Tutto
intorno era un mare di luce. Nadia, stupita e affascinata, lasciò
che i suoi occhi vagassero liberi per quello spazio immenso, mentre
fasci luminosi la raggiungevano da ogni dove, illuminandole i capelli
lucenti e la pelle, che splendeva sotto quei raggi come una brace
viva.
Era
scalza. E camminava lungo un sentiero lento e tortuoso, affondando i
piedi ad ogni passo nello spesso strato di polvere luccicante che lo
ricopriva. Era, la sua, una sensazione di stupenda e assoluta
libertà: una libertà completa, che non aveva mai
gustato prima, e che la guidava lungo quella strada sconosciuta e
bella, infondendole una pace e un vigore nuovi.
Intravide
alcune figure stagliarsi scure, sullo sfondo, a contrastare l'intensa
luce diffusa. Niente più che pallide ombre, che si ergevano
tutt'intorno a lei. Dovette stringere gli occhi perché le
apparissero per quello che erano: colline, montagne laggiù; e
qualche rado cespuglio, sperso nella brughiera che la circondava.
Un
canto si udiva in lontananza: giunse tiepidamente alle sue orecchie,
come una brezza delicata e leggera. Non distingueva le parole, ma la
tristezza profonda di quella musica le penetrò immediatamente
nel cuore, diffondendosi subito, come un veleno. Nadia provò
una fitta al petto mentre camminava alla ricerca di quel cantore
misterioso e nostalgico, che portava con sé una notte densa, e
improvvisa e buia.
Vide
una donna. Era una splendida donna, dai ricci capelli biondi. Cantava
seduta su un piccolo promontorio: sotto di lei il mare si allungava a
perdita d’occhio, risplendente del riflesso di milioni di
stelle appena nate, che solcavano il cielo in lunghe scie di fuoco. E
mentre la donna cantava, le stelle cadevano intorno a lei e nel mare
ai suoi piedi, esauste, disegnando nel loro percorso piccoli
intrecci, e deboli spirali di luce. Nadia alzò gli occhi ad
osservarle ruotare e spostarsi in quello spazio immenso come piccole
schegge impazzite, senza rotta né tregua; e intanto la donna
cantava, con gli occhi rivolti al cielo infinito, le candide gambe
raccolte. Con voce triste, intonava parole dolorose:
Si
vive forse veramente sulla Terra?
Non
per sempre, solo per poco.
E
noi venimmo per dormire
o
forse solo per sognare.
Non
è vero, non è vero
non
venimmo per vivere sulla Terra!
Come
consolare il mio cuore, se invano
venimmo
per vivere sulla Terra,
invano
qui, a fiorire?
Cerca,
mio cuore: dov’è
il
luogo della vita
dove
la mia casa
la
mia dimora
dove,
qui, sulla Terra?
Nadia
si sedette ad ascoltare in silenzio, e sentì un profondo
dolore discendere nel suo cuore. Quel canto la commuoveva senza che
lei sapesse perché: e lo ascoltava in un affascinato silenzio,
senza dire nulla, senza pensare a nulla, lasciando alle parole il
giusto tempo per spegnersi, perché echeggiassero lente nella
solitudine del suo cuore.
Dov’è
la mia casa? Dove la mia vita?
Come
un suono che arriva da lontano, quelle parole che parlavano di lei, e
a lei stessa, si adagiarono stanche sulla sua anima, avvolgendola.
Il
canto si spense e Nadia vide la donna abbassare lo sguardo, nel
silenzio che seguiva l’ultima vibrazione della sua voce.
Allora, lo spazio si colorò come un’immensa tela, pronto
ad accogliere la nascita del sole e delle altre stelle. Di nuovo,
Nadia alzò gli occhi: e sentì che si sarebbe persa in
quel mondo senza fine.
Non
troverai lassù le risposte che cerchi; è qui, che
dovrai guardare, dentro il tuo cuore.
«Nadia?
Nadia, stai bene?»
Lentamente,
lei aprì gli occhi. C'era qualcuno che la stava guardando. Nel
sonno, ne intravedeva il viso, chino su di lei. Sbatté le
palpebre, per scacciare il sonno residuo: e due occhi azzurri e
intensi le sorrisero nel buio.
«Jean...»
«Stai
bene? Ti agitavi nel sonno e continuavi a ripetere parole senza
senso».
Lei
si stropicciò gli occhi, sollevandosi su un gomito. «Senza
senso?» chiese. Jean annuì.
«Sì,
sembrava una filastrocca, o una poesia».
«Non
ricordo nulla» mentì lei. «Che ore sono?»
«L'una
e quaranta. Ormai siamo in viaggio da quindici ore».
Nadia
si guardò intorno. Si trovavano nella cabina del dirigibile.
Il cupo ronzio delle eliche faceva da contrappunto al russare pesante
di Hanson e Sanson, che dormivano nelle loro cuccette. Poco lontano
da lei, Marie dormiva insieme a Rebecca e sembrava assolutamente
tranquilla. Nadia sorrise, quando intravide il suo volto sereno
nell'ombra.
«Marie
sta meglio?» chiese. «Stamattina non sembrava stesse
bene».
Jean
alzò gli occhi verso la bambina. «Sì, direi che
sta meglio. Solo un po' di mal d'aria, tutto qui».
«Rebecca
mi ha detto che spesso, quando era più piccola, faceva degli
incubi...»
«Vieni»
fece lui, sorridendole in modo meccanico. «Andiamo a parlare
fuori».
Nadia
lo seguì, avvolgendosi nel lenzuolo. Volavano a circa trecento
metri e fuori faceva piuttosto freddo. Jean indossava una giacca di
lana, e una camicia sdrucita. Lei gli passò accanto mentre le
teneva aperta la porta, e non poté fare a meno di notare come
il suo aspetto apparisse molto sciupato, sebbene fosse così
giovane.
Lui
la seguì sul ponte, e insieme si appoggiarono sulla balaustra
a fissare l'orizzonte illuminato dalla luna. Grosse nuvole azzurre
splendevano davanti a loro e anche più in basso, da dove ogni
tanto lasciavano intravedere il luccichio diffuso del mare.
«Che
meraviglia» fece lei. «È così bello da
sembrare irreale».
«Già»
commentò sinceramente Jean. Nadia gli lanciò
un'occhiata veloce. Quindi si volse verso di lui e sorrise.
«Allora,
non vorresti raccontarmi un po' di te?»
Lui
sporse in fuori il labbro, alzando le spalle. «Che vorresti
sapere?»
«Beh»
fece lei, che sperava in una reazione migliore «magari come hai
fatto a diventare docente al MIT. O come sono andati i tuoi studi a
Berlino».
Credeva
che gli sarebbe piaciuto parlare di quelle cose. In fondo,
rappresentavano il successo che era sicura aveva da sempre sognato e
inseguito. Ma contrariamente a quanto si aspettava, vide il viso di
lui spegnersi all'improvviso, e i suoi lineamenti farsi più
duri e marcati.
«Berlino
è una bella città» si limitò a dire. Lei
restò a fissarlo per qualche istante, senza dire nulla.
«Tutto
qui?» fece, timidamente. «Io sapevo che eri il migliore
del tuo corso, e che hai ricevuto un sacco di offerte di lavoro ancor
prima di laurearti».
«E
tu, che ne sai?»
Lei
arrossì. «Me lo ha scritto Hanson» rispose,
semplicemente. Lo fissava con intensità, ora, perché
non voleva più provare alcun timore di fronte a lui. Chi era
quell'uomo per farla sentire così...
...insicura?
No,
non insicura. Era qualcosa di diverso. Con lui si sentiva triste.
«Non
sapevo che lui ti scrivesse di me» fece Jean. Ma non c'era
sarcasmo. Nadia si strinse nel lenzuolo, guardando altrove.
«Ero
io a chiedergli di te».
Jean
si appoggiò su un gomito, socchiudendo gli occhi. Restò
a guardarla mentre fissava lontano, illuminata dai deboli raggi della
luna.
«Perché?»
le chiese. Lei scosse il capo.
«Se
non te ne rendi conto da solo, non ha senso che io ti risponda, non
credi?» disse. Poi, con voce dura e tesa, mormorò «Dio,
a volte fai delle domande tanto stupide...»
«Non
penso sia stupido domandarsi perché tu chiedessi di me al mio
amico mentre io non ho mai ricevuto una singola riga da te, non
credi?»
«Ho
sonno» fece lei, girando le spalle e abbassando gli occhi. «E
qui fa molto freddo. Torno dentro».
«Marie
faceva gli incubi su di te, perché non tornavi a casa».
Nadia
si fermò con un piede sulla porta. Quando si volse a
guardarlo, nei suoi occhi c'era disprezzo e una furia trattenuta a
stento.
«Questo
è veramente spregevole da parte tua» disse. Jean
sorrise, beffardo. E lei non odiò mai tanto quel suo sorriso
come in quel momento.
«Dici?»
fece lui. «Eppure è la verità. Se non mi credi,
chiedi a Rebecca».
«Io
ho fatto quello che avresti fatto anche tu, nella mia situazione»
disse lei, che sentiva la sua rabbia crescere. Gli occhi di Jean
brillarono, attraverso gli occhiali.
«Ti
sbagli. Io sono restato. Mi sono preso cura di lei, come potevo. Ho
supplito alla tua mancanza ogni giorno, esattamente come Rebecca.
Quindi non venirmi a fare la predica!»
«Io?
Io ti farei la predica?» Nadia scoppiò a ridere. «Ma
sentilo. È da quando ci siamo rivisti che non fai altro che
trattarmi con disprezzo e orgoglio. Ho sbagliato, va bene. Ti ho
chiesto scusa, più e più volte. Ho cercato di farti
vedere che mi assumevo le mie responsabilità...»
«Le
tue responsabilità?» la interruppe lui, ridendo.
«...sì,
ma tu non hai fatto altro che oppormi il tuo maledetto senso di
colpa. Non è colpa mia, se tu avresti voluto fare quello che
ho fatto io, ma non hai potuto... o voluto».
Lui
impallidì all'improvviso.
«Io
cercavo un significato per la mia esistenza, qualcosa che tu
avevi, ma io no. Volevo la mia vita, e una stanza tutta per me in
questo maledetto mondo, un posto dove potessi finalmente realizzare
me stessa, e capire chi volevo essere. Non volevo dimenticarmi di
voi, non l'ho fatto apposta. Ma la mia vita ha preso una direzione
che non prevedevo e non ho saputo evitare quello che è
successo».
Lei
parlò senza mai interrompersi. Tremava e aveva il fiato corto,
mentre le guance erano accese di rosso. Jean la fissava senza
riuscire a togliere gli occhi dalle sue labbra.
«Sono
diventata la prima donna cronista in Inghilterra a guadagnare oltre
centocinquanta sterline all'anno. Sai quanto guadagna il mio collega
meno quotato? Circa mille e cinquecento sterline all'anno. Per non
parlare del capocronista, un vero cretino, che però può
permettersi di guardarmi dall'alto delle sue tremila sterline annue
solo perché è un uomo. Hai idea di cosa significhi?»
«Mi
stai parlando di soldi».
«Ti
sto parlando di una donna che è riuscita a guadagnarsi il suo
spazio, la sua scrivania, i suoi lettori lavorando giorno dopo
giorno, e vivendo una vita da schifo per quasi cinque anni, mangiando
un giorno sì e tre no, e dormendo in un buco che farebbe
orrore a uno scarafaggio. Lottando contro una società abietta,
che ti vuole ai margini solo perché sei una donna e perché
hai la pelle nera. E scusami se non ho avuto il tempo di venirti a
trovare!»
Jean
si appoggiò con la schiena al parapetto, incrociando le gambe.
«Però hai avuto il tempo di andare a trovare Mr.
Fisher».
La
mano di Nadia scattò senza che lei riuscisse a rendersene
conto. Restò a guardare con orrore il volto di Jean, piegato
di lato, e la sua mano, ancora levata per aria.
«Mi
dispiace, io non volevo colpirti...» mormorò. Lui si
portò una mano al volto.
«Come
non volevi lasciarmi».
«Jean»
fece lei, con gli occhi che le tremavano per l'emozione. «Devi
andare avanti. Tu potresti vivere una vita meravigliosa, se solo
riuscissi a capire...»
«Non
ti preoccupare. Capisco benissimo».
Lei
scosse la testa. «No, non è vero. Tu ti ostini a vivere
nel passato e non capisci che quello che abbiamo vissuto, io e te...
Jean, quello nessuno potrà mai togliercelo. Ma noi siamo così
diversi, e in fondo lo sai anche tu. Credo che tu non lo voglia
ammettere, ma l'hai sempre saputo. Come l'ho sempre saputo anche io».
Jean
chinò il viso. E attraverso le lenti dei suoi occhiali lei
vide il bagliore fugace di una lacrima, che scorse sul suo volto
velocemente, senza lasciare traccia.
«Quindi,
non mi hai mai amato. C'è voluto Jonathan per scoprirlo, non è
così?»
«Non
è così» fece lei. «Ma comunque, sì:
io amo Jonathan. E farai meglio ad accettarlo, se vorrai cominciare a
lasciarti questa infelicità alle spalle».
«Se
è questo che vuoi, sono felice per te» fece lui,
rassegnato. Nadia lo fissò intensamente: e dopo un attimo di
smarrimento, prese a guardarlo con tutto il disprezzo che riusciva a
provare; e senza pensarci, glielo gettò in faccia, quel
disprezzo, senza rimorso né pietà. Perché
sentiva di odiarlo profondamente per quello che aveva appena detto.
«E
tu?» fece. «Tu cos'è che vuoi? Già, ma
perché domandartelo? Tu fai sempre così. Non sei
cambiato per nulla, in sei anni».
Lui
la fissò senza parole. «Credevo fosse quello che volevi
sentirti dire, no?» disse. Lei si morse le labbra, stringendo i
pugni.
«Sei
una tale nullità» fece. Jean la fissò interdetto.
Aveva il volto tumefatto dalla rabbia troppo a lungo trattenuta e gli
occhi che splendevano come due braci incandescenti. «Tu fai
tutto quello che ti viene chiesto, senza mai opporti, senza mai dire
no. Tu non sai dire no, salvo poi trincerarti in una vita che odi ma
che ti sei creato da solo. È questo che detesto di te, questo
tuo buonismo assoluto, così... così inumano. Lo trovo
insopportabile».
«E
cosa vorresti che facessi, che ti impedissi di andare con lui? Magari
avresti preferito che ti impedissi di partire?» sbottò
Jean. Si sentiva ferito. Non capiva dove avesse sbagliato. Le aveva
sempre mostrato tutto il suo affetto e la sua comprensione,
appoggiandola e aiutandola quando poteva. Cos'è che gli stava
rimproverando?
«Sarebbe
stato bello se tu l'avessi capito allora» disse lei, in un
sorriso. «Ma tu non arrivi mai in tempo. Sei sempre in ritardo,
Jean. E io sono stufa: stufa di aspettarti, stufa di farti capire che
quello che cercavo non era la tua comprensione, e nemmeno la tua
approvazione. Proprio come non la cerco ora».
Jean
la afferrò per un braccio, strattonandola: e per un attimo
ebbe paura di quello che aveva appena fatto. Non era da lui. Non si
era mai comportato così. Ma non appena vide lo spavento negli
occhi di lei lasciare il posto a una luce diversa, più
intensa, che insensatamente lo spronava ad andare avanti, lui si
riebbe e la lasciò andare.
«Io...
non posso fare quello che dici» disse, con la voce che gli
tremava. Nadia lo fissò triste. Dov'era quel Jean che aveva
conosciuto cinque anni prima e che aveva amato così tanto? Non
lo ritrovava più nell'uomo che aveva di fronte, un uomo duro,
triste e smagrito, che viveva nel risentimento; e la cui immagine le
pungeva il cuore così tanto e così profondamente da
farlo sanguinare, pur istigando in lei tutta la sua passione più
segreta.
«Tu
non sai scegliere» disse lei, sprezzante «e non sai
vivere. Avrei tanto voluto che tu scegliessi almeno una volta, Jean,
che tu mi facessi capire cosa volevi veramente».
«Io
ho sempre agito per un solo motivo, e lo sai» ribadì
lui. Ma Nadia lo fissava ormai con occhi vuoti e inespressivi.
«Perché
mi fai questo?» disse lei. «Perché lo fai a tutti
e due?»
«Non
lo capisci?» le sussurrò, prendendola per le spalle. Lei
scosse la testa, divincolandosi.
«Basta»
fece, strappandosi al suo abbraccio. «Queste cose non mi
interessano più. Tu non mi interessi più. Se solo... se
solo tu...»
«Cosa?»
disse lui. E sentiva di non avere quasi più la forza di
reggersi.
«Se
solo tu mi avessi mostrato questo tuo motivo, almeno una volta...»
Jean
restò a fissarla e capì che l'aveva davvero perduta. Ma
non lì, non su quel ponte e non in quel momento. L'aveva
perduta anni prima, quando aveva cominciato a dare lei e la sua
esistenza come per scontata.
«Mi
dispiace» disse lei. «Mi dispiace davvero. Ma adesso...»
Un
suono improvviso, simile a quello di una sirena li interruppe. Nadia
si guardò intorno, spaventata. Jean la prese delicatamente per
un braccio, e lei gli si strinse accanto, mentre la riconduceva
all'interno.
«Cosa
succede?» gli chiese lei. «Cos'è questo suono?»
«L'allarme.
Qualcosa non va come dovrebbe».
Alcune
luci si accesero dall'interno e Hanson comparve sulla porta, in
canottiera e con i capelli spettinati incollati alla fronte.
«Jean,
eccoti qui. Presto, vieni, c'è qualcosa che dovresti vedere».
Jean
lasciò il braccio di Nadia e scomparve all'interno
dell'abitacolo. Nadia gli tenne dietro, avvolgendosi sempre più
strettamente nel lenzuolo. Quando entrò, incrociò
casualmente lo sguardo di John, che si stava alzando proprio in quel
momento, svegliato come tutti dal suono assordante della sirena. Nel
vedere che Nadia e Jean erano rientrati insieme, lui strinse gli
occhi, lanciandole un'occhiata interrogativa, a cui lei non rispose
se non distogliendo lo sguardo.
«Avevamo
inserito il pilota automatico» diceva Hanson, indicando alcune
manopole a fianco dei quadranti. «Ma non appena siamo entrati
nello spazio aereo boliviano, abbiamo cominciato a perdere velocità
e altitudine. Ecco, guarda. Per quanto ne sappia, non sembrano
esserci problemi ai motori o al pallone».
Jean
stava chino sulla plancia, appoggiandosi con entrambe le mani. Il suo
viso era teso e tradiva una certa preoccupazione. «Il
carburante è a posto» notò. «E le valvole?»
Hanson
premette qualche pulsante. «A posto anche quelle. Jean, non ci
sono danni ma stiamo ugualmente precipitando».
«Com'è
possibile?» mormorò lui. Si voltò e incrociò
lo sguardo ansioso di Marie, che si era svegliata di soprassalto e
ascoltava senza capire quello che si dicevano, tra le braccia di
Rebecca. Quindi si volse verso Alex, che osservava la strumentazione
al suo fianco.
«Può
essere un campo magnetico, che ha disturbato l'attività del
pilota automatico» suggerì lei.
«No,
la bussola funziona» disse Jean, chinandosi a controllare. «Il
problema è un altro, ma non riusciamo a capire quale. E se non
lo scopriamo in fretta, presto saremo nei guai».
Nadia
ascoltava tutto trattenendo il respiro. Tutte quelle persone erano in
pericolo perché lei le aveva coinvolte. Se fosse successo
qualcosa a qualcuno, non sarebbe mai riuscita a...
State
tranquilli e non vi accadrà nulla. Siamo noi, ora, a guidare
la vostra nave. Non avete nulla da temere, non abbiamo intenzione di
farvi alcun male. Ma se reagirete, risponderemo di conseguenza.
«Avete
sentito?»
Tutti
si volsero a guardarla. Nadia scrutò uno per uno i volti dei
presenti, che la fissavano senza capire che cosa intendesse dire.
«Avete
sentito? Quella voce!»
Sanson
e Hanson si scambiarono un'occhiata perplessa. John si avvicinò
a Nadia, prendendola per le spalle.
«Non
c'era nessuna voce» disse. Nadia scosse il capo.
«Io
l'ho sentita. Diceva di non preoccuparsi, che non ci sarebbe stato
nulla da temere. Sono loro a guidare la nostra nave».
Jean
strinse gli occhi. «Loro? Loro chi?»
«Nadia...»
fece Rebecca, sospettosa.
«Guardate!»
Un'intensa
luce risplendette improvvisa e abbagliante proprio davanti
all'abitacolo, investendoli in pieno e accecandoli. Jean si riparò
gli occhi con le mani, giusto in tempo per non rimanere abbagliato:
schermandosi, si voltò cautamente a guardare quella che pareva
una immensa struttura in metallo, materializzatasi all'improvviso
proprio davanti al dirigibile. Si avvicinò al finestrino, per
osservarla meglio: e notò che era immensa, dalla forma
allungata, simile a quella di una gigantesca megattera. Lo scafo
risplendeva di un intenso colore vermiglio ed era costellata di luci
lungo tutta la fiancata, alcune delle quali brillavano a
intermittenza. Nel suo complesso, quella cosa sembrava grande come
tre o quattro incrociatori messi in fila, e larga almeno due. Con
stupore crescente, Jean restò a fissarla mentre eseguiva una
complessa manovra in aria, virando agilmente e a grande velocità,
come se poggiasse su un cuscinetto d'aria.
«Che
cos'è quella cosa?» ringhiò Sanson. Tutti si
precipitarono a guardare. Solo Nadia restò in disparte,
cercando di fare mente locale.
«Sembra
una nave, una nave volante» mormorò Hanson. «Ma è
ancora più terribile di quelle che usava Gargoyle»
«Se
Gargoyle avesse avuto una flotta di queste, saremmo stati spacciati»
fece Sanson. Nadia si avvicinò, tirandolo per un braccio e
costringendolo a voltarsi.
«Io
ho sentito quello che dicevano. Sono loro a guidarci. Non vogliono
farci del male».
«E
tu gli credi?» fece Alex, dubbiosa. «E perché loro
parlano solo con te?»
«Non
lo so, ma penso che stiano dicendo la verità» disse lei.
Sanson fece una smorfia.
«Ah!
Io sono dell'idea di sparagli contro tutto quello che abbiamo per
coglierli di sorpresa; e quindi, di svignarcela nel più breve
tempo possibile».
«Se
faremo così, daremo loro l'occasione per attaccarci!»
fece Nadia. «Vi prego, fate come vi ho detto».
Tutti
si guardarono l'un l'altro. Nadia restò a fissarli con il
fiato sospeso, passando in rassegna i loro visi uno per uno. Finché
non incrociò lo sguardo di Jean.
Ti
prego... sussurrò. Ma lui strinse le labbra, opponendole
uno sguardo duro.
«Credo
che Sanson abbia ragione» disse, riscuotendo l'approvazione
generale. «Facciamo fuoco su quella cosa, presto!»
«Agli
ordini!» ruggì Sanson. E afferrando la cloche, attivò
le contromisure senza farselo dire due volte.
«Tre...
due... uno...»
«No!»
gridò Nadia, ma John la trattenne, prima che potesse
interferire.
«Vai!
Fategliela vedere a quell'ammasso di lamiera!»
Quattro
razzi si staccarono dallo scafo, diretti alla nave ad alta velocità.
Dopo pochissimi istanti, uno dopo l'altro colpirono il bersaglio, che
venne evidentemente colto alla sprovvista, perché si
interruppe la presa che esercitava sul dirigibile. Tutti lanciarono
un grido di esultanza, nel vedere la nave ondeggiare e girare
velocemente su se stessa.
«E
vai!» esultò Sanson. «Lo sapevo che avevo ragione
a voler imbarcare quelle caramelline!»
«Siamo
liberi, riacquistiamo energia!» fece Hanson. Jean afferrò
la manopola dei motori.
«Andiamocene
di qui, forza!» disse, spingendo i motori alla massima potenza.
Ma si erano appena risollevati di qualche decina di metri, che di
nuovo si smorzò tutto il loro entusiasmo.
«Questa
cosa non mi piace per nulla» fece Rebecca indicando la nave,
che in quel momento stava eseguendo una virata di prua, proprio per
andarsi a opporre frontalmente al dirigibile. «Credo che li
abbiamo fatti arrabbiare...»
Improvvisa,
una selva di colpi partì dalla nave per raggiungere lo scafo
del dirigibile, che venne investito da una serie di violente scariche
elettriche. La strumentazione esplose in un mare di scintille davanti
ai volti allibiti di Hanson e Jean, che non poterono fare nulla per
evitare che andasse in corto circuito.
«Il
pallone è andato, e il timone non risponde più ai
comandi!» gridò Sanson nel frastuono generale. «Stiamo
precipitando!»
«Tenetevi!
Allontanatevi dai vetri e aggrappatevi ai seggiolini, allacciando le
cinture. Presto!» gridò Jean. Quindi si tuffò su
Marie, trascinandola verso il proprio posto di guida e lottando con
tutte le sue forze contro la gravità che lo spingeva verso
l'alto, nel tentativo di assicurarla al seggiolino. Quando riuscì
finalmente ad allacciare la cintura di sicurezza di Marie, Jean si
aggrappò come poté, chiudendo gli occhi. Il suono
assordante del dirigibile che precipitava gli riempiva le orecchie,
stordendolo. Fece appena in tempo a sollevare gli occhi, per cercare
tra gli altri il volto di Nadia. La vide stretta a John, gli occhi
chiusi. Lui stava chino su di lei, per ripararla. Sembrava al sicuro.
Ma come se Jean l'avesse chiamata, in quell'istante lei aprì
gli occhi, a guardarlo. Restarono a fissarsi per un tempo che parve
non finire mai, e che li fece sentire come sospesi. Poi, improvviso,
lo schianto.
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