo sguardo sulle sue
mani che salde le stringevano il braccio sopra il gomito, sentiva anche le
unghie oltre il tessuto della maglietta e faceva male.
“…”
“Allora? Ti avverto
che mi sto inc…”
“Lasciala perdere
quella, è muta e pazza…”
Scostò la faccia solamente per vedere chi era stato a
parlare.
Amon, quello che andava e
veniva dall’istituto in continuazione, che non volendo cercarsi un lavoro per
mantenersi fingeva d’esser visionario e mangiava, beveva e rompeva i coglioni a
scrocco di tutti.
“Ma se è una bambina…”
“Si…ma è muta…e pazza e rompi…”
Non finì la frase che lo spigolo del suo libro lo colpì
diritto alla fronte facendolo imprecare come un turco.
“coglioni…ma io ti…”
Non riuscì a divincolarsi dalla presa del primo che venne
presa per il colletto da Amon e scossa come un
tappeto e poi di colpo fu nuovamente libera.
“Ma lasciala perdere
che avrà la metà dei tuoi anni scemo…”
Alzò lo sguardo stupita sulla schiena del ragazzo del
pallone, la stava difendendo?
“Ma se è lei che…”
“Lasciala perdere!”
“Vaffanculo anche a te allora stronzo!”
Lo guardò allontanarsi correndo verso il cortile per
tornare dagli altri.
“E prenditelo da
solo quel cazzo di pallone!”
“…idiota…piuttosto stai bene ragaz-”
Si voltò per vedere se stava bene ma era già lontana,
verso la statale…sull’orlo del marciapiede…fra
la prima e la seconda corsia.
“Ma sei scema? È pericolo…”
Passò un camion che cancellò la vista di lei e per un
attimo pensò al peggio così prese a correre verso il punto in cui l’aveva vista
sparire.
“Hey!!!”
Schiuse gli occhi cercando di vedere dove cavolo fosse
andata a finire, porca puttana, se la facevano secca i tre mesi di volontariato
forzato a cui era stato costretto per punizione diventavano l’eterno…
“Cazzo!”
Si passò la mano sulla fronte pensando a cosa si poteva
inventare quando uno strattone alla maglia lo fece voltare a destra.
Ed eccola li, seria come sempre, con quegli occhi
imbronciati e la bocca serrata in una posa che non esprimeva nulla, la sua mano
era stretta al bordo della Tshirt e l’altra reggeva il pallone.
“Se ti mettevano
sotto finivo nei casini bamboccia…è proprio vero che
sei pazza…”
Si voltò rientrando nel cortile.
“Scusami!...per prima…”
Si voltò appena guardandolo attentamente e solo in quel
momento notò bene quello che indossava.
Una maglietta normale con le maniche corte arricciate
sopra le spalle, sul petto un numero.
Il numero 10.
…………………
Un tonfo e le mancò il respiro.
“Cazzo!”
Aprì gli occhi tirandosi su di colpo, sbattendo la fronte
contro una testaccia dura come il marmo.
“Ahio!”
I loro lamenti furono all’unisono, si portò la mano alla
parte lesa mentre con l’altra mano spingeva via quella fessa di Ayame che per svegliarla le si era buttata addosso a peso
morto.
“Ma dico io, chiamare no eh’”
“Diventavo vecchia a forza di chiamarti Rin-co! Avevo pensato anche ad una bella secchiata d’acqua,
ma rischiavo di rovinarti il divano e sarebbe un peccato, è comodissimo!”
“….ah certo…ma
non hai pensato che potevi sfondarlo? ”
“Ehm…no!”
Rise mentre
addentava una fetta biscottata e mescolava il suo caffè.
Ayame era fuori di testa!
“Sbrigati che poi abbiamo scuola!”
“Ma è sabato Sango!”
“E ci sono gli allenamenti Rin-co!”
“Cazzo….è vero…”
……………………………
L’odore che c’era in palestra aveva il potere di calmarla
sempre, era un aroma difficile da spiegare, dato dall’insieme di troppi
elementi per poter essere catalogato bene; c’era il profumo del parquet tenuto
sempre lucido e pulito, l’odore delle palle, della moquette che rivestiva le
pareti, la gomma delle suole delle loro scarpe i loro deodoranti.
Sorrise ricevendo malamente una schiacciata di Sango, sia
per la bastardaggine del capitano che si impuntava a volerle insegnare a ricevere
bene di bagher sia per il bel ricordo che le era appena
venuto in mente.
Ovvero la prima volta che mise piede in una palestra tre
anni prima.
Scattò a muro fregando il tentativo di Kagome di
schiacciare.
Non era quello il momento di pensare ai ricordi.
Era il momento di impegnarsi per il futuro!
TH
A rieccomi! ^w^
Un abbraccio a Celina che
ha commentato! Stella bella, io invece ADORO la pallavolo, l’ho praticata
parecchi anni ed è uno sport che mi piace un sacco, mi ha dato tantissimi bei
ricordi, una marea di amicizie e…..calorie bruciate a
manetta!!!!
….bei tempi andati! Ç____ç
Grazie del fischio! A presto!!!
Ps: chissà chi sarà l’avversaria
temibile di Rin….hih hih hiiih
io non dico nulla ;)