Capitolo 3.
Quando
il mattino seguente il
dottore fece il suo ingresso nel loro salotto, si sorprese di trovare
Holmes
già in piedi, completamente lucido, mentre leggeva uno dei
suoi tanti
quotidiani del mattino.
Probabilmente
il suo fisico era
talmente abituato ad essere sotto l’effetto di alcool o
droghe che necessitava
di ben poco tempo per riprendersi.
“Buongiorno”
disse infine,
sedendosi dall’altra parte del tavolino, prendendo a sua
volta il giornale,
mentre si versava una tazza di tè caldo portato da Mrs
Hudson.
“Buongiorno
Watson!” gli rispose
l’altro sorridente, ripiegando il giornale. “Non
l’ho sentita rientrare ieri
sera…”
A
quelle parole Watson abbassò la
copia del Times che stava leggendo,
fulminandolo con lo sguardo.
“Sta
scherzando, spero…”, gli
disse, inarcando un sopracciglio.
Ma
dopo un breve, eloquente,
silenzio, infine sbottò.
“HOLMES!
Sono stato costretto a
venirla a prendere in prigione! Lei era totalmente ubriaco!!”
Sembrava
un tipico quadretto
familiare; la premurosa madre che sgridava il figlio ribelle, o peggio,
una
giovane moglie che sbraitava contro il suo recente maritino, a causa
della sua
vita sregolata.
A
quelle parole Holmes mise su
una sorta di broncio.
Lo
faceva sempre in questi casi,
era una sorta di arma segreta.
“Non
provi ad intenerirmi con il
broncio, Holmes! E smetta di cercare di piangere, perché
dopo quello che mi ha
fatto ieri non riuscirà ad intenerirmi!”
Il
suo tono era quasi minaccioso;
pacato, tagliente, e il detective capì che questa volta era
arrabbiato davvero,
che non sarebbe bastato un broncietto per farsi perdonare.
Calò
un pesante silenzio. Ma…
“Mi
dispiace, Watson” disse
infine, distogliendo lo sguardo dal suo.
E
non avrebbe mai creduto di
poterlo pensare, ma gli dava fastidio il suo sguardo su di se. Watson
era
riuscito a metterlo a disagio, forse perché vivevano insieme
ormai da anni e
quindi si conoscevano in
ogni lato dei
loro caratteri, o forse perché il medico era riuscito ad
abbattere quel muro di
apatia ai sentimenti che era stato costretto ad erigere, a causa del
suo
lavoro.
Lo
faceva sentire vulnerabile,
come se la sua mente cessasse, in quegli istanti in cui i loro sguardi
si
incrociavano, di vagare in tutta la sua genialità, non
facendolo più ragionare.
“Prego?!”
gli chiese Watson,
incredulo.
“Mi
dispiace!” ripetè, con tono
serio.
E
l’amico lo guardò ancora,
incredulo, tant’è che lui si innervosì.
“Oh,
andiamo Watson, non faccia
quell’espressione!” sbottò, mentre si
alzava.
“Holmes,
vi sentite bene?” gli
chiese infine, ancora non credendo alle proprie orecchie.
Sherlock
Holmes che gli chiedeva
scusa?!!
Era
come ammettere che aveva
sbagliato… e tutto questo non era assolutamente da Holmes!
“Si,
sto bene… o forse no… non lo
so neanche io, amico mio” confessò, emettendo un
sospiro, per poi riprendere.
“E adesso scusatemi, ma me ne torno nella mia
stanza”.
E
così fece, senza aspettare
risposta.
Tornò
nella sua camera, chiudendo
la porta a chiave dietro di se, poggiandosi poi stancamente con le
spalle a
questa, sospirando.
Tra
una settimana il medico
avrebbe ufficializzato il fidanzamento con la signorina Morstant e se
ne
sarebbe andato per sempre dal loro appartamento in Baker Street, la
ragiona per
cui si erano incontrati.
In
effetti non passava giorno in
cui non ringraziasse mentalmente quella casa, ed il giovane Stamford,
per
averli fatti conoscere.
Poggiò
la testa contro la porta,
mentre ricordava il loro primo incontro, al laboratorio di chimica
dell’università. (*)
Da
quel giorno erano passati
anni, ma era ancora più che vivido nella sua mente;
ricordava perfettamente il
suo stato d’animo, la sua felicità per aver creato
un test per la rilevazione
dell’emoglobina e, nello stesso giorno, per aver trovato un
coinquilino.
Quel
ricordo lo fece sorridere.
Un
sorriso amaro però.
Quegli
anni passati a Baker
Street erano stati i più belli ed intensi di tutta la sua
vita; era stato
finalmente riconosciuto come una delle migliori menti della nazione e,
nonostante non li accettasse, riceveva molti casi su cui investigare. E
inoltre,
cosa non meno importante, per la prima volta aveva trovato un vero
amico, una
persona su cui poter fare totale affidamento.
Ma
tutto questo stava per finire…
Perché
il solo pensiero lo faceva
stare male?!
Dopotutto
non poteva continuare a
comportarsi da egoista, non poteva obbligare Watson a rinunciare alla
sua
felicità per seguirlo nelle sue imprese.
La
verità era che gli
sarebbe mancato
fare colazione in sua
compagnia, il vederlo entrare preoccupato nella sua stanza, le sue
obiezioni
sul suo senso della morale, il sentirsi rimproverare ogni volta che
cercava di
estraniarsi dalla realtà con qualche tipo di droga, il
vedere le sue
espressioni quando, ogni volta, lo stupiva con una delle sue brillanti
deduzioni…
La
verità era che semplicemente
gli sarebbe mancato Watson.
Chiuse
gli occhi, quando cominciò
a sentirli bruciare.
No,
non voleva che se ne andasse,
non voleva perderlo, non voleva rimanere nuovamente solo, come in
passato.
Aveva bisogno della presenza del medico accanto a se, altrimenti, ne
era sicuro,
avrebbe perso il controllo di se. Infatti, come aveva avuto modo di
constatare
pochi minuti prima, Watson era l’unica persona che si
preoccupava veramente per
lui, che gli stava vicino. Era quasi una sorta di coscienza, per lui. E
si rese
conto di non volere accanto nessun altro al di fuori di John Watson.
Aprì
gli occhi di scatto,
puntandoli sul camino, e finalmente vide, nel buio della sua stanza,
quello che
cercava. Il suo astuccio di cuoio.
Camminò
fino al camino, a passo
lento, la testa china, e con lentezza quasi esasperante estrasse la
siringa
dalla custodia, con un nuovo ago, ed una dose di cocaina da lui diluita in precedenza.
Dopodiché,
con la siringa in
mano, si mise a sedere sulla sua poltrona, stringendosi il laccio
emostatico
intorno al braccio sinistro.
E
iniettò.
Si
iniettò la droga endovena, e
subito dopo buttò a terra siringa e
laccio emostatico, attendendo poi gli effetti della
cocaina che ormai
gli era entrata in circolo.
Questa
forse non era altro che
un’ulteriore dimostrazione
del bisogno
di qualcuno che lo trattenesse
nella
realtà, di quanto avesse bisogno di una nuova coscienza,
visto che la sua in
quegli anni era sprofondata nell’abisso del suo genio.
Fine
Capitolo 3.
(*):
il loro primo incontro, come
saprà chi ha letto Uno Studio In
Rosso (del
A.C. Doyle), è stato veramente così, e quindi non
è frutto della mia fantasia.
Sarebbe stato troppo! xD
A
questo punto vorrei ringraziare
tutti per aver apprezzato i due precedenti capitoli. Davvero, grazie
mille! ^^
Ma
soprattutto un ringraziamento
speciale a: hay_chan, ginnyx, EugyChan,
Meme91, Flagiu_Mustang,
Raven_95 e Euterpe
per
aver commentato gli scorsi capitoli! Grazie mille^^, questo capitolo
è dedicato
a voi! ^^
E
adesso non posso far altro che
salutarvi, e darvi appuntamento, se lo vorrete, al quarto capitolo.
Un
bacione a tutti!
ladyElric92
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