Sono migliorata, no?
Sette mesi contro i diciassette dell’altra volta. Sì: direi
che può andar bene. É il capitolo più lungo che abbia scritto finora; e quello
che – ne sono sicura – molti di voi aspettavano. Da tanto. E ho cercato di
evitare cerchi, onde e scioglimenti (e sì, parlo di quello).
Ringrazio infinitamente chi mi segue, con pazienza e
comprensione.
Grezie a Lete89, prima lettrice e prima critica (spietata).
Grazie a Rosencrantz Miriel e Blackvirgo. Per
esserci e per quello che siete.
Grazie a Lein87, _Christine_, Eiby, Celina, Elenasame per le
bellissime parole che mi avete usato.
CAPITOLO 48
LUCCIOLE
Prima c’era stato il silenzio.
Pesante; profondo; strano. Prima:
silenzio. Poi, l’ossessione della pioggia. Sempre; sempre. O forse era il
sangue. Il sangue che scorreva e scorreva, mentre il
suo cuore tentava di mantenere un ritmo, un barlume di normalità anche quando
il respiro era un rantolo e nei polmoni, nella bocca, il sangue c’era e
grattava e soffocava. Perché di sangue, in bocca, ce n’era stato tanto, e non
riusciva a mandarlo via. Prima, nel silenzio, il sangue era l’unico ossessivo
fastidioso rumore. Poi. Poi anche il sangue era sparito. Ed era rimasto solo
quell’abbandono, quel nulla che rimbombava e risuonava e sembrava prenderle la
testa e schiacciarla e appesantirla e comprimerla per distruggerla.
Il silenzio. Quanto poteva essere
profondo e fasullo e irreale e snervante, il silenzio? Era. Era una prigione.
Assieme al buio. Provava a urlare; apriva la bocca e gettava fuori aria. Aria
rabbia terrore sconforto. O almeno credeva di urlare. Ma
la bocca restava aperta, e il silenzio restava silenzio e il buio era buio. Nel
buio, si era accorta di non riconoscere se stessa, di non avvertire il suo
corpo. Sapeva che c’era; si convinceva che era solo uno sbaglio, solo
stanchezza. Il suo corpo. Era un formicolio lontano; una sensazione quasi
estranea e poco allettante. Rifiutava di pensarci, al suo corpo. Rifiutava di
immaginarlo. Ma, nel buio, anche il rifiuto prende
forma e il corpo, il suo corpo, lo vedeva: lì, davanti a lei. E chiudere gli
occhi e scuotere la testa e gridare – provarci – e voltarsi e scappare non era possibile. E il suo corpo diventava doppio, triplo. Si
rivedeva riflessa in ogni ombra: e la pelle chiara era nera; e gli arti
apparivano e sparivano; mani che si tendevano sporche di terra e sudore e
sangue. E ventri, schiene, seni, gambe, ginocchia. Nel buio, quel corpo che
percepiva lontano la stringeva e la stringeva; le si gettava
addosso, assieme all’odore di marcio e sudore che le prendeva…Le prendeva…La
prendeva. E basta. Perché non sapeva nemmeno lei se lì, in quel nulla, in quel
silenzio, fosse qualcosa. Potesse essere ancora qualcosa. E non osava abbassare
gli occhi; non si permetteva di sollevare una mano davanti al viso. Per cosa
poi? Per scoprire un arto scheletrico, con brandelli grigiastri di carne? Per
vedere la pelle nera e chiedersi, in fondo, che differenza ci fosse, se ci
fosse differenza, fra il suo corpo e quel…quel…quel
qualunque cosa fosse il luogo dove si trovava. Era come se fosse mente. Solo
mente. Pensiero alla deriva. Senza possibilità di tornare;
senza una strada da percorrere. Forse non aveva nemmeno il desiderio di
tornare. Aprire gli occhi e vedere…Cosa avrebbe visto?
La stanza che le era stata assegnata a palazzo? Delle membra distese in un
futon e coperte di sangue o avvolto nello yogi o…O
forse avrebbe visto ancora buio e l’odore della terra e della polvere secca che
scende in bocca assieme al respiro inghiottito a fatica. Forse era ancora in
quella piana, su quel campo di battaglia che si era costretta a vedere, che
aveva imposto a se stessa di raggiungere. Forse. Forse era
come i corpi di quei demoni che aveva visto: arti e membra dilaniate; ossa
liquefatte e viscere molli e gocciolanti. Forse. Forse non vedeva nulla perché,
in fondo, non c’era più nulla da vedere e il suo copro se lo stavano
contendendo gli youkai o i corvi. Ce n’erano molti,
di corvi, sulla collina dove Inuyasha aveva costretto
il loro cervo a fermarsi: neri e lucidi, con il loro gracchiare simile ad una
risata gutturale e quel becco. Quel becco opaco che rifletteva in tralice il
sole e deformava le ombre in un sorriso da scheletro. Aveva pensato ad uno scheletro; uno scheletro con le ali che aspetta solo
il silenzio e il vuoto per calare su membra e sangue e cercare e mangiare e
strappare e affondare il becco degli occhi, negli squarci coperti da una
fanghiglia mista di sangue e polvere secca.
Forse non sentiva nulla, non
vedeva nulla, perché, semplicemente, il suo corpo non c’era più. Tranciato in tanti e tanti pezzi, portato in trionfo e masticato e
spezzato. E quel buio, quel vuoto era…Cos’era? La morte? L’aldilà? Non
le interessava. C’era solo il silenzio e quella
sensazione lontana di formicolio che avvertiva ogni tanto. Forse era il dolore.
Forse era l’eco dei suoi nervi torturati e tranciati; forse era lo schiocco
secco delle articolazioni che vanno in frantumi e lo strappo della pelle e dei
tessuti nervosi. La pelle. Che rumore ha la pelle che si strappa? Forse era;
era come la sensazione che la percorreva a sorpresa, quasi il rimasuglio di una
privazione.
Prima c’era stato il silenzio; e
l’abbandono. Senza pretesa di reagire; senza volontà di
arrendersi. Era stata strana, quella sensazione. Una rassegnazione che
non era una resa. Come se qualcosa, da qualche parte, dentro di lei, attorno a
lei, nel silenzio e negli echi distorti di percezioni che credeva di cogliere, le stesse sussurrando di aspettare. Solo aspettare. Senza farsi domande e senza pretendere nulla. Aspettare. Richiudendosi
di più, arrotolandosi in se stessa quando lo smarrimento diventava afasia e
asfissia; espandendosi e fondendosi con quella coltre che non capiva se fosse
altro da sé o il suo nuovo stesso corpo, la sua nuova
essenza. C’erano momenti in cui le sembrava di possedere ancora delle mani e di
tenderle e di stringere qualcosa che poteva essere un avambraccio, una spalla,
un seno. C’erano momenti in cui era convinta di star scavando, di sprofondare
in una sabbia densa e nera e liquida e di continuare a scavare e scavare e scavare forse per non lasciarsi seppellire forse
perché, da qualche parte, dentro la sua testa, sapeva che era la sola cosa da
fare e che forse, in fondo, le mani, quelle cose che erano nel molle, nel buio,
avrebbero fatto male e le avrebbe viste colorarsi di rosso. Le avrebbe
sollevate: le unghie spezzate e le dita sporche piene di tagli ed escoriazioni
che bruciavano e tremavano e, ne era certa, avrebbe
riso e avrebbe pianto e le avrebbe affondate di nuovo in quel nero fino a
doverle raccogliere a fatica contro il petto e tossire per recuperare un po’ di
ossigeno.
Prima c’era stato il silenzio.
Poi la pioggia.
Uno scroscio
continuo e lento, molto lento, quasi una litania. Non ricordava come.
Era solo consapevolezza. La percezione di un cambiamento che c’era stato. In
quel buio, in quel niente si era insinuato un sibilo sempre più acuto, sempre
più penetrante; ed era diventato eco e pesantezza e bagnato e brividi sulla
pelle e rimbombo nelle orecchie e arsura nella gola e respiro
pesante e umido. La pioggia era stata la strada. Una strada senza linee
o pietre; una strada di suoni che affondavano ancora e
ancora in quel buio e in quel nulla. Non era cambiato, il buio. Non era
cambiata la deriva che viveva, sempre che fosse ancora viva, e cui si
abbandonava come in un bozzolo, in attesa. In spasmodica nervosa attesa, con la
frustrazione della debolezza e dell’incomprensione pronte a risvegliarsi ad ogni accenno, ad ogni minimo immoto movimento, pensiero
di movimento. Non era cambiato nulla. Neppure il silenzio. C’era ancora
silenzio. Era solo un diverso silenzio: l’ossessione della pioggia.
E. E si
era chiesta se fosse davvero pioggia; se fosse davvero lo scroscio dell’acqua
quel suono che fischiava e scendeva fin nei recessi, come un serpente, girando
e rigirando in spire eleganti e lunghe e lisce. Si era chiesta se fosse davvero
acqua, o non piuttosto il gocciolare ritmico del sangue da membra abbandonate;
il gorgoglio del respiro che si colora di rosso ed esce schiumante dalla bocca.
Il sangue; e la bocca. Era; era un qualcosa di conosciuto. Assieme al ricordo
di un risucchio. Sì; proprio il verso strozzato dell’acqua che mulinella e scende e scende e
sparisce. Un risucchio. Come se da qualche parte, qualcosa o forse qualcuno la
stessero succhiando. E non avrebbe saputo dire se era solo una sensazione, la
consapevolezza o forse la paura di un qualcosa non meglio definito o se,
semplicemente, quel vortice era lì, nella sua testa, nei suoi occhi ciechi, ed
era solo il rumore dell’acqua che cadeva goccia a goccia.
Le era anche sembrato di poterle contare, tutte quelle gocce. Una, due,
dieci, ventimila, sette miliardi. Tutte. Le sentiva tutte. Rimbalzare nel
nulla; perforare il nulla. Era stato come se avessero
penetrato la sua stessa pelle; come aghi sottili che scendevano sempre di più
in quel corpo che non aveva o non riconosceva.
La pioggia era stata la follia.
L’ossessione che si era fatta densa e pesante; l’ossessione e basta. Negli
spasmi e nelle torsioni che laceravano e comprimevano ed erano solo pensiero che
non riusciva, non poteva, liberare. La pioggia. Diventava grida; diventava lacrime e risate e urla e schiaffi e carezze e
dolore e…piacere. Sì; c’era stato piacere. In un certo momento, assieme alla
pioggia, assieme ad un silenzio che era ovatta e sapeva, lo sentiva, era falso
e irreale e distante, lo ricordava, c’era stato piacere. E orrore.
La pioggia; il piacere; l’orrore.
Per. Per. Non lo riusciva a definire; non con esattezza.
Ricordava. Ricordava che il nero era diventato grigio. O forse era colore. Sì;
tanti colori precisi, tanti colori che avrebbe dovuto
rimettere al loro posto. Forse dei visi; forse degli abiti. E delle voci. Voci
come colori: e il rosso era lussuria, il giallo sgomento, il blu livore, il verde ingenuità, il nero durezza e il bianco…il bianco
era terrore. Ed era la sua voce; nella pioggia. O nel silenzio.
I ricordi e le sensazioni si
accavallavano, si sommavano; un viso, una parola, una mano, una bocca. Denti, zanne, artigli, stoffa, occhi, acqua, aria, morbido, duro.
Rabbia, dolore, paura, tristezza. Consapevolezza. Di qualcosa. Di qualcosa che
faceva male, maledettamente male. E che non riusciva, o forse solo non voleva,
realizzare, recuperare e affrontare. Non subito; non ancora.
Prima il silenzio; poi la
pioggia. E infine il sole.
Il rumore del sole.
Il tintinnio di
un furin; il fruscio di un ventaglio; il singhiozzo
cupo del sozu; lo sfrigolio del kayaributa.
Ha un rumore strano, il sole. Mille piccoli suoni che si rincorrono ed
esplodono nella testa. Era diverso dalla pioggia. Ed era stato come se tutto
avesse riacquistato un equilibrio. Il nero restava nero; il corpo restava formicolio lontano. Ma
c’era quel barlume di diverso che piano piano
cresceva e metteva radici e si apriva. C’erano momenti in cui credeva di
poterlo vedere, anche, il sole. In quel nero, c’erano macchie che diventavano
ancora più scure e tremavano e si intensificavano e
poi, piano piano, quasi con dolcezza, ritornavano
indistinte e immobili. Restavano i suoni, e un rimbombo come nel cristallo.
C’era qualcosa di confortante in quel miscuglio che non avrebbe neppure saputo
dire se sentiva davvero o solo immaginava. Come la
pioggia; come il silenzio.
Forse era solo una stupida
illusione; forse erano le mille percezioni del suo corpo ormai smembrato: e il
sole erano le ossa abbandonate; e la pioggia erano denti e zanne e saliva; e il
silenzio e il buio erano le viscere di un demone o l’umido della terra. Quello
che, quasi con paura, aveva realizzato di non avvertire era il dolore. C’erano,
a volte, piccole scosse, come lo sfilacciarsi di una stoffa, ma erano lontane,
quasi estranee. C’erano momenti in cui le mancava l’aria o qualunque cosa
stesse o credesse di respirare. E si sentiva comprimere e schiacciare prima di
ritrovarsi con i polmoni pieni d’ossigeno e il desiderio di tossire per
liberarsi della troppa aria. Ma non c’era dolore. O
forse era tutto dolore; e ne era talmente assuefatta, quasi anestetizzata, da
non distinguere quello nuovo dal vecchio, da sommare semplicemente ogni
retaggio di percezione e abbandonarvisi quasi con
necessità. Ogni fremito, ogni minima eco, ogni barlume di possibile
consapevolezza era un miraggio cui arpionarsi per coltivare, cullare, il
desiderio, il limite della speranza, di poter tornare indietro; di poter , prima o dopo, riaprire gli occhi e il sole sarebbe stato
sole e la pioggia pioggia e il silenzio si sarebbe
dileguato in una girandola di suoni confusi e quasi fastidiosi. Sparire. E
ritornare. Fosse anche per ritrovarsi in piedi nel padiglione medico, in
quell’ospedale improvvisato in cui si era costretta a trascorrere gli ultimi
mesi. Sarebbe andato bene anche l’odore di sake
caldo, di sangue marcio e vecchio, il fetore di corpi madidi sotto una volta
che bruciava e la nausea che ti prende e preme e attorciglia lo stomaco, mentre
una mano corre alla bocca e inghiotti acido e disgusto e cerchi e inventi ed
elabori una scusa, una stupida sciocca facile scusa per allontanarti e non
mostrare lo sconvolgimento che, nonostante l’abitudine, nonostante il tempo
trascorso, non se ne vuole andare, e ti costringe a digiunare e rigettare quel
poco che sei riuscita a mangiare e ti lascia addosso un
velo che si deposita e ti avvolge e prende forma e corpo e consistenza in sogni
o forse incubi fatti di sensazioni, di violenze che esplodono e ti lasciano con
il respiro rotto e la voce annodata in gola.
Prima c’era stato il silenzio;
poi la pioggia. Infine il rumore del sole.
E un soffitto
di legno grezzo e grigio. Non sapeva quando, ma quel soffitto aveva
riempito i suoi occhi con una naturalezza quasi disarmante. Come se ci fosse
sempre stato, come se il buio, il silenzio e ogni percezione non fossero stati
altro che quello stesso soffitto. Non lo ricordava; non ricordava
di averlo mai visto prima. Se ancora poteva parlare di prima. Quel soffitto era
diventato un buco, un universo che si allargava e scendeva come catrame ad
avvolgerla. Mentre le ore passavano; mentre i riflessi diventavano bianchi, poi
gialli, rossi e neri e argento. La luce. Non esisteva nemmeno il pensiero della
luce. C’era solo quel soffitto, in ogni istante, in ogni millesimo di respiro. Il soffitto e i suoi colori; inquietanti. Era stato
inquietante. Perché c’era stato un passaggio, ne era cosciente. Prima era il
silenzio; dopo il soffitto.
Ma non
sapeva cosa fosse più confortante. Il corpo restava un ricordo lontano; e gli
occhi, sempre che fossero concreti e reali, restavano fissi lì, in alto.
Sarebbe bastato così poco; inclinare appena lo sguardo, oppure muovere la testa
o qualsiasi cosa avesse al suo posto. Abbassare gli occhi. Ecco: la trave
smussata e grezza si incunea sotto alla volta; c’è il
muro lì in fondo. Un muro di paglia e fango essiccato; o forse è legno. Legno
lucido come acqua, dalle nervature scure e oblunghe, con qualche nodo che ti
guarda. Come un occhio. Un occhio grande e rugoso in una
faccia senza contorni.
Sarebbe bastato così poco. Seguire il profilo irregolare della trave e scendere. Il
muro; o forse una porta. Una porta nel muro. E fuori. Fuori. Scoprire dov’era; scoprire che il refolo che sente – o crede di sentire – è
uno sbuffo d’aria; vedere il cielo; vedere la luce.
Sarebbe bastato così poco.
Ma la testa, gli occhi, restavano lì, a quel soffitto. Non voleva, non poteva
muoverli. Aveva paura. Paura di girarsi e scoprire il nero, e
il silenzio. Paura di muovere gli occhi e non vedere; o vedere troppo. Mani, bocche, gambe, seni. Paura di risentire
quell’invasione, quella violenza scivolarle lungo quello che, forse, era il suo
corpo. Paura di scoprire le pareti molli e umide di uno stomaco, anche se,
ragionando, si dava della stupida. Se sei in uno stomaco
sei morto; e un morto non vede. O forse sì? No. Meglio non
pensarci; meglio restare alle venature della trave.
C’è una ragnatela, sulla trave.
Un filo sottile e lucente. Non lo vedi sempre; ogni tanto, quando quella luce
lo colpisce, manda come un barbaglio, e nella polvere sottile d’oro sembra una
stella. Una stella bianca in un cielo giallo. Le
faceva paura, quella ragnatela. Stava lassù, in alto,
e sembrava ridere e ridere ad ogni luccichio. Sembrava
sapesse tutto, e la guardasse e la compatisse e ci godesse nel vederla lì,
dovunque fosse, dibattersi e annaspare senza nemmeno sapere più per cosa; per
andare dove.
Il soffitto di legno era stata la normalità. Per tanto e tanto tempo.
Poi, con lentezza, il soffitto
era diventato un tetto; e i colori avevano iniziato a rompersi. E il silenzio;
nel silenzio c’era stato rumore. Lontano e confuso, ma rumore. Diverso dai rimbombi della sua mente,
dagli echi dei suoi ricordi. Quei suoni non li poteva
controllare; non dipendevano da lei. Se ne era accorta una mattina, aprendo gli
occhi. O lasciando riemergere la trave dal buio. Si
era accorta che era stanca. Pesante, e che qualcosa, in modo confuso ma
continuo, le sussurrava di muoversi. Anche solo di poco, ma muoversi. E c’era quel formicolio e quella sensazione di gonfio, di grande
e fastidioso e. E. Gonfio. Come quando immergi un
panno in un secchio e lo chiudi: c’è aria e la stoffa si tende e tira e sotto
vedi le sacche che galleggiano e premi e premi e ti
accorgi che lì, l’aria e l’acqua, sono gonfie. E lei si sentiva come una bolla:
gonfia. E stanca; e pesante.
Assieme al soffitto e alle luci,
il gonfiore era diventato una compagnia. Non era stato più nemmeno fastidio,
quasi piuttosto sicurezza. Se si sentiva gonfia, forse voleva dire qualcosa. Il
corpo può essere gonfio, giusto? Il corpo. I corpi si gonfiano. Si gonfiano
quando…quando. No. No. Non così; non doveva ragionare così. Da capo;
ricomincia: trave. Ecco: la trave. La vede; o comunque vede
qualcosa. Brava, prosegui. Vai avanti. Trave e dopo? Trave e poi…Poi il muro.
Certo. Il muro. A destra e a sinistra. Un muro o un soffitto. E poi il
gonfiore. C’era anche il gonfiore; e non è una sensazione mentale. Ne è sicura.
È concreto. È vero.
Deve solo avere pazienza, ecco.
Deve ricordarsi di cosa sia la pazienza. E il gonfiore se ne andrà; piano piano, ma se ne andrà. Certo. È
naturale. E allora potrà. Potrà. Potrà qualcosa. Alzarsi? Forse. Guardare?
Certo: guardare. E il muro scenderà e laggiù ci sarà una porta e fuori dalla porta. Fuori dalla porta. Cosa vorrebbe
ci fosse, fuori dalla porta?
Leone.
Sì; vorrebbe ci fosse Leone. E la casa dei nonni, fra le montagne. Vorrebbe avere la
febbre, la febbre alta. E fissare la finestra; la finestra della sua camera, quella che affaccia sul gruppo
del Brenta. E aspettare. Perché il nonno ha chiamato Leone, e Leone arriverà
presto. Leone è sempre venuto quando si ammalava. O le telefonava. Il cellulare
squillava e squillava e quando lei diceva Pronto? Leone rispondeva: sarò lì presto.
Leone è sempre venuto, quando era
ammalata. E le portava un regalo. Perché Milano è bella e lontana e piena di
cose strane. Leone le portava sempre un regalo. Un gioco quando era piccola, una maglietta un po’ ricercata, un gioiello etnico.
Poi, libri.
Leone.
Vorrebbe che ci fosse Leone, da
qualche parte, fuori dalla porta. O sulla porta. Che ride e ride
e le dice che è la solita, che sa combinare solo guai. Perché non è un guaio,
forse, ammalarsi in estate, quando non c’è scuola e il caldo è fastidioso e lui
ha prenotato per due settimane di mare e adesso deve disdire tutto e lavorare
anche in vacanza? Leone avrebbe riso, ne era certa. Avrebbe riso e le avrebbe
detto che, in fondo, era lo stesso. Che il mare non se ne va da nessuna parte e
con un ombrello aperto e qualche asciugamano il mare potevano
vederlo lo stesso.
Aveva…Sì, nove anni. Nove anni la
prima volta che Leone era piombato in camera sua e aveva appeso al soffitto un
lenzuolo blu con tanti pesci di carta e una grande lampada ricoperta di carta
velina e due asciugamani e un boccaglio e…E il proiettore. Le aveva detto: ti insegno a fare le immersioni. E
erano rimasti nella stanza semibuia, nel caldo, a fissare i riflessi strani di
una lampadina contro la carta velina. Le era sembrato bello; bello
e incredibile. E si era convinta che suo fratello fosse un mago: perché le
aveva portato il mare e i delfini e i granchi in camera.
Aveva diciannove anni Leone,
quella volta. E avrebbe potuto andarsene al mare da
solo, con qualche amico o con la sua ragazza. E invece era rimasto con lei, era
rimasto per lei.
Leone non viveva più con lei e i
nonni da qualche anno, ma non se ne era mai accorta veramente. Perché quando
serviva Leone veniva. E stava con lei.
Venivano anche mamma e papà, ed
era contenta. Ma lei voleva Leone.
E lo avrebbe voluto ancora: fermo
sulla porta, un bicchiere di aranciata e un libro. Si sarebbe seduto sul letto;
e avrebbero riso e giocato e scherzato.
Avrebbe voluto Leone.
E non un soffitto con una
ragnatela grande e cattiva e un corpo che non è nemmeno un corpo
ma una cosa gonfia che tira e sembra pronta a esplodere. E fa male. Fa molto
male. Soprattutto alla spalla e al petto. Mentre respira, quando la bocca si
apre e l’aria scende. È come se raschiasse qualcosa; come se la gola non ce la
facesse più. E c’era un sapore indefinito, un sapore
fastidioso. Miele e qualcos’altro; qualcosa di amaro.
C’era voluto tempo.
Prima che le luci non fossero
solo luci; prima che il soffitto diventasse un
soffitto vero, e la trave diventasse una trave vera, di quelle che reggono
qualcosa, un qualcosa che non sia solo una speranza di normalità. C’era voluto
tempo, prima di trovare il coraggio di muoverla, la testa, e farla scivolare di
lato, i capelli a offuscare gli occhi, e ritrovarsi a fissare un rettangolo
male illuminato nel riverbero serale del sole e di un fuoco che sonnecchiava.
C’era voluto tempo, prima che i frammenti si ricompattassero e da sprezzi ed
emozioni e sensazioni riemergesse la percezione nel corpo. Lentamente. Prima la
punta delle dita; i polpastrelli sorpresi di avvertire qualcosa di morbido
oppure di liscio. Prima i polpastrelli; poi il gonfiore e la sensatezza si
erano dilatati in gambe e mani e piedi e fianchi e collo e torace. Lentamente,
le sensazioni si sommavano, e accanto all’abitudine emergeva il nuovo, il
meglio definito. Aveva realizzato di essere sdraiata, sdraiata supina. In un futon probabilmente; un futon su un tatami. C’era
odore di cenere e di pruno bianco. Era rilassante, come una nenia sussurrata.
La cenere, il
pruno bianco e riflessi opalescenti.
C’era voluto tempo.
Prima che i riflessi non fossero
solo riflessi. E Alessandra si era ritrovata a fissare un viso semitrasparente
dai contorni sfumati. Un viso da donna, con un accenno più scuro di cavità
oculari e i tratti che si delineavano senza volontà di
definirsi nettamente.
Era rimasta a guardarla.
La guardava mentre si avvicinava,
impalpabile ed eterea. Sapeva di pruno bianco e di acqua. Sapeva di
tranquillità, ed era bella. Troppo bella. E Alessandra desiderò di trovare la
forza di allontanarsi; desiderò poter controllare il suo corpo e scappare.
Perché quella creatura era troppo bella, e faceva paura. Tanta paura.
Tremò mentre le sedeva accanto; tremò mentre quelle mani impalpabili e fatte come di luce le
percorrevano i contorni del kimono e scivolavano sulla seta. Tremò; e anche se
quel contatto era leggero, simile ad un soffio di
vento, sentì altre mani afferrarla e stringerla e strappare e toccare e
costringere e, e, e. E.
Alessandra chiuse gli occhi e
tentò di ricacciare in gola il nodo e la saliva che se ne stavano lì, in fondo
alla bocca, incastrati e fermi, in un gorgoglio fastidioso ad
ogni respiro. Mentre le mani restavano lì, sul suo corpo. Sul suo corpo inerme.
Sul suo corpo inerme che veniva svestito senza chiederle permessi o altro. La seta
che scivola sulla pelle e la sensazione di pensante e umido dell’aria calda; le
mani che sfiorano e ascoltano e tastano e controllano.
E non c’era più una sola donna.
C’era tante donne.
Tutte uguali. Tutte madreperlacee
e senza volto, o con un volto che non riusciva a
definire. E la toccavano. La toccavano e la spogliavano e la sollevavano.
Era stato un momento: un violento
capogiro e lo spazio di scorgere una fusuma alle sue
spalle e luce. Tanta luce. E poi un cuscino sotto la testa e negli occhi tutte
le lacrime che avrebbe voluto piangere mentre era in
quel silenzio assordante. Il cuscino e le mani fredde (erano davvero fredde?) a toccarla e la porta laggiù, lontana, con il suo
intreccio di bambù immobile nel frinire assordante delle cicale. Era stato un
momento, dilatatosi all’infinito. E assieme alle percezioni confuse, violento,
era riemerso qualcosa di brutto, qualcosa che le aveva stretto la bocca dello
stomaco e premuto e contratto fino a darle, inaspettata, la forza di sollevarsi
a sedere annaspando e respirando a pieni polmoni, una mano sulla bocca e una
stretta artigliata allo stomaco.
Era stato un momento; un ricordo
indefinito che le aveva invaso la testa e i respiri profondi e la calma che si
era imposta erano svaniti in un conato di vomito
violento e prolungato. Un momento, e si era ritrovata con la bocca impastata e
amara, e quel brivido che ti scivola nelle ossa, mentre senti la stomaco ribellarsi ancora e ancora e stringi gli occhi
con la gola che si chiude e di dilata con un ritmo che non sopporti e non puoi
controllare.
Non ricordava quanto.
Non ricordava quante volte mani
estranee avessero dovuto sostenerla, tergerle sudore e saliva e riaccompagnarla
mentre il suo corpo debilitato scivolava in basso. Velocemente;
molto velocemente.
Non ricordava; ma sapeva. Sapeva
che era successo. Due volte; tante volte. E sapeva che
non c’era mai stata una parola. Un commento, un rimprovero, un incoraggiamento.
C’erano solo mani; in ogni momento. In ogni dannato momento.
Anche negli incubi. E avevano occhi, quelle mani. E bocche e denti e lingue. La
afferravano, la stringevano, la mordevano, la leccavano. Sul viso, sul petto,
sul seno e giù, ancora più giù. Avrebbe voluto urlare; forse, di notte, urlava davvero. Ma quando riapriva gli occhi
il soffitto era il soffitto e quelle donne eteree erano sempre lì,
accanto a lei. Silenziose e inquietanti.
Una volta aveva avuto l’impulso
di afferrarle.
Aveva teso spasmodica la mano
verso un braccio, verso una luminescenza semitrasparente. Aveva paura, quella volta. Molta paura. Perché gli incubi erano
sempre più chiari e definiti; perché nel sonno i ricordi e la realtà si
sommavano alle paure e ai pensieri. Perché, per quanto ignorasse il tempo
trascorso, lo avvertiva lento nel ritmo costante della natura. Non le era
rimasta altro che la natura, in quel mondo diverso e sconosciuto. E nelle
lunghe notti trascorse insonni nella sua stanza, a palazzo, quando nemmeno gli
infusi e i decotti bastavano a cancellare gli orrori di corpi smembrati e l’odore
di carne bruciata e sanguinante che si sentiva addosso, fin dentro le ossa; in
quelle lunghe notti consumate da sola, alla luce tremula di una candela per non
tremare, o convincersi a non farlo, delle ombre strane disegnate sulle
nervature della carta di riso; in quelle ore, aveva iniziato ad ascoltare.
Il palazzo prima.
Con rumori così simili il giorno
e la notte, come non esistesse soluzione di continuità. Come se un sussurro o
una nenia continua serpeggiassero nei corridoi in ogni istante. Non era fastidio;
e non era sicurezza. Quasi una presenza necessaria e ineluttabile, un velo
impalpabile tessuto fra legni e lacche per tenerli uniti e impedire che
qualcosa, qualcosa di non definito, di fumoso, andasse in pezzi.
Prima aveva ascoltato il palazzo.
E poi il fuori. I ringhi e i richiami di demoni diversi, riunitisi lì, in quel
palazzo. Forse per paura; forse per fedeltà. Tanti demoni. Con aspetto diverso e voci diverse; mille voci. E a volte
aveva sentito solo rumore e nessuna parola. A volte, nel padiglione
dell’ospedale, nella cacofonia che rimbombava e ti penetrava nelle orecchie
fino a stordirti; a volte, le era sembrato che non ci fossero rumori, ma rombi di temporali, eco del vento, il rimbombo di
una grotta, il tintinnio delle foglie. Rumori; suoni. E natura. Non ci aveva
mai pensato seriamente, ma anche durante le battaglie e gli scontri gli echi
che si allargavano sul palazzo non erano suoni
precisi. Sembrava piuttosto l’infuriare del vento su un mare in tempesta; o lo
stormire frenetico e secco dei rami in mezzo ad un fortunale.
O forse era una stupidaggine che
la sua testa aveva inventato per sopportare ogni cosa; una valvola di sfogo che
le permettesse di ascoltare e al tempo stesso non sentire. Come con i ricordi. Come con i ricordi e le sensazioni di quel giorno. E allora
la nausea rimontava e quelle donne eteree la dovevano sorreggere e stringere e
premerle a forza in gola qualcosa di caldo e amaro. Premerle
la scodella sulla bocca e tapparle il naso. E lei poteva solo
inghiottire. Aveva potuto solo inghiottire; anche quella volta. E le mani erano
rudi; e il corpo era nudo; e la gola bruciava e faceva male mentre le urla
scendevano giù, con quello che le avevano fatto bere a forza.
Adesso le mani erano gentili;
adesso la costrizione era attenta. Ma non era cambiato
nulla. E quando perdeva il controllo; quando quelle mani tornavano, luride e
lussuriose, a toccarla, nei sogni o negli incubi ad
occhi aperti; quando si risentiva forzare e le sembrava di vederli ancora,
chiari, violacei, i lividi che quelle mani, quegli artigli, le avevano lasciato
sul corpo. Quando riusciva a trovare la forza e lo sfogo non si concentrava
sullo stomaco che si annoda e si ribella, allora quelle donne riapparivano. Ed
erano tante.
E le prendevano le mani che
graffiavano e cercavano di togliere pelle e sensazioni sgradevoli che forse non
se ne sarebbero mai andate. Le prendevano le mani e cercavano di fermarne i
tremiti convulsi e le urla isteriche.
Era pietosa. Lo sapeva. Pietosa e
isterica. E non le interessava.
Alessandra sapeva solo che se non
avesse fatto qualcosa, anche solo qualcosa di insensato
e umiliante, sarebbe impazzita. E sapeva che la pelle non la
si può cambiare; sapeva che con il tempo i lividi si erano riassorbiti e
i vestiti erano altri vestiti e quelle donne l’avevano lavata e lavata mille
volte. Ma non importava.
E c’era male e c’era un sollievo
insensato e doloroso mentre cercava di premere le unghie nella carne e
graffiare e farsi sanguinare. Mentre cancellava sotto ad accanimento e rabbia
lividi che solo lei vedeva; mentre scacciava mani e lingue e artigli che non
c’erano più ed erano sempre lì. Nella sua testa; sul suo corpo.
C’era voluto
tempo.
Prima che riuscisse di nuovo a
fissare una parte del suo corpo senza che i conati di vomito o un brivido
isterico l’attraversassero. C’era voluto tempo. E
pazienza.
Sua; e di quelle figure
evanescenti.
Non le avevano rivolto la parola
per molto tempo. O forse, in realtà, era poco. Il tempo. Era diventato così
insignificante; un avvicendarsi di momenti che volevano solo dire: presente e
passato. E quello che era successo Alessandra voleva, doveva, diventare
passato.
C’era voluto tempo. Prima che
riuscisse di nuovo a emergere da un bozzolo in cui esisteva
solo lei e il suo corpo umiliato. Tempo prima che la testa si muovesse con
cautela e vedesse davvero la stanza dove si trovava. Diversa
dalla sua stanza a palazzo; diversa dal palazzo. Il rumore era diverso.
Un silenzio sussurrato e tranquillo che all’inizio le aveva fatto paura. Si era
abituata al mormorio continuo e alla tensione sottile che la attraversava in
ogni istante, in ogni gesto. Si era abituata a sentirsi addosso
occhi e disgusto; a stringere e ingoiare parole e reazioni che, lo
sapeva, sarebbero state solo controproducenti. Si era abituata a mentire; a
tutti e soprattutto a se stessa. E se l’indifferenza e la maschera di freddezza
che aveva indossato alla morte dei suoi genitori era
stata un’accusa, una muta inquietante lunga accusa, solo in quel futon, nuda e
senza più difese, stanca; solo in quel futon si era accorta della nuova
maschera, così simili a quella vecchia e così maledettamente diversa. E la
aveva indossata per. Per cosa? Per farsi accettare? Lo
voleva davvero, essere accettata da quei demoni? Era davvero…importante?
Importante.
Importante per cosa? Per chi?
Importante. Cos’era davvero importante? Per lei. Importante. Leone era
importante; e lo aveva perso. E aveva perso tante altre cose; per sua scelta,
per sua decisione. Ma le aveva perse. Ed erano
importanti.
Cos’era importante? La stanza
dove si trovava? No. Quella non era importante. Quella era solo una stanza che
sussurra e respira. Come quella a palazzo; come mille altre
stanze. Ma era così rassicurante. Con il tempo,
era diventata conforto e protezione: aprire gli occhi e poter riconoscere la
piccola crepa nell’intonaco, la nervatura che sembra una bocca sulla trave a
destra, mezza nascosta dalle ombre. Non arriva mai il sole, lassù in alto, a
destra; solo alla sera. Solo la sera, quando il sole
entra obliquo dalla shoji alle sue spalle; solo la
sera quella bocca di legno si allarga in un sorriso da bambino. E sembra dirti:
ricordati di ridere. Ricordati che le cose possono andare bene.
Bambini.
C’erano anche bambini in quella noka. Li aveva intravisti una mattina, nella luce incerta
del crepuscolo, mentre facevano capolino fra le canne di bambù. Li aveva
osservati, senza pronunciare una parola o fare un gesto. Solo osservati. Li
aveva visti una mattina; e poi erano spariti. Ed era comparso quel suono, come
di nacchere d’osso o di pietra. C’era stato quel rumore
ritmico e indefinito per giorni, e voci confuse e sottili. E i bambini.
Erano
riapparsi un pomeriggio di pioggia, filtrando attraverso le pareti come piccoli
fantasmi. Ma non erano fantasmi, di questo Alessandra
era stata certa quando un bambino le aveva teso le braccia e si era ritratto
ridendo quando aveva allungato la mano. L’avevano toccata e si era lasciata toccare. E quando arrivavano c’era
profumo di resina.
Non erano fantasmi; e non erano
pericolosi. Le donne che l’accudivano li ignoravano e
li lasciavano avvicinare. No, non erano pericolosi. Erano solo bambini strani,
di tre o quattro anni, con la pelle scura o verde e abiti di foglie e
corteccia. Ma era bello vederli scrutare attenti il suo viso; era bello tendere
la mani e osservarli mentre la esploravano.
Non parlavano. Non parlavano mai
con lei. Ma ridevano e di domande ne facevano; suoni
che sembravano lo stormio delle fronde. Le vedeva, le
bocce piccole e sottili, aprirsi e chiudersi e modulare
parole che non avevano suono. E lei scuoteva la testa e rispondeva no,
non ho capito. E i bambini ridevano e battevano le mani e sembrava che avesse detto loro la cosa più gentile che potesse.
A volte c’erano solo i bambini; a
volte c’erano delle piccole ombre indefinite. Un sasso grigio perlaceo con
piccole cavità immobili che la fissavano scuotendo ritmicamente la testa. Erano
loro le nacchere d’osso; erano loro il suono continuo che percepiva al
tramonto. Ne aveva preso in mano uno, una volta; così
piccolo da poter essere chiuso nel palmo e sembrava di stringere fumo e nebbia.
Kodama.
Si chiamavano kodama: gli spiriti degli alberi.
Già. Kodama.
E Kinoko.
E poi c’era lui.
Lui.
Dieci o forse mille anni. La leggerezza di un sorriso un po’ impertinente e la serietà di
un’età non dimostrata. Era diverso; molto diverso.
L’aveva studiata a lungo, le aveva detto. Da lontano. Studiata per curiosità e
noia. E l’aveva interessata. Adesso, voleva sapere se le sarebbe piaciuta.
Era strano: un bambino in
eleganti abiti di seta e raso, i capelli corti e l’odore dell’acqua. Già:
l’acqua. Che sciocchezza! Alessandra se lo era ripetuta mille volte: l’acqua
non ha odore; è solo acqua. Ma ogni volta che Ryoshi si sedeva accanto a lei; ogni volta che la sua mano
la toccava, le sembrava di immergersi in un lago, di venire
avvolta dall’acqua e galleggiare. Quando la toccava, avvertiva l’istinto di
ripassare la mano sulla parte sfiorata, con la convinzione che l’avrebbe
ritirata bagnata. Ryoshi sembrava acqua; acqua concentrata. E forse acqua lo era davvero, perché la
pioggia gli scivolava addosso e non lo bagnava; perché disegnava nella scodella
piccoli segni e pesci e cavalli e uccelli iniziavano a prendere forma e si
muovevano per la stanza, in una piccola scia di goccioline rinfrescanti.
Era bello con Ryoshi.
Le aveva insegnato a riconoscere kinoko e kodama; le aveva
insegnato cosa fossero kinoko e kodama.
Parlava molto, Ryoshi; come
un bambino costretto per molto, molto tempo, al rigore del silenzio. Parlava
molto, ma era sempre attento; e se la vedeva stanca o persa nei suoi pensieri
restava in silenzio.
Le aveva detto che si trovava al
sicuro, in una noka. Le aveva detto di non pensare a
nulla; le donne si sarebbero prese cura di lei per tutto il tempo necessario, e
anche dopo se lo avesse voluto. Era al sicuro; non c’era nulla di cui
preoccuparsi.
Al sicuro.
Alessandra lo aveva toccato per
la prima volta dopo giorni. Quando finalmente era gattonato fino a lei e i
riflessi che il sole strappava dalla sua figura erano spariti. Ryoshi era corpo e sostanza, ma
contro il sole sembrava un cristallo. La luce si rifrangeva creando mille
piccole ombre e linee azzurrine; o in giorni particolari o al tramonto, si
spezzava in infiniti arcobaleni.
Ryoshi
si era avvicinato e aveva lasciato che gli accarezzasse la testa, i corti
capelli neri sempre un po’ umidi e lucenti. Era rimasto in silenzio a lungo,
quella volta, Ryoshi. Mentre Alessandra piangeva per
l’ennesimo incubo; mentre Alessandra piangeva e si mordeva a sangue un labbro
nella paura, folle, grande, che di nuovo la sua bocca avrebbe urlato, che di
nuovo quelle donne sarebbero accorse per fermarla e tenerla ferma. C’era solo Ryoshi, quel giorno. Gli altri, i kinoko
e i kodama li aveva fatti
scappare, con le sue grida che si strozzavano in un singhiozzo. C’era solo Ryoshi, e una benda sul suo polso, lì dove aveva morso
forte per sentire male e sentire la pelle tremare e il
sapore del sangue in bocca e trovare la forza, di nuovo, di vomitare. Per il
disgusto che provava; per il sapore che le riempiva la bocca all’improvviso,
senza un motivo. Lo riconosceva sempre, quel sapore:
il gusto amaro di quell’intruglio che le avevano fatto bere.
Perché.
Perché. Già. Perché. Ricordava
anche quello, adesso. Perché abortisse. Perché non ci fosse il pericolo che un
bambino crescesse nel suo grembo. Perché lei era una ningen, e non aveva
valore. Perché un hanyou sarebbe stato solo un disonore.
Perché sarebbe stato figlio suo.
“Devi smetterla di pensarci”
Ryoshi.
Ryoshi
sapeva; in qualche modo, sapeva. Forse glielo leggeva
nella mente; forse glielo avevano raccontato le donne. Forse. O forse non
sapeva nulla; forse sapeva solo che stava male e
qualunque cosa fosse la soluzione migliore era dimenticare. Accettare e
cancellare. E andare avanti. Forse. Ma in fondo non le
importava se Ryoshi sapesse o ignorasse. Perché era
lì; e le bastava. Era lì e rideva, la bocca piena del riso degli onigiri e le gambe sempre in movimento, a scalciare in
aria, quando si era sollevata a sedere da sola la prima volta. Era lì, mentre
ricacciava le vertigini e la nausea e con lentezza ritrovava la forza per
alzarsi in piedi e provare di nuovo a camminare, sorretta da quelle donne. Era
stato come ricominciare; come se avesse dimenticato tutto e anche il semplice
susseguirsi dei passi fosse una cosa da scoprire, da riapprendere. Non era
stato facile; proprio no. Era caduta; aveva sentito le gambe tremare e
abbandonarla. Aveva sentito la debolezza invaderla e la nausea assalirla. Era
stato faticoso, e lungo. Ma quando, per la prima volta, era riuscita dal futon
a raggiungere la cucina in muratura; quando si era voltata, la fronte madida di
sudore, il respiro corto per l’eccitazione e lo sforzo, scarmigliata e bella
nella sua piccola semplice conquista; quando si era girata,
Ryoshi era lì, e la fissava con la bocca a metà fra
un sorriso e un grido di gioia. La fissava e le braccia e il corpo fremevano
come reprimesse l’istinto di correre da lei e abbracciarla. La fissava e poi,
alla gioia del bambino, si era sostituito l’orgoglio di un adulto; e la testa
aveva concesso un cenno più eloquente di molti discordi e parole.
Quella sera, mentre la pioggia
cadeva ritmica, mentre Alessandra respirava e sorrideva, Ryoshi
era andato a trovarla, e aveva l’aspetto di un ragazzo. Le si
era seduto distante, composto e imbarazzato; e forse un po’ intimorito. Alessandra-sama era stata violentata, almeno
psicologicamente. Alessandra-sama era abituata a
vedere attorno a sé donne etere e youkai bambini; ed
era abituata ad un altro aspetto della sua persona. Ma
Ryoshi non amava mentire, e ad Alessandra-sama
aveva deciso di dire la verità, di fargliela vedere. E
le aveva raccontato.
Le aveva detto di essere un mizuchi, uno spirito dell’acqua. Uno youkai
o forse un kami. Non sapeva nemmeno lui se esistesse
davvero la differenza; se fosse importante, una differenza.
E che non aveva un suo vero aspetto, ma mille forme, mutevoli e cangianti come
lo è l’acqua. Perché il bambino? Se voleva ingannarla? No, non voleva
ingannarla. Voleva conoscerla, glielo disse candidamente, accomodandosi contro
lo stipite della shoji. Voleva conoscerla e parlare
con lei. E aveva scelto la forma di un bambino. Perché kodama
e kinoko sono come bambini; perché un bambino è rassicurante. Perché. Perché. In fondo, non c’era
nemmeno un vero perché. Doveva scegliere una forma e l’aveva scelta
con naturalezza, per istinto.
Ma di dirle
bugie no, non voleva. Perché Alessandra-sama non le meritava, le bugie. Perché con Alessandra-sama
era bello parlare e ridere e restare in silenzio ad ascoltare la pioggia o il
sole o il canto dei kodama nel tramonto. Non le
meritava le bugie, Alessandra-sama, Ryoshi ne era certo. E aveva deciso di farglielo vedere,
davvero, che il suo aspetto di bambino era solo uno dei molti aspetti. Ma la sostanza. La sostanza non cambiava. Ryoshi era Ryoshi, come l’acqua è
acqua che sia ghiaccio o nuvole.
Ryoshi
è Ryoshi.
E voleva solo avere la sua
compagnia; in qualunque forma lo volesse accanto. Aveva paura del ragazzo?
Sarebbe tornato bambino. Non si fidava più del bambino, sarebbe diventato
pesce, o anatra o ghiaccio o pioggia o nuvola. Sarebbe diventato qualsiasi cosa
volesse, qualsiasi cosa la rassicurasse. E se ne
sarebbe andato, se Alessandra-sama non lo volesse più
vedere. Se ne sarebbe andato e basta, ma Alessandra-sama doveva promettergli che si sarebbe alzata
ancora e che, la prossima volta, non si sarebbe fermata alla cucina in
muratura. Doveva promettergli che la prossima volta sarebbe andata alla porta,
e avrebbe sollevato la cortina di bambù. Doveva prometterli che sarebbe uscita;
perché è bello, il posto dove si trova e non è solo una noka
rassicurante. Perché i kodama e i kinoko
gli avevano confidato che avrebbero voluto farle vedere il bosco; perché
l’acqua è tiepida e c’è sole e non è giusto restarsene
sempre chiusi nella noka.
Ryoshi
aveva un tono di voce tranquillo e adulto, con un timbro un po’ più profondo
della voce di quando era bambino. Una voce non ancora formata, ma che già
lascia percepire la seduzione di cui sarà capace. Le aveva parlato a distanza,
ma era come se fili d’acqua avessero serpeggiato attorno a loro per tutto il
tempo, a costruire una cortina che, adesso, Alessandra poteva semplicemente
infrangere e avrebbe visto sparire in uno scroscio di perle. Qualunque cosa
decidesse, Ryoshi le aveva detto: non smetterò di
guardarti.
E Alessandra aveva detto sì.
Alessandra aveva detto sì, che restasse. E ritornasse il bambino che l’aveva
salutata a testa in giù la prima volta. Un giorno, forse. Un giorno forse
avrebbe detto: fammi vedere il ragazzo. Ma non ancora;
non era ancora pronta per il ragazzo. Il bambino andava bene; e non avrebbe
dovuto smettere di parlare. E avevano parlato tanto, quella notte. Sussurrando.
Avevano parlato tanto, quella
notte. Finchè una delle donne che la accudivano non aveva detto a Ryoshi:
vai. Continuerete domani.
“Vi state rimettendo. Ne sarà
informato”
E nella piega delle labbra
Alessandra aveva avvertito sgomento e dubbio; negli occhi che si abbandonavano
al sonno, la donna aveva scorto un guizzo di paura, di sorpresa. Nel non
riuscire ad afferrare il significato delle parole; nel naufragare alla ricerca
di un senso preciso che sfuggiva. Informare. Informare chi? Ryoshi
se ne era appena andato; e Leone non c’era più. Chi? Chi andava informato?
Aveva sentito le labbra muoversi, ma non ricordava di aver pronunciato suono. O
forse la sua testa ronzava troppo per distinguere un suono. Ma
chi? Chi? Chi doveva sapere che stava meglio? Chi?
Forse lo aveva chiesto davvero;
forse la yasha lo aveva
letto sulle sue labbra mute o solo intuito dal suo disorientamento. E
inclinando la testa di lato le aveva risposto, con un nome che Alessandra, con
paura, si accorse di non aver mai pensato.
“Sesshomaru-sama”
*****
Sesshomaru.
Era strano; molto strano. Ma non ci aveva pensato.
Mai. Da quando. Da quando. Forse semplicemente da quando aveva perso conoscenza
dopo quel giorno. O lo aveva chiamato, pensato, invocato? Non lo ricordava.
Sesshomaru.
Il suo nome. Perché adesso le
suonava così…distante. Era davvero distante? Da quando? Quando si era creata, quella distanza? O c’era sempre stata e lei, ingenua
e sciocca, non l’aveva mai voluta vedere?
Sesshomaru.
Sesshomaru non c’era. E quella
era la sola sicurezza che aveva. Non c’era quando stava male, nel delirio della
febbre che la consumava; non c’era mentre quei demoni, i demoni
del suo palazzo, della sua corte, contravvenivano agli ordini, ai suoi ordini,
e la violavano. Non c’era quando il respiro diventava rantolo e la gola faceva
male per le urla e il pianto; non c’era durante i giorni passati
nell’incoscienza, a macerare sensazioni e paure. Non c’era quando aveva
riaperto gli occhi e la prima cosa che aveva visto era stato
un soffitto sconosciuto. Non c’era per calmarla, non c’era quando si era
sollevata a sedere e, dopo mesi, era riuscita a mangiare di nuovo qualcosa di
solido; da sola. Non era suo il braccio che l’aveva sostenuta mentre provava i
primi passi: c’erano altre mani, effimere e distanti, che si tendevano dal
doma. C’erano altre parole, un’altra voce che la incoraggiava e la spronava. E
c’era stato un altro sorriso e un altro lampo
d’orgoglio quando si era alzata in piedi e da sola era riuscita a raggiungere
la porta, un passo incerto accanto all’altro. Per dire: ancora. Posso farcela
ancora. Sto migliorando.
Sesshomaru.
Sesshomaru non c’era. E di lui,
del suo viso, l’ultimo ricordo che aveva e andava sfumando in contorni
cristallizzati ed eterei, era di un viso schizzato di sangue, sporco di polvere
e sudore, in mezzo ad un campo di battaglia. La sua voce che diventava sempre
più lontana e le sue mani che scomparivano. E poi. Ah sì! Il sapore del suo
sangue. Lo aveva morso; gli aveva morso una spalla. O
forse era stato il collo o il polso o. Non ricordava. Ma lo aveva morso, sì. Mentre. Mentre Inuyasha faceva forza
contro la sua schiena e cercava di estrarle la naginata.
Già: la naginata.
Il dolore e il respiro che sparisce d’un tratto dai polmoni. Le era rimasto solo
quello: frammenti confusi di sensazioni. Troppo confusi per riarticolarli e dar loro una consequenzialità logica.
Però la naginata era stato
il prima, l’inizio. E poi c’era stata la terra, il corpo che non risponde e. E bianco. O forse era nero o rosso o.
Non importa; non importa. Non ha senso pensarci. Non
serve; a niente.
Il palazzo, dopo. Sì; il palazzo.
Sesshomaru l’aveva riportata a palazzo. E l’aveva lasciata a palazzo.
Per giorni, settimane. Forse
anche mesi. Non lo sapeva. Non aveva ancora avuto il coraggio di chiedere
quanto tempo fosse realmente trascorso; quanto lunga fosse stata
la sua incoscienza e poi la convalescenza.
Il palazzo.
E poi, ne era sicura, si era
svegliata. Ed era a palazzo. E aveva visto gli altri: Inuyasha, Miroku, Koga. E Yaone e Homoe e Rin e Ayame. Sì: li aveva visti.
E li aveva ignorati. Ma era stato dopo; dopo che il
suo corpo era stato spogliato e toccato e violato. Dopo che mani e artigli
avevano stretto i suoi seni e il suo ventre fino a farle male, fino a farla piangere e singhiozzare, confondendo parole e colpi di
tosse con la frustrazione della debolezza. Era stato dopo; quando non
sopportava che qualcuno la guardasse, che qualcuno la toccasse. E poi.
Poi.
Sesshomaru.
Sì: Sesshomaru. Come sul campo di battaglia: il viso schizzato di sangue e l’odore
ferino della battaglia. Era stato davvero lui a prenderla in braccio?
Era stato davvero suo il petto contro cui aveva
reclinato la testa e si era lasciata andare? Ricordava voci; voci
confuse e lontane e come una carezza un po’ rude e un po’ imbarazzata. Ricordava.
Erano davvero ricordi? O forse erano illusioni. Stupide sicurezze che si era costruita per ignorare, di nuovo, qualcosa che non
sopportava, che non voleva vedere. Forse lo erano davvero, delle illusioni.
Forse la noka era solo un’altra stanza del palazzo;
forse il silenzio che avvertiva era il silenzio dopo
che accampamento e assedio erano stati tolti. Il silenzio del palazzo.
Non lo conosceva, si accorse.
Conosceva il palazzo pieno di demoni; conosceva il
serpeggiare continuo della tensione nelle membra in ogni istante, la perfezione
di gesti ricercati e ripetuti all’infinito con la naturalezza dell’azione
immediata. Conosceva il palazzo durante la guerra; ma non lo aveva mai visto in
tempo di pace.
Pace. La pace.
Esiste la pace, per un demone?
Esiste lo scorrere pigro dei giorni in piccoli sciocchi quotidiani rituali? O forse
uno youkai ha altri rituali, altre quotidianità. E
quella che ai suoi occhi è guerra per loro è normalità; e quella che ai suoi
occhi è pace è morte.
Forse. Forse Sesshomaru l’aveva
davvero portata via. Via dal palazzo; via dalla violenza. Via da tutto. Glielo
aveva detto, alcune volte, prima che andasse. Glielo aveva detto anche quella
notte, quella trascorsa nella stanza di sua madre: andare via. Di nuovo. Di
nuovo lontani dal palazzo. Di nuovo lontani da maschere e cerimoniali. Andare
via; senza pensarci. Andarsene e basta.
Sesshomaru glielo aveva promesso:
ritornerò. Glielo aveva detto; e poi la voce si era affievolita ancora, meno
del sussurro che le aveva concesso. E gli occhi, ancora ciechi, ancora opachi,
erano scivolati oltre il rettangolo della finestra ed erano rimasti lì, senza
parlare, senza definire cosa potesse significare, quel dopo nel ritorno.
Sesshomaru era tornato, certo.
Con lei fra le braccia; e se ne
era andato di nuovo. Con lei. E adesso? Adesso dov’era? Forse di nuovo a palazzo?
O forse, alla fine, aveva realizzato che quel qualcosa
che era nato fra loro non valeva tutta la tensione e i rischi e l’aveva
semplicemente lasciata andare. In fondo, non c’era nulla che le potesse dare la
certezza che il ritorno dello youkai
significasse davvero un qualcosa. Semplicemente, poteva significare una parola:
fine.
Fine di tutto; fine
di quel poco che si era creato piano piano; fine di
quel precario equilibrio raggiunto con sforzo e sacrifici. E maschere reindossate.
Maschere, già. Perché aveva reindossato una maschera, a palazzo? Per proteggersi? O
forse. Forse lo aveva fatto per lui, perché il dubbio dell’errore non lo
sfiorasse. Alessandra sospirò, rigirando il tè. No: la maschera l’aveva
indossata perché voleva, perché si sentiva protetta; e perché Sesshomaru doveva
essere tranquillo e sicuro di lei. L’aveva indossata per sua scelta, per
studiato calcolo. E aveva lasciato che si stratificasse sempre di più, cerone e trucco e di nuovo cerone. Senza
mai toglierla per far respirare la pelle e aggiustare le piccole crepe.
Troppa fatica; troppo pericolo. L’aveva indossata e l’aveva mantenuta. Correggendola senza modificarla; lasciandosela asciugare addosso
ancora fresca di umiliazione e rabbia. Sì: aveva scelto lei di
indossarla; e Sesshomaru non aveva fatto nulla per togliergliela.
Era strano.
Strano come solo dopo mesi, solo
dopo tanta incoscienza, mentre riusciva a restare seduta sull’engawa e gustarsi il declinare del sole autunnale,
realizzasse l’assenza. Con naturalezza. Come era
diventato naturale sdraiarsi nel futon di Sesshomaru e aspettarlo; come era
diventato naturale il gesto del suo collo quando si piegava per baciarla. Non
si era mai accorta di piccoli gesti ripetuti sempre, e sfumati con la medesima
naturalezza con cui si erano creati. Adesso naturale era svegliarsi da sola;
adesso la quotidianità era la notte spiata dalle shoji
socchiuse e le parole sussurrate nello stormire dei grilli. Adesso la costante
era Ryoshi.
E Sesshomaru. Sesshomaru era
rientrato nei suoi pensieri con l’eleganza che gli era propria. Quasi con
sfacciata irriverenza. E restava lì, a ossessionarla, a costringerla ad
analizzare ed analizzarsi. Sempre; sempre. Anche se la
risposta era facile; dannatamente facile. Sarebbe
bastato fare un cenno e subito l’avrebbe avuta, quella risposta. Le donne
gliel’avrebbero data; o Ryoshi.
Ma il
problema non era la risposta, Alessandra ne era consapevole. Il problema era la
domanda.
La domanda.
Cosa chiedere?
Dove fosse? Forse nemmeno loro lo sapevano. Se l’avesse abbandonata? Non glielo
avrebbero mai detto, anche se lo avessero saputo. E Alessandra dubitava che
qualcuno sapesse esattamente cosa Sesshomaru volesse o pensasse. Se sapessero
quando tornava, ecco. Quella sarebbe stata una buona domanda; un’eccellente
domanda. Ma farla. Farla era difficile. Perché ogni
volta che apriva la bocca; ogni volta che prendeva un
respiro e la formulava nella testa, immediata risuonava un diniego che non era
certa di voler sentire davvero. Perché in fondo significava realizzare
davvero che l’aveva lasciata; e che qualcosa era cambiato. Qualcosa che forse
non avrebbe mai saputo, che non gli avrebbe mai sentito pronunciare. E che era
così definito e facile da farla ridere; quasi.
Se ne era accorto.
Se ne era davvero accorto. E
anche lei. A mente fredda, approfittando della pace della convalescenza, dei
ritmi tranquilli che le erano stati imposti, Alessandra aveva potuto pensare. E
la conclusione più lucida che aveva articolato era stata disarmante: ningen e youkai.
La differenza. Una differenza
reale.
Aveva sempre pensato alla razza;
aveva sempre pensato che essere ningen e youkai
significasse un po’ essere europei e asiatici. Solo
una differenza etnica; solo uno stupido pregiudizio che l’abitudine e il
dialogo può appianare, può insegnare a equilibrare.
Stupida. Era stata una stupida. E le bastava fissarsi le mani ancora pallide e
smagrite per averne la prova tangibile: il suo corpo, la sua mente, la sua
essenza. Tutto di lei gridava alla pazienza e alla tranquillità. Era stata
colpita; era rimasta ferita e aveva passato giorni in stato d’incoscienza,
divorata dalla febbre e incapace di mantenere a lungo la lucidità. Quando si
era risvegliata, la mente debilitata non era stata capace di sorreggere
l’ondata mnemonica ed emozionale che l’aveva invasa all’improvviso, violenta. E
adesso c’era la convalescenza, lunga e difficile, un riapprendere tutto da
zero, quasi fino nel ritmo del respiro.
Da quando aveva camminato la
prima volta, da sola, sul dome e fino alla piccola
cucina in pietra, doveva essere trascorso più di un mese. Un mese;
probabilmente ormai era la metà di ottobre. E quindi facevano quattro mesi:
quattro mesi da quando era stata ferita, ai primi di
giugno, o forse era la fine di maggio. Presto cinque, probabilmente. E a fatica
riusciva a percorrere piccoli tratti senza che il respiro divenisse affanno e
il corpo tremasse. Ryoshi le aveva detto che la
pazienza era necessaria; che sarebbe tornata a
camminare e correre normalmente. Era stata ferita a un polmone; il sangue e
l’aria si erano mescolati e il respiro era divento saliva rossa. Considerando
l’epoca in cui si trovava, Alessandra realizzò con un brivido che poteva ritenersi
fortunata ad essere sopravvissuta.
Quasi cinque mesi. Per riuscire a malapena a restare in piedi e camminare senza
bisogno costante di un sostegno. Cinque mesi. Quando gli youkai che curava dopo le battaglie, nel volgere di due
giorni, erano in grado di ritornare sul campo. I più gravi potevano impiegare
al massimo una settimana. E avevano corpi mutilati che si riformavano; avevano volti cianotici e ustionati che ritornavano eterei e
madreperlacei senza segni o intaccature. Lo sapeva: aveva visto il viso di
Sesshomaru cancellare le ustioni di quell’acido o qualunque cosa Naraku gli
avesse gettato addosso in pochissimo tempo; lo aveva visto abituarsi alla
cecità con la facilità con cui ci si adatta ad un
abito nuovo. Lo sapeva. Ma non lo aveva mai voluto
considerare seriamente. Sottigliezze, si era detta. E aveva sbagliato. Adesso
lo sapeva; adesso lo sapeva davvero.
Era una consapevolezza che non
riusciva a spiegare. E forse non si poteva nemmeno chiamare consapevolezza. In
definitiva, i tasselli li aveva sempre avuti davanti
agli occhi, ma solo alla fine era riuscita a decidersi a comporre il mosaico.
Perché. Perché significava realizzare davvero che, per
quanto si legasse a lui, non sarebbe mai stata capace di comprendere davvero
Sesshomaru. E, Alessandra lo sapeva, quella zona d’ombra che ci sarebbe sempre
stata non era certa né di riuscire a definirla né di poterla accettare. Era
stata la paura, in fondo, a frenarla; la paura l’aveva
sempre frenata; su molte cose. Ma adesso aveva davvero
senso, quel ragionamento? Sesshomaru non era con lei; e forse non ci sarebbe
stato mai più. Forse, quando si fosse rimessa completamente, le yasha le avrebbero dato alcune provviste e indicato una
direzione. Una a caso o già concordata con Sesshomaru.
Non avrebbe avuto importanza; si sarebbe ritrovata di nuovo sola, in quel mondo
diverso e, adesso ne era pienamente consapevole, pericoloso. Chissà. Forse
avrebbe potuto stabilirsi lì; forse Sesshomaru voleva che si stabilisse lì. Con
Ryoshi. Sì; con Ryoshi
sarebbe stato possibile ritrovare un equilibrio. Ma
non c’erano garanzie; non c’era nulla. Ryoshi era uno
youkai o un kami; era comunque
diverso da lei. E di nuovo avrebbe potuto svanire,
evaporare come una goccia d’acqua.
Lo voleva davvero? Voleva davvero
legare se stessa a qualcosa che non poteva capire e che non avrebbe mai capito? Forse sarebbe stato più semplice cercare di ritornare
al villaggio di Kagome e Inuyasha; ritornare e cercare un modo per rientrare
nel suo mondo, nella sua quotidianità. Nella peggiore delle ipotesi, avrebbe
potuto ricrearsi una vita a Musashi. Fra ningen come lei; fra persone con cui
aveva condiviso qualcosa di importante.
Sì. Era una possibilità.
Ma.
Già; c’era quel
ma. Sesshomaru.
Sesshomaru e il loro rapporto
indefinito. Davvero così fragile? Davvero per uno youkai
i sentimenti non esistono? Davvero si era limitato a un diversivo, con lei? No.
Alessandra non voleva crederlo; non accettava di crederlo.
Però. Però non era lì. E
anche questa era una realtà innegabile. Ma forse. Forse
non era lì perché non poteva esserci. Forse la battaglia non era stata decisiva
come tutti loro avevano sperato e attorno al palazzo si combatteva ancora. E
Sesshomaru è necessario, sul campo di battaglia.
Informarlo, è vero. Le avevano
detto che lo avrebbero informato. Forse. Forse stava solo aspettando il momento
migliore per tornare. Per tornare a prenderla. O forse no.
Sospirò pesantemente.
Erano giorni che rimuginava e
inseguiva teorie e ipotesi, senza risultato. In fondo, per quanto pensasse e
immaginasse, l’unica soluzione per ottenere risposte sarebbe stato
chiedere. Chiedere e rassegnarsi ad accettare qualsiasi cosa le fosse detta.
Sesshomaru.
Aveva voglia di parlargli. Aveva
voglia di vederlo e. Forse voleva davvero solo
vederlo. E cercare di capire se realmente qualcosa fosse cambiato, e
soprattutto in che modo. Capire cosa esattamente fosse successo e perché, per
cosa, tutto fosse semplicemente diventato passato, scivolato dalle dita come
sabbia. Una ragione. Doveva esserci una ragione. Una sciocca stupida inutile
insensata ragione. Ma sentirla. Avesse potuto
sentirla: dalla sua bocca, dai suoi occhi. Forse avrebbe ribattuto; o forse
avrebbe chinato la testa e accettato e basta. Forse. Non lo sapeva; non ci
voleva pensare. Ma vederlo, quello sì. Scoprire con
che occhi l’avrebbe guardata adesso. Scoprire se l’avrebbe ancora guardata. Senza sentire su di lei, sul suo corpo, l’odore di altri demoni, le
mani e la lussuria di altri youkai.
Era per quello? Era stato per
quello che l’aveva lasciata? Lasciata. Alessandra strinse le mani, forte. Che
pensiero sciocco. Lasciarla. Sesshomaru non l’aveva lasciata. Non c’era nessun
rapporto ufficiale fra di loro. Non c’era nulla di
definito, fra di loro. Già: proprio una sciocca. Aveva
rifiutato in ogni modo di essere una oiran e si era ritrovata a ricoprire un ruolo simile ad una
yotaka. In fondo, qual era la differenza? Le notti
clandestine, i baci strappati negli angoli bui dei corridoi, la rigidità
compassata impostasi e i gesti spezzati. La distanza. La distanza che si era
scavata fra loro giorno dopo giorno, mentre i loro corpi di avvicinavano, si toccavano, imparavano a riconoscersi. Se. Se avesse fatto
l’amore con lui. Se quella notte, l’ultima trascorsa assieme, Sesshomaru non si
fosse fermato, lei non gli avesse permesso di fermarsi sarebbe cambiato
qualcosa?
Rise piano,
quasi un singhiozzo. Stupida. Stupida ragazzina innamorata. Lo sei ancora,
innamorata? O era dipendenza?
Cos’era?
Cos’era il rapporto che ti legava
a lui? Sai descrivertelo, sai spiegartelo? No. Non sai farlo. Perché sei sempre
stata più impegnata a cancellare e mascherare e ignorare piuttosto che assaporare
e scoprire. Perché faceva paura, quel crampo che ti prendeva lo stomaco e
scendeva caldo. Perché faceva paura stare bene; e ti sentivi in colpa, mentre youkai combattevano e morivano,
alla sera sorridere nel suo abbraccio, riposare vicino al suo petto. È esistito
davvero, quel rapporto? O sei stata solo tu a costruire pensieri e speranze
false? Non glielo hai mai chiesto: mi ami? E non glielo hai mai detto. E
adesso? Se lo avessi davanti, cosa faresti? Glielo diresti?
No; non glielo diresti. Perché
non lo sai più, se lo ami. Non sai se saresti capace, di amarlo. O forse sì;
forse glielo diresti perché, in fondo, sapere ed essere capaci sono due
pensieri troppo razionali. E non si può dire ti amo con leggerezza. Non si può dire ti amo e basta, ma lo devi dimostrare, lo devi
imparare. Passo dopo passo; errore dopo errore. No.
Non glielo diresti. Non glielo diresti con le parole.
Lo guarderesti.
Lo guardi.
Perché Sesshomaru ti sta
fissando, nel rosso del tramonto autunnale. E il tempo sembra dilatarsi,
fluttuando assieme alle foglie di ginko, spezzandosi
nelle ombre che si allungano placide e sornione. Ti sta guardando, e tu te ne
resti seduta sull’engawa, senza forza per alzarti e
senza la sicurezza che non sia solo un abbaglio della mente. Lo volevi così tanto. Guardarlo: il viso elegante, dal profilo definito,
con al mandibola che va delineando sempre di più un
viso maschile. È cambiato. Nella separazione, è cambiato. Come cresciuto.
Alessandra lo vede; ed è come se fossero passati anni. Inghiotte a vuoto e si
accorge di avere la bocca socchiusa e mille domande ferme in gola. Paura. Già; la sua solita sciocca inutile paura. Di farlo andar
via, di allontanarlo. Sesshomaru le ricorda un lupo o una volpe argentata. Le
ricorda la lince che ha visto una volta nei boschi, da bambina, con Leone.
Aggraziata e fiera; bellissima e inquietante. L’aveva intravista quasi per
scherzo, mentre sonnecchiava fra le felci e il muschio. L’aveva vista e aveva
trattenuto il respiro e il grido di entusiasmo si era strozzato in gola e
allargato in un sorriso muto. Leone l’aveva abbracciata e a quel movimento, per
quanto minimo, Alessandra ricordava le orecchie della lince scattare attente e
il corpo flessuoso scivolare nell’ombra.
Era la stessa sensazione. La
stessa trepidazione e timore. Restare immobile, le
labbra socchiuse e il respiro quasi dimenticato, perché non se ne andasse. Per non vedere il marrone e l’ocra della seta guizzare e la sua
schiena allontanarsi.
Si lasciava guardare, e
Alessandra riconobbe quasi con intimo sollievo la testa inclinarsi leggermente
di lato. Un gesto abituale, rilassato. Aspettava. Cosa esattamente Alessandra
non lo avrebbe saputo dire: forse che lo raggiungesse; forse che gli rivolgesse
la parola. Forse, semplicemente, che il tempo scorresse.
Stava bene. Fiero, eretto,
rilassato. Adulto, realizzò all’improvviso. Aveva ancora davanti agli occhi un
ragazzo, e le sembrava di vedere un uomo. Qualcosa. Qualcosa stava cambiando,
lì, sotto i suoi occhi. Qualcosa che non era sicura di voler vedere, di saper
affrontare. Crescere. Cosa significa crescere, per uno
youkai? Cosa comporta?
Strinse gli hakama.
No. Non doveva pensarci; non aveva senso pensarci in
quel momento. Sesshomaru era davanti a lei; e non era un’illusione. La mano. Le
sarebbe bastato sollevare la mano e fare un cenno d’invito. O
aprire la bocca e parlare; anche a raffica. Anche dicendo mille piccole
sciocce cose che, lo sapeva, gli sarebbero scivolate addosso senza toccarlo.
Qualcosa. Le sarebbe stato sufficiente anche un cenno
leggero. E Sesshomaru si sarebbe avvicinato. Forse; o forse era lei a dover
trovare la forza di alzarsi e raggiungerlo. Forse. Invece il corpo restava lì,
abbandonato sull’engawa. La forza;
trovare la forza di alzarsi in piedi e mantenere l’equilibrio; passo dopo
passo, avvicinarsi. Avrebbe barcollato; forse sarebbe anche caduta.
Sarebbe stata goffa; goffa e stupida nel suo
ondeggiare da ubriaca; e non le sarebbe importato. In confronto a lui, sarebbe
sempre stata goffa e impacciata. Ma andare. Andare e
sentire di nuovo le sue braccia sorreggerla e stringerla.
Le sue braccia. L’avrebbe
abbracciata ancora?
Avvicinarsi.
Alessandra si morse il labbro. Non le piaceva affatto il pensiero che la sua mente stava
elaborando, contro la sua volontà. Avvicinarsi. Chi aveva fatto la prima mossa,
qualcuno aveva fatto davvero un passo in più?
Sesshomaru si era lasciato accostare con il sospetto e l’indulgenza sottile di
un predatore curioso. Si era lasciato avvicinare e l’aveva studiata. La stava
ancora studiando, nel vento colorato d’oro e polvere secca. Continuava a
studiarla. E quegli occhi. Quegli occhi non erano cambiati dalla prima volta
che si erano incontrati. E allora cosa? Cosa voleva
dire, avvicinarsi?
Avrebbe potuto; sì, avrebbe potuto provare. Ma. Ma forse era vero che qualcosa era cambiato. Dopo che la naginata l’aveva precipitata nell’incoscienza; mentre il
tempo e i mesi passavano. I mesi. Cinque mesi. Cosa sono,
davvero, cinque mesi? Cos’era successo, in quei cinque
mesi?
Cinque mesi. Sono solo due
parole; a pronunciarle sono meno di un respiro. Cinque mesi. Ma
sono tempo; tempo trascorso e modificato. Per lei; e forse anche per lui.
Perché qualcosa. Qualcosa era davvero cambiato. O forse no. Forse era lei ad essere ancora troppo confusa e stanca per affrontare tutto
e semplicemente si rifiutava di pensare. Pensare. Aveva pensato tanto, in
quelle settimane. E adesso. Adesso che avrebbe potuto avere risposte, si
accorse di non volerle. Si accorse della paura che restava lì, in gola, in un
nodo che la soffocava. Paura. Aveva paura. O era solo consapevolezza? Di quello
che avrebbe potuto ascoltare, di quello che sapeva
avrebbe sentito. No. Semplicemente non le interessava; non le interessava più sapere qualcosa.
Sesshomaru era di fronte a lei.
Le sembrava quasi di poter
distinguere il lieve pulsare della vena sotto il mento; quella piccola vena che affiora leggera quando piega la testa di lato. Le
sembrava di distinguere il movimento impercettibile del petto che respira. Il
petto. C’era del sangue, sul suo petto, l’ultima volta che lo aveva visto.
Sangue di demoni e di umani. E c’era. C’era un taglio, forse un morso, profondo
che lasciava intravvedere il bianco dell’osso e il suono fastidioso di uno
sfrigolio assieme all’odore penetrante di sudore, adrenalina e marcio. Era. Era
ferito, sì. Ferito e bello. Scosse la testa; o avrebbe voluto scuoterla, portarsi una mano alla tempia e massaggiare
piano. Per ricacciare indietro quel pensiero…quel pensiero…Disdicevole,
ecco. Quel pensiero assolutamente disdicevole e fuori luogo. Era; era solo
curiosità. No: preoccupazione. Ecco: preoccupazione. Altrimenti; altrimenti non
avrebbe avuto motivo di avvertire il desiderio di spogliarlo. No, nessun
motivo. Solo sincerarsi che si fosse realmente rimesso. Curiosità, certo. Solo curiosità. Era una brutta ferita; forse gli era rimasta
la cicatrice; forse. O forse la pelle era tornata perfetta. La pelle. No!
Basta. Basta. Doveva smetterla. Non aveva senso; non aveva assolutamente senso.
Sesshomaru.
Sesshomaru era scomparso. Dalla
sua mente, dai suoi pensieri. Nell’incoscienza, nel delirio, nella
convalescenza. Ecco: quella era la certezza. Non lo aveva pensato; non lo aveva
chiamato. O non aveva avuto il coraggio, di farlo? Perché avrebbe fatto male,
urlare e invocare e aprire gli occhi e accorgersi che lui non c’era; che non
c’era mai stato. Avrebbe fatto male; molto male. Allora. Allora
meglio lasciar cadere anche la speranza; meglio aggrapparsi al rassicurante.
Sesshomaru.
Sesshomaru non era rassicurante?
Era una presenza; una presenza cui si era abituata.
L’aveva calmata; l’aveva sorretta. L’aveva rassicurata? Le aveva dato certezze?
Non lo sapeva. Come non capiva cosa significasse quell’incontro, quel guardarsi
senza accennare a nulla, come attraverso un velo invisibile.
Piangere. Aveva creduto che
avrebbe pianto, quando lo avesse visto rientrare a palazzo. Piangere
e ignorare le occhiate di compassione e malizia degli youkai.
Piangere e abbracciarlo forte, nella sicurezza delle loro stanze. Piangere e
sorridere sulla sua bocca, mentre lo baciava, mentre non cercava di capacitarsi
che era tornato. Davvero tornato. Da lei.
Piangere.
Aveva pensato davvero che avrebbe
pianto, quando lo avrebbe rivisto. E invece. Invece le lacrime non c’erano; e
di sollievo e felicità non c’era che un vago sentore, aggrovigliato a mille
altre emozioni contorte e confuse. No; non era paura. Non lo era. Era solo…Non
lo sapeva. Non lo capiva. Ma Sesshomaru la guardava, e sembrava brillare, esser
circondato da quella debole luminescenza che gli era propria in certi momento. Alessandra non lo aveva mai capito. Non aveva
mai nemmeno voluto capire se quell’alone fluorescente che a volte lo circondava
fosse reale o solo un’allucinazione di occhi stanchi o un gioco di luci con
l’armatura e il kimono bianco. Però. Però in quel momento il kimono era scuro, e di armature e
metallo non c’era nulla. Eppure. Eppure Sesshomaru
sembrava irradiare qualcosa.
Il sole.
Certo, era il sole. Un gioco di
luci. Eppure. Eppure il sole non si riflette sulla
carne, non risplende sul corpo. Cos’era? Era davvero qualcosa? No. Non era
importante. Non era assolutamente importante. Non ci doveva pensare.
Sesshomaru. Esatto: doveva pensare a lui, a…A cosa? A come avvicinarlo? Ecco:
forse era quello il problema. Forse in realtà non si erano mai realmente
avvicinati. C’era una sensazione strana, un formicolio che vibrava; come se ci
fosse un vetro, o un foglio sottilissimo di carta di riso. Lo vedeva, e le
sembrava così distante. O era lei ad essere distante?
Le mani si strinsero di riflesso. Distante. Era davvero distante? O era solo
l’imbarazzo e la sorpresa del momento? Poteva. Poteva davvero allungare la mano
e chiamarlo. E non lo faceva; la mano restava lì, in grembo, e per quanto la
mente elaborasse ordini il corpo non rispondeva.
Sarebbe stato così facile,
maledettamente facile. Ecco:
respirare a fondo, per controllare il tremito un po’ roco della voce.
Respirare a fondo e accennare un sorriso, un qualcosa che non fosse
l’espressione indefinita che si sentiva addosso in quel momento. Un sorriso, un gesto e un invito. Facile; naturale. Come erano diventati naturali i gesti d’intesa, le intese a
distanza. C’era; c’era come un codice fra loro. Una ritualità di sguardi,
parole accennate e gesti fluidi che nascondevano sottintesi e discorsi. C’era.
E adesso. Adesso non lo ricordava; non riusciva a ripeterlo. I gesti: così
semplici, così immediati. Così distanti.
Perché? Perché non ci provava?
Perché aveva il sentore che ci fosse qualcosa di strano, che in lei qualcosa si
ribellasse al pensiero di avvicinarsi, di lasciarlo avvicinare?
Non si sentiva ancora pronta, ecco. La cosa più semplice: il suo corpo non si
era ancora ristabilito e anche se i lividi, i graffi e le contusioni, vecchie e nuove, erano ormai svaniti. Lo yogi
cadeva largo e abbondante sulla sua persona smagrita; e le mani quasi
scomparivano nelle maniche larghe, troppo larghe in troppo poco tempo. Lo
sapeva, lo aveva visto: mentre faceva il bagno, avvolta dal vapore, tastava e tastava ogni osso, ripercorreva ogni centimetro della pelle,
su contusioni e segni che non c’erano più e ancora vedeva e sentiva bruciare,
tanto. Alla fine, le era sembrato anche naturale avere quell’aspetto debilito,
era riuscita ad accettarlo con un respiro più profondo e la consapevolezza che
solo il tempo avrebbe potuto aiutarla. Il tempo e la discrezione delle bijin-sama che si occupavano di lei.
Bijin-sama.
Adesso parlavano; adesso, la
sera, trascorreva tranquilla con una tazza di tè e una conversazione pacata. Raccontavano; le raccontavano
del loro paese, delle montagne verdi e fresche d’estate e bianche e mortali
d’inverno. Le spiegavano: la mutevolezza della loro figura, e la trasparenza
cristallina del loro corpo. Spiriti di montagna, le
avevano detto. Spiriti di luce e del riflesso del sole sui ghiacci o nei
piccoli corsi d’acqua; soffio del vento sull’erba rada e fra i rododendri.
Ridevano; e sembrava una pioggia di sassolini sulla roccia. Nelle
parole, il ronzio etero e soffuso di un’ape. Era piacevole conversare
con loro; era curioso vederle rimpicciolire e smarrire la forma semiumana per
ridursi a piccoli globi striati di rosso e blu, in una nube nera che sfavilla
come fosse il riflesso del cielo più profondo. Erano così piccoli, quando non
avevano forma umana: poco più grandi di una mano. E c’era quel sibilo
ininterrotto, quel ronzio che era conforto e quotidianità. Era diventata la sua
quotidianità. Rassicurante e calda.
Pazienza.
Glielo ripetevano sempre, nei
gesti soffusi e delicati che le usavano; nella ciclicità delle giornate uguali
a se stesse, scandite dal sole e dai lenti passi nella noka
e nel giardino. Non le mettevano fretta; non la rimproveravano quando
barcollava e la sostenevano mentre il corpo stanco si rilassava nel futon,
nell’acqua della vasca che sapeva di muschio e resina calda. Pazienza. Il corpo
si ristabilisce solo nel tempo: l’incarnato sarebbe tornato rosato, le occhiaie
e la magrezza si sarebbero dileguati con indulgenza e
naturalezza. Non era un male; non era una colpa. Era stata male; molto male.
Era stata incosciente per giorni, a pochi passi dalla morte, a pochi passi dalla follia. Non importava; non importava
se di sorridere non aveva sempre voglia; non importava se le lacrime fossero
scese. Non c’era trucco da conservare; non c’erano maschere da indossare. Non
con loro.
Non con lui.
Sesshomaru.
Con lui le maschere erano caduto; erano. E adesso. Adesso aveva la sgradevole
sensazione che ne avesse reindossata
un’altra. Ma più probabilmente era solo l’abitudine: la naturalezza di
mostrarsi anche a lui capace di provvedere a se
stessa, di sorreggersi. E poi. Poi semplicemente era vergogna e imbarazzo.
Perché se ne sarebbe accorto del corpo smagrito, se l’avesse abbracciata. Si
sarebbe accorto nei fianchi larghi e del seno un po’ cadente, si sarebbe
accorto delle labbra più sottili e della tibia più sottile, rotta
anni prima, in quella notte maledetta. Si sarebbe accorto di mille
piccoli sciocchi umani particolari; e forse non dopo non avrebbe più voluto
toccarla. Forse non lo voleva e basta.
Eppure.
Eppure non sarebbe stato necessario
toccarsi. Si accorse, in un respiro spezzato, di non desiderarlo,
un abbraccio o un bacio. Non in quel momento; non ancora. Sarebbe. Sarebbe
anche solo stato sufficiente averlo accanto, seduto sull’engawa
con lei. Quella vicinanza da cui era iniziato tutto, quando le mani erano
vicine e non si erano ancora toccate, sfiorate. Sarebbe bastato. Ma Sesshomaru non parlava e non si muoveva; e lei. Lei.
Alessandra non capiva; non capiva cosa volesse.
Parlare.
Ecco. Parlare.
Semplice. Immediato. Invitarlo e farlo sedere; aspettare le libellule rosse d’autunno e
chiedere. Chiedere come si fosse conclusa la
battaglia; chiedere cosa fosse successo dopo. Dopo che lei era rimasta ferita e
svenuta fra le sue braccia; dopo che l’aveva riportata a palazzo, nel tempo
della sua incoscienza. Sapere. Sapere se ci fosse mai stato, accanto al suo
futon. Anche solo per un istante, anche solo guardandola da
uno spiraglio della fusuma. Non.
Non importava se non si fosse fermato a lungo. Lo sapeva: era impegnato. Molto
impegnato. Era; Era naturale. Ma. Ma
uno sguardo.
Ecco: uno sguardo.
Sapere come avesse fatto; come
fosse possibile che adesso vedesse. Di nuovo. Se, si corresse, davvero vedeva
di nuovo. Aveva un ricordo confuso dei suoi occhi che sfumavano fra le lacrime
e il sangue; un ricordo liquido e tremolante. Eppure.
Eppure c’era qualcosa di diverso, lo aveva…percepito? No. Forse solo sperato.
Sperato, illuso: mentre l’eco delle grida si allargavano
di nuovo nella sua mente; mentre lo rivedeva accasciarsi a terra, le mani
correre a stringere la testa, a premere gli occhi. Sensazioni. Solo sensazioni;
speranze che forse potevano di nuovo naufragare in un tremito leggero delle
ciglia e rivelare di nuovo iridi spente. Come prima; come sempre. Come una
nuova pesante normalità.
Chiedere.
Chiedere dove fosse, esattamente.
E perché. Perché portarla via da palazzo in quelle condizioni.
Perché mantenere un proposito detto quasi per scherzo, per costruire una progetto e non lasciar naufragare nell’incertezza il
domani. Non ci avevano mai creduto veramente; nessuno di loro. Entrambi avevano
detto: andiamo via. Ed entrambi, lo sapevano, lo avevano detto per
convincersene, per rassicurarsi che quello che era sarebbe stato. Sia prima sia
dopo; e che la guerra non avrebbe cambiato niente; assolutamente niente. Non
fra loro. Lasciando quel vago sentore di non detto e di indefinito
palpabile nell’aria aleggiare senza volontà di concretizzarlo. Che necessità
c’era, di concretizzarlo? Si sarebbero fatti solo del
male; troppo male. No; meglio lasciare tutto indefinito, con
i contorni sfumati.
Così…così…Così.
E il risultato. Il risultato era
svanito fra le lacrime, il sangue e le grida di una giornata su un campo di
battaglia. Naufragato in quell’abbraccio, forse l’ultimo abbraccio,
che Alessandra avrebbe ricevuto da lui.
Parlare.
E chiederli. Chiedergli cosa
volesse fare, a quel punto. Chiedere cosa volesse fare di lei. Riportarla a
palazzo? Forse. Forse sarebbe tornata a palazzo; e imparare a muoversi e
mantenere la testa alta e l’equilibrio con l’obi
legato davanti a impacciarle i movimento. Perché.
Perché se fosse tornata, ormai, poteva solo sperare quello: un obi allacciato sul ventre e l’attesa di
lui nelle sue stanze.
Era. Era quello che voleva?
O forse. Forse avrebbe ripreso a
viaggiare senza meta, e le avrebbe detto di seguirla. Con Rin,
per Rin. Seguirlo come un rurouni; e scoprire quella terra antica e il respiro
innaturale di un mondo sospeso fra umano e divino; intrecciato fra umano
e divino. Seguirlo. Forse lo avrebbe seguito di nuovo.
Oppure. Oppure. Cosa avrebbe risposto, se
gli avesse detto: puoi scegliere. Se gli
avesse detto: scegli. Come mesi
prima; come quando aveva deciso di restare con lui. Per curarlo. Ma allora. Allora la scelta le era sembrata così ovvia e naturale:
Sesshomaru era ferito; si era ferito per proteggere lei. Andarsene; andarsene non era possibile. E poi. Poi era rimasta con lui.
Di sua volontà. O forse. Forse. Il sospetto si insinuò
rapido: forse era rimasta con lui perché non aveva avuto altra soluzione, una
volta a palazzo. Forse lo aveva seguito per provare, e alla fine si era trovata
imprigionata. E lui. Lui era rimasto l’unico punto fermo di quel dilagare, di
quel cambiamento radicale.
Respirò a fondo.
Stava boccheggiando. Stava. Stava
rincorrendo aria; con l’affanno e un sudore freddo e sottile a coprirle la
fronte. E Sesshomaru era davanti a lei, immobile. Sembrava trapassarla con lo
sguardo, ignorare la mano che era corsa ai lembi della veste e che stringeva
convulsamente la stoffa.
Non si sarebbe avvicinato:
Alessandra lo capì in quell’istante. Sesshomaru non si sarebbe avvicinato. Né
di sua volontà né se lo avesse invitato. Sarebbe rimasto a guardarla e basta; guardarla da lontano. Con la curiosa indifferenza che aveva
sempre riservato a un ningen, a un qualcosa che gli si presentava davanti e non
era necessario eliminare. Non ancora, almeno.
Lo realizzo, e il respiro si
smorzo in un rantolo e in un grido che non voleva uscire. Lo realizzò; mentre
guardava l’haori alzarsi in un’onda di stoffa; mentre
guardava l’oro del ginko e l’argento dei capelli si
Sesshomaru fondersi e allontanarsi.
Se ne stava andando.
Sesshomaru.
Le spalle
sempre più lontane; la regalità della sua figura sempre più lontana.
Andando. Se ne stava ancorando. Sarebbe tornato; forse. Sarebbe tornato. Ma non l’avrebbe più toccata; non l’avrebbe più stretta e
baciata.
Non.
Sarebbe. Tornato.
Non davvero. Perché qualcosa. Qualcosa
era cambiato,e anche se lei non sapeva cosa fosse, il
risultato adesso era chiaro, palese. E faceva male; un maledetto male:
Sesshomaru. Da solo. Lontano da lei.
E forse. Forse era quello che
sarebbe dovuto essere da sempre. Forse davvero Sesshomaru l’aveva sempre
imprigionata. Legata con catene silenziose e impalpabili del supporto, di una
sicurezza imposta e ricostruita con un sostegno che, appena lasciato, l’avrebbe
fatta cadere di nuovo a terra, mentre a fatica avrebbe alzato la testa e lo
avrebbe visto continuare a camminare.
Lontano da lei. Senza di lei.
“Tornerà presto”
Tornare. Alessandra annuì; per
riflesso. Ma dentro. Dentro sentiva che no, non
sarebbe tornato. Non sarebbe tornato mai più. Aveva perso qualcosa; e quel
qualcosa non si poteva recuperare. E adesso le sembrava stupido e inutile
chiedere cosa fosse successo; cosa fosse cambiato. Perché. Perché ormai era
cambiato, e Sesshomaru aveva preso una sua decisione. E, lo sapeva, non
gliel’avrebbe mai spiegata. Che senso avrebbe avuto,
spiegargliela.
Sì; sarebbe tornato.
Ma solo
con il corpo. Solo come presenza fisica, distante e irraggiungibile. Di nuovo
irraggiungibile; o forse lo era sempre stato ed era lei la stupida che si era
illusa di un qualcosa che non poteva restare. Perché. Perché non fosse mai
esistito niente; perché tutto fosse solo un crudele gioco della sua mente no,
non poteva crederlo. Non voleva. Non lo avrebbe sopportato.
Sarebbe tornato; e forse le
avrebbe detto addio davvero.
E lei. Lei sarebbe rimasta seduta
sull’engawa a guardare di nuovo la sua schiena
allontanarsi nel vento e nell’oro e a chiedersi se ci sarebbe stata, una
prossima volta. Se sarebbe rimasta sempre, su quell’engawa,
ad aspettare il delinearsi del suo viso nei riflessi del giorno. O se
semplicemente avrebbe chiuso gli occhi e si sarebbe incamminata a sua volta;
dall’altra parte.
Sì; Sesshomaru sarebbe tornato.
Nella sua mente; nei suoi
ricordi. Ma forse. Forse bijin-sama
voleva solo regalarle un ultimo sprazzo di illusoria
tranquillità. Forse era l’ennesima bugia. E allora ci avrebbe creduto: che lo
avrebbe rivisto. Lì, mentre sedeva su quell’engawa. O nel riflesso del mare o nelle ombre lattiginose della nebbia.
Rivederlo. Da qualche parte.
Anche solo per
restare di nuovo a guardarsi senza parole. Prima di allontanarsi.
Forse per l’ultima volta.
*****
“Non l’hai toccata. Perché?”
Fastidiosa.
Quella voce, con una punta di
serietà e sorriso che non riesci a capire se scherza o se parla sul serio. È
fastidiosa; e insinua. Insinua domande e dubbi di cui la sa già, la risposta. O
di cui, in fondo, la risposta non gli interessa. Ha continuato a irritarlo, quella voce. Da quando è arrivato; da quando l’ha
sentita per la prima volta. Ti resta intrappolata nelle orecchie, nella testa,
in modo impalpabile. Come un’eco; come il ricordo di un suono
ritmico e costante. Come la pioggia; o lo sciabordio del mare.
Fastidiosa. Molto fastidiosa.
Perché non può metterla a tacere; perché si ripresenta
sempre, per stuzzicare e provocare. Provocare. Come se bastasse una frase, una
parola detta con leggerezza, a provocarlo. No; non è quello. Non è la domanda.
O forse; forse sì.
Ma la
voce; quel soffio irriverente e sottile accanto all’orecchio. Il sorriso che
svanisce nel riflesso del sole, mentre le spalle si alzano annoiate
al suo rifiuto. Al suo mutismo abituale. Perché non le deve a lui, delle
spiegazioni. Non le deve a nessuno.
Sesshomaru respirò a fondo. C’era
odore di terra; di terra, di resina e di pruno. Era
presto, ancora. Dovevano passare alcuni cicli lunari, prima che i fiori bianchi
del susino punteggiassero l’inverno. Forse. Forse sarebbe stato ancora in quel
luogo, per la fioritura dell’albero. O forse no. Non aveva mai fatto un
progetto simile; non si era mai soffermato a considerare dove si sarebbe trovato il giorno successivo, il mese, la stagione. Andava
bene; andava bene trascorrere il tempo attimo dopo
attimo, in quel fluire eterno e costante che si assottigliava fin quasi
all’immobilità. Andava bene; senza supposizioni o progetti. Fino a quel
momento. Adesso. Adesso invece qualcosa era cambiato. E si era ritrovato a
considerare il tempo trascorso dopo la fine dell’assedio. Il tempo a palazzo;
il tempo che aveva trascorso lontano da palazzo. Il
tempo con Alessandra. Il tempo con lei in quel luogo: così
vicino da poter sempre esser raggiunto e informato di progressi o cadute; così
lontano da non essersi mai avvicinato a lei, al suo corpo. Nemmeno
quando, ne era certo, non se ne sarebbe accorta, troppo stordita da farmaci e
infusi, ancora abbandonata all’incoscienza.
Non se lo era permesso; in nessun
momento.
E il tempo.
Il tempo era passato. L’aveva portata
via da palazzo che la pioggia mitigava appena l’afa estiva che stava avanzando.
L’aveva potata via dopo aver sterminato gli youkai che si erano ribellati alla sua autorità. E in quel
momento, mentre si era chinato su di lei e l’aveva sollevata stringendosela al
petto; il quel momento tutto si era fermato e aveva vorticato. Come se i giorni
passati lontani si fossero annullati. E Alessandra era di nuovo coperta di
sangue; di nuovo il respiro era pesante e affannoso, il volto sudato e pallido,
troppo pallido per una ningen. Di nuovo il futon: e il
corpo non era più da sollevare ma da adagiare; e le forme abbandonate si
svelavano fra parole secche e ordini e indicazioni precise. La voce di Yaone. La voce di Yaone era
sempre presente; e ripeteva e ripeteva parole che non
voleva ascoltare: andarsene, restare, lasciarla, salvarla, ucciderla.
Si era confuso tutto. Mentre
percorreva i corridoi nell’odore acre del fumo e nel serpeggiare del tanfo
della carne bruciata; mentre montava Ah-Un e se ne
andava senza voltarsi indietro; mentre avvertiva il sangue rattrappirsi e
seccarsi sulle mani e sul volto, e come scricchiolare ad
ogni piccolo movimento delle briglie; mentre il respiro sembrava profondo e
calibrato per reggere come uno sforzo che non esisteva.
L’aveva portata via. Dal palazzo.
Ed era stato come quando si era risollevato sul campo di battaglia e se ne era
andato. Senza guardarsi indietro.
E poi.
Poi era stata la noka, fra i ginko e i melograni
in fiore. Era stata l’estate consumata nel refolo caldo e al suono di uno shinobue. Era stata l’attesa: che Alessandra si
risvegliasse, prima; che si risollevasse dopo. Il tempo aveva preso altri
ritmi, che eran scivolati davanti ai suoi occhi,
precisi e affilati come una lama. Era stata la noka
silenziosa e l’estate; e sarebbe stato l’autunno fremente e la resina. E ci
sarebbe ancora voluto tempo. Sì; lo aveva capito. Lo aveva visto: i ritmi dei
ningen era diversi, profondamente diversi da quelli di
uno youkai. E la ferita; la ferita che Alessandra
aveva alla spalla ancora si apriva, ancora sanguinava in alcuni punti, anche se
per la maggior parte si era ridotta ad una lunga e
sottile cicatrice che le attraversava la spalla. E poi; poi c’era l’altra
ferita. Quella che non si vedeva; quella che, ancora, a tradimento, la
costringeva a tossire sangue quando lo sforzo si prolungava troppo. La ferita
che avrebbe potuto ucciderla.
Aprì e chiuse la mano; gli
artigli mandarono un tenue riverbero di youki e sole.
I suoi artigli; i suoi artigli avrebbero potuto. Si
accarezzò il palmo, attento; bastava così poco: appena un formicolio lieve e
avrebbe avvertito la pelle lacerarsi in un taglio sottile. Il
rivolo di sangue definirsi sempre più preciso contro la pelle diafana e
scivolare lento lungo il palmo, fino al polso, confondendosi con le
striature violacee. Bastava così poco; e anche i suoi artigli avrebbero potuto
ferire Alessandra. E ucciderla.
Come la naginata.
La rivedeva: la lama ricurva
stretta nelle mani di Inuyasha, con quel riflesso sinistro di metallo sporco.
Un attimo, e il rumore sordo e lontano del ferro che cade a terra, prima che
l’odore della carne bruciata lo colpisse e le mani, spasmodiche, stringessero il corpo che si era abbandonato contro di lui.
Di quella naginata era rimasta solo la cicatrice
sulla spalla di Alessandra. E la ferita al polmone. La ferita che aveva dato a Yaone la forza e il coraggio di rincorrerlo fin nelle sue
stanze; prima che salisse nella camera da letto e si
estraniasse dal mondo. Prima che mille pensieri e voci e rumori irrompessero
con violenza nella sua mente, accavallandosi in modo frenetico e confuso. Era
stata quasi brusca, Yaone. E, ripensandoci,
Sesshomaru aveva rivisto in lei la sicurezza irriverente e sfacciata del Sensei; la determinazione provocante con cui le si era presentata davanti mesi prima, con la sufficienza
nel viso e un ciuffo annoiato a velarle l’occhio nero. Era stata diretta, Yaone; e realistica: poteva morire. Alessandra poteva
davvero morire. E anche se fosse sopravvissuta; anche se le ferite si fossero
rimarginate e non fossero subentrate complicazioni, probabilmente qualcosa
sarebbe rimasto. Qualcosa che l’avrebbe segnata per sempre.
Il polmone. Il polmone si sarebbe
rimarginato; ma era debole. Troppo debole. E il sangue si sarebbe mescolato al
respiro e alla saliva per molto tempo, ancora. Forse sempre; forse avrebbe
smesso appena il corpo si fosse ristabilito completamente. Forse nel suo mondo;
forse nel mondo da dove proveniva Kagome avrebbero
potuto curarla completamente. Forse, quando fosse stata in forze…
Forse.
Già: forse. Non aveva più voluto
ripensare a quel breve dialogo, alle poche parole scambiate ascoltate nella
penombra della sua stanza, fissando le nervature del basso tavolino e i disegni
molli della cera di una vecchia candela. Mentre Yaone
parlava, il michiyuki ancora sporco di sangue e i
capelli sfatti sul viso teso e contratto. L’aveva ascoltata; e non aveva
prestato attenzione a quello che aveva detto. Troppi pensieri nella testa;
troppe consapevolezze sbattute in faccia all’improvviso, emerse da un recondito
angolino della sua mente; troppe cose ignorate e accantonate esplose
all’improvviso.
E adesso? Come stava, adesso,
Alessandra?
Bijin-sama
avevano detto che la ferita alla spalla si era
rimarginata; avevano detto che, con il riposo e la tranquillità, il polmone si
era riformato senza incidenti. E il respiro adesso era calmo e regolare; solo
ogni tanto qualche macchiolina di sangue poteva ancora comparire. Troppo poche
e troppo piccole per allarmare; ma c’erano ancora. E
volevano dire solo una cosa: tempo. Ci voleva ancora tempo. E Sesshomaru ormai
era consapevole di non avere fretta.
Lo scorrere delle stagioni non
aveva mai provocato in lui acuto interesse; si era sempre limitato a vederle
sfilare davanti ai suoi occhi nel mutamento dell’aria e dei colori. Si era
limitato a contemplarlo senza calcolarlo. Adesso: adesso era prima e dopo. E il
dopo era Alessandra. Alessandra e quella nicchia fragile e sospesa che aveva
ricercato.
Sesshomaru chiuse gli occhi. Era
diventata un’abitudine: il flauto a confondersi con lo stormire dell’aria e
l’eco del pensiero. Aveva reimparato la solitudine
dei boschi, la libertà ferina e selvaggia cui i mesi costretto a palazzo lo avevano allontanato. Era stato strano: quel luogo, con
l’incombere austero delle sue montagne e l’odore di zolfo che si spandeva
nell’aria, non era cambiato, in nulla. Quasi il tempo passato fosse equivalso
al semplice accenno di un respiro. Quel luogo. Erano trascorsi anni, da quando
lo aveva visto per la prima volta, sul finire dell’inverno; o in tarda
primavera.
Sesshomaru increspò appena le
labbra: Ryoshi aveva la sgradevole abitudine di
sedere in alto, su un ramo dell’albero cui soleva appoggiarsi. E suonava.
Quando capiva che le domande e le parole non avevano effetto, suonava. Stava
suonando anche la prima volta che lo aveva visto: un bambino di poco più grande
di lui, il kinu e gli hakama verdi e bianchi e i lunghi capelli neri
legati nel mizura. Suonava il flauto, lassù, sul ramo
di una magnolia; e sua madre aveva sorriso e aspettato. Poi, la musica era
finita e Ryoshi aveva concesso un sorriso
impertinente e quasi indulgente. Lo ricordava come materializzarsi davanti a
lui, in un soffio umido di pioggia; lo ricordava sollevargli divertito il viso
e sorridere all’espressione seria e compita che si era imposto. Lo ricordava
trasfigurare fino all’aspetto di un ragazzo, di un giovane uomo. E mentre il
corpo di Ryoshi mutava e cresceva, Sesshomaru aveva
avvertito la sua diversità e tutto il suo essere ancora
piccolo e infantile. Si era lasciato prendere in braccio senza nemmeno
averne coscienza, e quando aveva realizzato che la
terra era sparita e le mani, i suoi piccoli artigli, stringevano forte il kinu, Ryoshi lo aveva trascinato
con sé. Dove esattamente non lo avrebbe mai saputo dire: un mondo liquido e
inconsistente, in cui fluttuavano gemme e squame e il viscido e l’umido ti
entravano nella pelle con un disgusto che diventava abitudine nel tempo. Si era
stretto a un corpo che non definiva, gli occhi socchiusi e i sensi tesi per captare
quel furore che si mescolava ad una pace sicura. Come
in un fortunale o nell’occhio di un tornato. E a un certo punto, quando Ryoshi aveva detto: apri gli occhi, Sesshomaru ricordava
solo la sensazione di inconsistenza del suo corpo e la
violenza di una natura che si scatenava intono a lui senza sfiorarlo. Era
durato un istante; forse realmente non si era mai allontanato da sua madre e Ryoshi aveva sempre continuato a sorridergli in quel modo
strano, a metà fra ironia e consapevolezza.
Non ricordava bene cosa avesse
visto, ma ricordava il volto di Ryoshi
divenire indefinito mentre lo riposava a terra e si sfilava una collana di acquamarine e zanne di drago. Gliela aveva messa al collo in un tintinnio come scroscio d’acqua; gliela
aveva messa al collo e gli aveva detto: torna.
Quando ne sentirai il bisogno, torna. Ed era tornato. Con Alessandra.
Mentre Ah-Un
si levava in volo, mentre il palazzo diventava piccolo e sfumava oltre i sensi
e il fumo che si levava dal padiglione centrale; mentre ancora cercava di
realizzare esattamente il perché di quella scelta un po’ folle un po’
pericolosa e nel rimettere ordine coerente alle idee, nel lasciar svanire
l’istinto e la ferinità che lo aveva attraversato sin da quando aveva rimesso
piede nel palazzo, e poi durante tutto lo scontro, il
Kano si era srotolato nella sua mente come un nastro lucido, assieme al
rimbombo della sua cascata. Poi, era stato naturale risalirne il corso con la
mente, immergendosi nel silenzio rarefatto della vallata fino alle pendici del Daruma; risalire il costone in un respiro, fino a dominare
con uno sguardo assieme indifferente e assoluto il Fuji e il riverbero quasi
accecante del mare di Suruga. E Ryoshi
e i vapori caldi alle pendici del Katsuragi gli si
erano materializzati nella mente con l’inconsistenza di un miraggio, assieme a
quella parola, torna, che fluttuava
indefinita. Tornare.
Non sapeva esattamente cosa lo
avesse persuaso che sì, quello era il luogo ideale per Alessandra. Fra i colori
e il silenzio delle montagne, al centro di una lingua di terra antica, forse
più antica del suo stesso mondo, sotto la protezione
di uno youkai nato dall’acqua e dalla terra stessa,
uno youkai che, Sesshomaru ne era consapevole, era
profondamente diverso da lui e dalla sua razza. In fondo, non era nemmeno
corretto definire Ryoshi come uno youkai,
o come un Kami: era l’essenza stessa dell’acqua che
impregnava ogni particella di quel luogo. Eterno ed etereo come lui; non
immortale, come lui, eppure destinato ad un altro
tempo, ad un ciclo ancora diverso. Reclinò appena la testa; lo shinobue continuava nel suo fischio acuto e sottile, come
il cadere continuo di una goccia in una caverna o su una pietra cava.
Quel luogo. Vi era arrivato con
una naturalezza quasi illogica, considerando che vi si era recato
solo una volta, da cucciolo. Ma da quando aveva
scelto, da quando aveva deciso dove andare, la strada da percorrere si era
definita chiara nella sua mente, facendogli guidare le briglie senza la minima
esitazione. Era come se la terra stessa, l’acqua, lo avessero
guidato; come se il suono del flauto gli avesse riempito la testa con
discrezione, in un crescendo sempre più acuto e penetrante, fino a confondersi
con lo scrosciare dell’acqua stessa che circondava tutto. Aveva scelto, e Ryoshi lo aveva aspettato su una grande pietra, il viso in
una mano e la leggerezza di un bambino; nella stessa posa in cui lo aveva visto
l’ultima volta, quando si era concesso di sbirciare alle sue spalle mentre
seguiva sua madre. Eppure. Eppure sembrava che lo
avesse sempre saputo; sembrava che non si fosse mosso
per tutto quel tempo, quasi cristallizzatosi.
“Sesshomaru-kun.
Non mi hai risposto: perché non
l’hai toccata?”
A volte preferiva lo shinobue.
Non chiedeva; non faceva domande
fastidiose, e non si aspettava risposte che conosceva
bene. A volte, lo shinobue era quasi piacevole, quasi
rassicurante; quasi. Perché c’era sempre una punta si risata, quando Ryoshi suonava ed era vicino a lui. La musica si modulava
in piccolissime variazioni, quasi impercettibili, ma c’erano: e la melodia che Ryoshi suonava quando era con lui era così diversa da
quella per Alessandra. C’era sempre quella punta di provocazione, di insinuazione che, per quanto cercasse di ignorare, gli
penetrava nella testa fino a irritarlo. Sembrava quasi che Ryoshi
volesse irritarlo; e costringerlo a parlare. Costringerlo a
dire apertamente e chiaramente i perché, le motivazioni di ogni sua azione.
Soltanto una volta si era limitato al silenzio: Sesshomaru aveva consegnato Alessandra
a bijin-sama e aveva ordinato loro di assumere un
aspetto umano vagamente femminile; e Ryoshi aveva
annuito e gli aveva fatto un gesto ampio con la testa piccola e infantile. E
Sesshomaru aveva seguito il bambino con una calma quasi innaturale. Lo aveva
seguito fino ad una delle piccole polle d’acqua
termale e lo aveva visto entrarvi camminando sul pelo dell’acqua, leggero come
una libellula. Lo aveva seguito, mentre la stoffa si gonfiava e appesantiva e
il sangue secco e rappreso diventava nero; mentre sul kimono macchie e schizzi
si stemperavano in arabeschi imprecisi. Lo aveva seguito e, con disappunto, era
stato costretto a reclinare la testa per continuare a guardarlo negli occhi,
mentre il corpo di Ryoshi mutava e diventava adulto.
Si erano solo guardati, a lungo.
Nel vapore lieve che saliva dall’acqua, mentre un sottile strato di bagnato
ricopriva lo youkai, rilucendo a contatto col
barbaglio della sua youki. Si erano guardati, mentre
la sgradevole sensazione di un discorso muto si allargava fra loro, penetrava
dentro Sesshomaru e rimbombava forte, troppo forte. Assieme al fastidio per
parole non comprese; per suoni che restavano cacofonia indistinta e imprecisa. Eppure. Eppure era la sua stessa lingua, la lingua atavica della sua gente, della sua essenza. Eppure. Eppure era come se Ryoshi
gli parlasse in un’altra lingua, forse ancora più antica, forse completamente
dimenticata anche da loro: la lingua stessa di quella terra com’era alle sue
origini, com’era nell’istante stesso in cui dall’acqua del mare e dal ferro
nacque la terra. Già: la terra. Nihon è terra
generata dall’acqua; e l’acqua, Ryoshi,
è Nihon nella sua completezza.
Si erano guardati, fino a quando
la mano di Ryoshi si era sollevata e Sesshomaru
l’aveva sentita su di sé, sul suo viso, come un filo d’acqua impertinente. E
non si era mosso; non era riuscito a muoversi, in
quell’acqua calda improvvisamente pesante; in quell’acqua calda che stringeva e
afferrava e risaliva il suo corpo con mille mani umide e dal suono metallico,
come scaglie di drago. Non aveva potuto muoversi, e Ryoshi
gli aveva stretto il mento e costretto a fissarlo, forse con ancora più
intensità di quanto non avessero fatto fino a quel momento. Sesshomaru aveva
avvertito, forte, la voglia di liberarsi e colpire; gli artigli affilarsi in un
riflesso istintivo e l’odore pungente del veleno iniziare a serpeggiare, mentre
un ringhio sordo e basso nasceva in gola. Non gli piaceva sentirsi impotente,
non gli piaceva esser costretto in quel modo, essere
obbligato a dire qualcosa che non ammetteva nemmeno a se stesso, nel pensiero.
E Ryoshi. Ryoshi voleva
qualcosa a parole; voleva il perché avesse portato
proprio lì quella donna; una donna umana. Una donna di quella razza che, Ryoshi lo sapeva, Sesshomaru-kun
disprezzava e trattava con mera sufficienza. Eppure.
Eppure l’aveva portata da lui. E quando era sceso dalla sua cavalcatura, con
lei esanime fra le braccia, gli aveva solo detto: sono tornato senza usare parole.
Già: Sesshomaru-kun
non usa mai parole.
Ma
sembrava un ordine, nel modo che aveva di tenere ferma e ritta la testa, nella
posa autoritaria e inappellabile del suo corpo. E lui? Ryoshi
si schiarì la gola e riaccostò lo shinobue alle
labbra: nuova melodia.
Lui aveva annuito e lo aveva
condotto alla noka; lo aveva aspettato sulla porta e lo
aveva portato alla sorgente. E lo aveva provocato, in modo diverso da quando
era bambino, e assieme così simile. Lo aveva provocato come si gioca con un
uomo troppo sicuro di sé. Ma Sesshomaru-kun
non è un ningen, e la sua provocazione si era risolta nel fremito di membra
abituate al combattimento e nello scatto ferino ed esasperato della mano quando
la presa d’acqua si era dissolta. Sesshomaru non ricordava di aver mai provato
una sensazione simile: nella sicurezza di dilaniare carne e consistenza, aveva
avvertito gli artigli penetrare in qualcosa di bagnato, senza la minima
resistenza. Aveva sentito il corpo di Ryoshi
assecondare il movimento fluido e violento dell’artigliata ed esplodere in una
pioggia infinita d’acqua e vapore. Si era semplicemente frammentato, scivolando
nell’acqua con uno scroscio. E lui si era ritrovato con la bocca socchiusa e un
disdicevole senso di fastidio, mentre avvertiva Ryoshi
riprendere consistenza corporea dietro di sé. Ed era stato umiliante accorgersi
che, per quanto fosse veloce, per quanto precisi e affilati potessero essere i
suoi colpi, non sarebbe mai riuscito a ferirlo e tantomeno a ucciderlo. Poteva
solo voltarsi e rassegnarsi a quegli occhi impertinenti che ripetevano domande
sempre più fastidiose.
Domande; già.
Come quella che stava evitando in
quel momento; e che si ripeteva come una nenia assieme al suono del flauto.
Perché Ryoshi è così: sonnecchia tranquillo nel suo
elemento, placido come l’acqua stagnante; ma se anche la superficie è
tranquilla, sotto è agitazione e furore e trepidazione, e quando qualcuno cade
nelle sue spire, quando qualcuno entra nella sua acqua, nel suo elemento, Ryoshi non lo lascia andare, per quanto si dibatta e si
dimeni. Non lo lascia prima di essere pienamente soddisfatto, prima di aver
ottenuto qualsiasi cosa voglia. E da lui, Sesshomaru lo sapeva bene, voleva una
risposta: perché non avesse toccato Alessandra.
Anche se. Anche se era così
facile, da capire; maledettamente facile. Ma Ryoshi no. A Ryoshi non era sufficiente ciò che è facile; Ryoshi non vuole l’evidente, non vuole
quello che è sotto gli occhi di tutti. No; Ryoshi
vuole quello che è nella sua mente; vuole le sue parole e le sue motivazioni,
per quanto possano essere naturali e razionali, anche.
Non ha toccato Alessandra. E
forse non la toccherà ancora per molto tempo; forse non la toccherà più,
nonostante tutto il suo corpo frema nel desiderio di farlo. Vorrebbe. Vorrebbe,
e non riesce ancora a capacitarsene pur accettandolo, quel corpo nudo davanti
agli occhi: accertarsi che non è rimasto né segno né livido; percorrere la
cicatrice che le resterà per sempre sulla spalla; ricoprire e ripetere i gesti
di quelli youkai che hanno violato i suoi ordini per
cancellarli e sostituire ricordo a ricordo, piacere a
terrore.
Vorrebbe. Ma
non lo farà. Non lo farà finchè non avrà la certezza
che sia quello che realmente è giusto fare; e forse
non lo saprà mai, esattamente, cosa sarebbe giusto fare. Però.
Però l’ha vista, la paura, nello sguardo di
Alessandra. L’ha visto, il suo corpo che lentamente ritrova equilibrio e
armonia, tremare e sussultare. E non era sorpresa, no.
All’inizio. Quando le si era presentato fra i ginko
poteva essere sorpresa; poteva essere lo stupore della sua apparizione
silenziosa. Ma dopo. Dopo le mani si erano strette in
grembo e Alessandra aveva continuato a guardarlo, senza pronunciare parola,
senza un cenno. Mentre il corpo. Il corpo tremava e sembrava cercare di
raccogliere le forze per mettersi al sicuro, per scappare se il pericolo che,
d’istinto, avvertiva serpeggiare si fosse concretizzato
in minaccia reale e tangibile.
Due consapevolezze: Sesshomaru ne
era stato investito con una lucidità quasi disarmante. Alessandra aveva paura
di lui, per prima cosa. Paura di quello che era, che rappresentava. Paura del
suo essere maschio prima ancora che youkai, e della
forza superiore, schiacciante, che possedeva e che avrebbe potuto costringerla
semplicemente come fosse stata una volontà, un capriccio. E poi. Poi
probabilmente c’era il fatto che Alessandra stessa non
realizzasse appieno quella paura, quel rifiuto che le avrebbe stretto lo
stomaco e fatta irrigidire prima di provare a divincolarsi, ad allontanarsi.
No, ne era certo: non ne era consapevole. Non a livello mentale. Ma il suo corpo; il suo corpo parlava e Sesshomaru aveva
imparato negli anni, da predatore, a riconoscere la differenza di un brivido.
E il tremore di Alessandra era
paura. Paura della propria naturale debolezza; paura di sensazioni e ricordi ed
emozioni che avrebbero potuto riemergere improvvise e
soffocare.
Paura. Semplice paura. Forse la
stessa che l’aveva attraversata mesi prima, la prima volta che si erano incontrati. Ma allora la mano
di Sesshomaru le premeva la gola; allora i loro corpi si respingevano e
Alessandra gli offriva sfacciata e disinteressata la carne tenera da recidere.
Anche quella volta il corpo di Alessandra aveva tremato, mentre gli artigli
premevano sulla pelle e l’eco del sangue rimbombava e si ripeteva all’infinito.
Anche quella volta Alessandra aveva tremato, nel suo corpo. Solo nel corpo.
Come se la sua mente rifiutasse di cedere, rifiutasse
la paura; rifiutasse e basta. Quella volta rifiutava lui.
E adesso?
Cosa sarebbe
successo, se si fosse avvicinato? Cosa sarebbe
successo se, invece di fermarsi fra i ginko, avesse
assecondato un impulso che, prepotente, aveva sentito farsi strada dentro di
lui assieme al tempo che scorreva, mentre si costringeva all’immobilità. Cosa sarebbe successo se semplicemente non avesse pensato, e
le fosse comparso alle spalle, nel silenzio dei movimenti che gli è proprio.
Sorprenderla e vederla trasalire, forse arretrare. Sorprenderla e fermare il
suo corpo che si sarebbe ritratto, costringere la testa, la bocca, a sé;
afferrare braccia e gambe che avrebbero scalciato, senza nemmeno capire esattamente
perché, per quale paura. Afferrarla e basta; e scoprirla a
forza, ricercando nella mente i lividi e gli ematomi intravisti in una stanza
affollata, su un corpo pallido coperto di sangue e sudore. Richiamare
dalla memoria il corpo di Alessandra che si mostrava a lui, fra la stoffa
sgualcita e sporca. Rivedere la sua nudità e sapere che, questa volta, ne
avrebbe avuto coscienza, che sarebbe stato qualcosa di diverso. Ricordare; e percorrere con la mano la pelle ad assicurarsi della
sua integrità. E dopo. Dopo.
Cosa sarebbe
successo, dopo? Si sarebbe fermato? Davvero gli sarebbe bastata la sicurezza
del corpo in via di guarigione, con le sue forme che tornavano normali e la
magrezza e il pallore che sparivano? Davvero si sarebbe fermato, adagiandole l’haori sulle spalle nude prima di voltarle le spalle e andarsene. Lasciandola come? Insoddisfatta,
disperata, sollevata?
Era strano. Il desiderio e l’appagamento
fisico erano sempre state sensazioni vacue e remote.
Si era concesso un’amante per curiosità e necessità.
Si era concesso di condividere il letto con yasha per
calcolo; e si era ritratto con una smorfia insoddisfatta prima di finire.
Calcolo; solo calcolo. Perchè se avesse dimostrato
alla corte che, benché in tempi lunghi, era interessato
a procreare un erede, il giogo che a quel tempo sentiva sempre troppo stretto e
pesante si sarebbe allentato. E il giogo era sparito: consumato con una yasha senza volto; avvolto da
coperte e corpi che lo provocavano e lasciava insoddisfatti. Il giogo era
sparito, ma Sesshomaru sapeva che, presto o tardi, si sarebbe ripresentato. E
questa volta non avrebbe potuto sottrarsi facilmente: la corte mormorava, ma
presto le voci soffuse e i borbottii sarebbero divenute
grida e polemiche. Ben presto, lo sapeva, nuove yasha
sarebbero venute a riscaldare il suo letto, e lo avrebbero seguito anche
durante i suoi spostamenti: ansiose di mostrargli corpi perfetti modellati
dalla battaglia, vogliose di raccogliere la sua discendenza e generargli
quell’erede che doveva continuare la stirpe e il suo ruolo.
Eppure.
Eppure non provava interesse.
Forse nemmeno per Alessandra. E il desiderio che gli stringeva lo stomaco e si
allargava caldo e maligno nel ventre era altro. Era un desiderio diverso, e che
non aveva mai provato. Ma che gli dava la sicurezza,
fastidiosa, ma era pur sempre una certezza, che no, non l’avrebbe lasciata
andare, se l’avesse avuta fra le braccia. No, non sarebbe stato capace di
frenarsi, se prima non fosse riuscito a strapparle ben più di un bacio. E
l’irritazione cresceva assieme alla consapevolezza che quell’incapacità di
dominarsi non cozzava con il suo autocontrollo, con il calibrarsi degli istinti
Sapeva di desiderare il corpo di
Alessandra, lo aveva realizzato e con il tempo anche accettato. E lo voleva non
per capriccio o curiosità. Lo voleva per istinto; per quell’istinto assoluto e
pieno che loro youkai
provavano nei sentimenti. Sì: voleva Alessandra. E la voleva come forse avrebbe
dovuto desiderare la sua compagna, la yasha che avrebbe dovuto dargli un figlio. E forse era
quello lo sbaglio: la volontà di avere lei con la stessa intensità che avrebbe dovuto essere riservata alla compagna, alla madre di
suo figlio. Eppure. Eppure, per quanto ci ragionasse, Sesshomaru era risoluto nella sua volontà:
Alessandra. Per se stessa.
Toccarla.
Sarebbe stato così piacevole,
toccarla. Come quando erano sdraiati nel futon, a palazzo. Toccarla lentamente,
attraverso la seta e giocare lungo i lembi dei kimono,
sfiorando la pelle quasi per sbaglio, per scherzo. Ritrarsi e
ritornare, con calma e curiosità, scoprendo poco a poco un calore diverso, un
modo diverso di rispondere a carezze e sollecitazioni. Un gioco strano,
iniziato con naturalezza nelle notti del palazzo, quando il
Alessandra si stringeva a lui dopo una battaglia. Forse per paura che
scomparisse da un momento all’altro; forse per ricercare calore e protezione
nel dormiveglia; forse davvero per imparare il suo corpo. Con il tempo gli
aveva permesso sempre un po’ di più: una lembo di
pelle sulla spalla, una gamba che si definisce maggiormente e si offre nuda
alla sua mano. C’era voluto tempo. Per entrambi. Tempo per
superare pudore e ritrosia; tempo per vincere convinzioni e orgoglio.
Anche se le mani tradivano, e si muovevano prima della testa, prima delle convenzioni,
rincorrendo quelle sensazioni che risvegliavano calore e ansia e trepidazione
nel corpo, scendendo giù, nello stomaco e nel ventre.
Toccarla.
Sarebbe stato così semplice,
toccarla. E così sbagliato; maledettamente sbagliato.
Perché la paura, adesso, era un muro eretto e massiccio; perché il corpo di
Alessandra lo avrebbe rifiutato. Anche se lei avesse detto sì, anche se si
fosse offerta nuda e remissiva, sarebbe stata solo la sua voce a parlare;
mentre il suo corpo. Il suo corpo.
Il suo corpo avrebbe urlato e
scalciato e graffiato. Il suo corpo si sarebbe rifiutato; e Sesshomaru sapeva
che non avrebbe potuto far altro che immobilizzarla perché non si facesse male.
Stringere i polsi forte, troppo forte, e restare a guardare lacrime e terrore e
grida che lo volevano allontanare, che lo respingevano con la stessa
trepidazione con cui Alessandra lo aveva cercato. E ancora l’avrebbe tenuta
stretta, aspettando. Che la voce diventasse sibilo rassegnato; che il respiro
fosse singhiozzo e della violenza e della rabbia rimanesse solo un tremito
delle membra. Allora. Allora l’avrebbe lasciata; per voltarle la schiena e
andarsene. L’avrebbe lasciata distesa sul futon o forse sull’engawa, le vesti scomposte e la pelle a tentare e offrirsi
inerme e debole. Troppo debole.
Perché non l’aveva toccata?
Perché Alessandra non voleva
essere toccata. E ogni fibra del suo essere aveva urlato isterica e impaurita
quando lo aveva visto. Nel timore che si avvicinasse; nel folle terrore che
pretendesse qualcosa, qualcosa che non avrebbe potuto rifiutare, cui non
avrebbe potuto opporsi. Non l’aveva toccata, e aveva
sentito come un crampo mentre la sua testa valutava ogni azione, ogni più
piccolo respiro. Un crampo stringergli lo stomaco e scendere
nel ventre; giù lungo le gambe e scomparire nella terra, fermandolo lì, sotto
quegli alberi, in quella pioggia d’oro. Incapace di andarsene; incapace di lasciarla ancora. Esitazione? No. Non aveva
esitato. Era stato istinto: la sicurezza che, se solo avesse compiuto un gesto,
qualcosa sarebbe cambiato, forse spezzato. No; ne era sicuro: non aveva esitato
e nessun dubbio gli aveva attraversato la mente. Sapeva esattamente cosa
Alessandra provasse, cosa il corpo gli rivelasse.
Paura?
Sesshomaru strinse gli occhi, e Ryoshi scrollò le spalle con noncuranza. A volte parlare
con Sesshomaru-kun è difficile. Perché prende ogni
parola come una sfida; perché vede solo il lato
violento e bellico delle parole. Ma la paura ha tante forme; tante e troppo
diverse per poterle conoscere tutte. Anche un demone.
Anche uno youkai come Sesshomaru-kun
può avere paura. E non è il tremito che ti scorre nelle membra sul campo di
battaglia, quando ti accorgi che la vittoria ti ha sedotto e ti sta per
abbandonare. Non è il formicolio di rabbia e disperazione che provi
nell’avvertire qualcosa di più grande, di più potente, sovrastarti e
ricordarti, improvviso, che devi ancora crescere, che essere forte non è
abbastanza, non è mai abbastanza.
Ha tante forme, la paura.
Come quel crampo. Lo ricordi, Sesshomaru? Quando hai sollevato la ningen fra le
braccia, sporca di sangue e sudore. Quando l’hai sollevata e ti sei accorto del
sangue che scivolava dalle labbra, assieme al respiro. Il crampo che si
allargava in ogni muscolo e faceva male, più del veleno che ti stava corrodendo
le carni. Lo ricordi? Sì; sì, lo ricordi. E sai cosa vuol dire, vero? Sai cos’è quella paura che ti ha tenuto lontano da lei; che ti ha
fatto scappare per la prima volta in vita tua da una battaglia così semplice e
così pericolosa. E sai anche che non era paura: solo
consapevolezza. Di dover pensare; di aver bisogno di
tempo per capire e, soprattutto, per riuscire a riequilibrare sensazioni,
impressioni e ovvietà ignorate.
“Sesshomaru-kun”
Il flauto si dileguò, con un
residuo di musica e uno sbuffo di vapore. Mentre Ryoshi
si lasciava scivolare dall’albero e le sembianze infantili mutavano in quelle
dell’uomo. Mentre quel…Cos’era Sesshomaru, per lui? Il labbro mordicchiato e
una parola che sfugge quasi per ironia: cucciolo. In fondo, non era cambiato
molto da quando lo aveva preso in braccio, molti anni prima. Non
era cambiato affatto, anche se il corpo era cresciuto; anche se, adesso,
lo fissava con uno sguardo più esperto e maturo; anche se gli artigli avevano
conosciuto sangue e morte, non era cambiato affatto. Uno youkai
non può cambiare; non come intendono il cambiamento i
ningen, almeno. O come lo intende lui stesso. Sospirò. Sesshomaru era ancora un
cucciolo; e in confronto a lui lo sarebbe stato sempre. Un cucciolo che ti
guarda, e mescola timori, orgoglio e risolutezza, e ti sfida a fare qualcosa, a
trovare qualcosa che possa attirare la sua attenzione, che possa
interessarlo. Non è mai stato facile interessare veramente Sesshomaru, avere la
sua completa attenzione e sapere che aspetta, che aspetterà
finchè non troverai le parole e le azioni giuste per
farti comprendere. Cucciolo impaziente.
Ryoshi
stuzzicò il mizura: Sesshomaru-kun.
Sarebbe stato così semplice; e così pericoloso. Sarebbe bastato semplicemente
aprire la mano e lasciare che l’acqua fluttuasse, si condensasse e lisciasse
fino a formare uno specchio di cristallo. E poi. Ryoshi
lo immagina: il viso di Sesshomaru riflesso tremolare in profondità e sfumare
nei contorni, in un vapore che sale che avvolge tutto; il tempo fluttuare e quella
sgradevole sensazione di sottrazione, mentre la sua essenza scivola in una
debole luminescenza che riflette e scorre. Già: sarebbe stato così facile, e
avrebbero potuto vedere: Sesshomaru-kun il suo
futuro; Ryoshi la sua eternità. Avrebbe potuto mostrarglielo,
perché il tempo è come l’acqua che scorre: dalla sorgente alla foce e trascina
con sè ogni frammento di passato, presente e futuro.
Il tempo dei ningen, il tempo degli youkai, il tempo dei kami: non
c’è differenza, per l’acqua. Scorre e basta, e Ryoshi
sa leggerla, sa plasmare da se stesso quello specchio
che è squarcio e finestra, e sa che basterebbe una sua distrazione, una
decisione mal ponderata, e il futuro si dissolverebbe in uno sbuffo per
riassumere una nuova forma, un nuovo corso, uguale nella sua essenza, ma
diverso nella sua manifestazione.
Sarebbe facile, e Sesshomaru-kun vedrebbe. Vedrebbe e si rassegnerebbe, senza
accettare che il destino è il tempo e acqua, e non c’è nulla di definito ed immutabile, nemmeno nella vita di uno youkai.
Ryoshi ridacchiò: Inutaisho
lo aveva capito, lo aveva intuito; Saiyuri no. Inutaisho aveva imparato ad accettare il mutamento
determinato dalle azioni, in bene e in male; Saiyuri
no. Sayuri accettava solo la vittoria, Saiyuri permetteva che si realizzasse solo ciò che aveva
previsto, senza intoppi e deviazioni. E Sesshomaru-kun.
Sesshomaru-kun si trovava in bilico: diviso fra
l’accettazione e la ribellione. Aveva realizzato una ningen, ma non riusciva a
rassegnarsi a qualcosa di indefinito e impreciso, ancora.
Anche se, Ryoshi se ne era accorto, stava mutando, stava crescendo. Perché il centro, il pensiero, si era
allargato, e da se stesso e dalla sua essenza Sesshomaru aveva iniziato a
deviare, ad allargare, includendo qualcosa che esulava dalla sua completa
comprensione e che stava…Sì: avrebbe potuto dire studiando. Con
la circospezione del cacciatore, prima di decidere l’attacco. Perché
anche Alessandra era una preda, per Sesshomaru. Una preda
diversa da quelle cacciate fino a quel momento, ma pur sempre una preda.
Come la paura.
Anche la paura era una preda, da
accerchiare e addentare al momento opportuno, nell’attimo di distrazione. E per
Sesshomaru-kun non c’era differenza, fra paura e
Alessandra. Ryoshi lo aveva capito quel pomeriggio,
nascosto nei riflessi del laghetto: lo aveva visto studiare la ragazza,
annusare la sua paura e classificare ogni suo più piccolo fremito. Lo aveva
visto stringere la mascella per rabbia, esasperazione o forse
solo impotenza. E restare fermo, come per dilatare il tempo e fermarlo. Come per dare ad Alessandra la possibilità di riabituarsi al suo
viso, alla sua presenza. Alla sua reale essenza. Non era stato facile in
passato, e quello che era accaduto non avrebbe giovato: una certezza di cui erano coscienti sia lui che Sesshomaru-kun.
E lo youkai aveva scelto la via più difficile, quella
che richiedeva maggior pazienza e, forse, una consapevolezza di sé e degli
altri che in quel momento Sesshomaru non possedeva, non ancora pienamente, non
ancora maturata e definita. Sua padre. Suo padre ci aveva
messo anni a raggiungerla; meglio: a sfiorarla. E
aveva compreso brandelli di quell’equilibrio e del rapporto che può
intercorrere fra ningen e youkai. Solo brandelli.
Chissà.
Chissà se Sesshomaru-kun
e Alessandra sarebbero stati capaci. Capaci di accettare le differenze fra loro senza farsi schiacciare
e soffocare; capace di rimanere nella propria natura senza rifiutare totalmente
l’altra. Si erano scelti la via più difficile, e l’unica possibile: scelta
nella spasmodica ricerca di un equilibrio inseguito senza consapevolezza.
Chiuse gli occhi: era la via più difficile, e l’unica effettivamente
percorribile. Alessandra non sarebbe mai divenuta una yasha; e Sesshomaru non avrebbe mai accettato una realtà da
ningen. Non era sospesi fra due realtà, nella loro essenza, ma coscienti della
loro diversità.
No: non avrebbe creato lo
specchio, per guardare il futuro (possibile). Non ne aveva bisogno, non lo
voleva credere. Sesshomaru-kun e Alessandra-chan
stavano tentando: sapere se sarebbero riusciti o se si sarebbero distrutti non
aveva importanza. C’era solo una cosa ad aver valore: il tentativo. Anche fatto
di inciampi, risate e sofferenze. E forse. Forse
davvero avevano trovato l’equilibrio corretto, cercando pur in un processo
inconscio di accettarsi senza mutarsi. Già: mutarsi. Ne aveva incontrati, in
passato, youkai che volevano fare propri compagni dei
ningen e ningen che bramavano youkai
per la loro potenza e per il trofeo che avrebbero mostrato. Era un desiderio,
un’attrazione che spesso sfociava nell’ossessione, nella ricerca spasmodica e
autodistruttiva. Erano morti: youaki o ningen. Erano
morti, uccisi dal compagno, uccisi dal loro desiderio.
Gli aveva visti, nelle pieghe dell’acqua: gli artigli
gocciolanti e le zanne affondate in carne tenera e pulsante; le katana strette
in corpi mutilati e assieme perfetti. Era stato male. Era stato fastidio e
impotenza e rabbia e rassegnazione e ironia. Immagini che si era avvicendate
fin dalle origini, da quando Susanoo aveva desiderato
Kushinada-hime. E i confini si erano infranti senza
ritrovare un unico equilibrio: kami, youkai e ningen erano entrati in
contatto e l’effetto. L’effetto di quella prima unione era stata
la discendenza dei mikado.
I confini.
È male infrangere i confini; ma
forse. Forse imparare a vivere sul limitare era possibile. Forse. Mosse le
dita, e una piccola sfera d’acqua si cristallizzò nell’aria, fluttuando davanti
al suo viso prima di scivolare verso Sesshomaru. Va bene: gli avrebbe fatto
decidere. Avrebbe potuto vedere un futuro, un futuro
possibile, dettato dalle sue emozioni, dalle sue speranze e dalle sue paure.
Non era né la certezza né la realtà innegabile e
immutabile, ma questo avrebbe dovuto capirlo da solo. Se avesse compreso
davvero che l’acqua può generare infinite increspature dal semplice tremolio di
un soffio, allora avrebbe compreso anche che le possibilità si possono creare e
si devono costruire: ningen, youkai o kami che siamo a cercarle. E Sesshomaru-kun
aveva le capacità di crearle e mantenerle, se avesse ragionato senza lasciarsi
guidare da precetti e orgoglio atavico e fossile. No: sbagliato. Se avesse
risvegliato l’orgoglio proprio di un demone che lo porta a un passo dai kami; che lo porta a essere chiamato kami
pur non essendolo completamente.
Rysohi
socchiuse gli occhi e la sfera d’acqua e cristallo iniziò a emettere una debole
luminescenza. No: non gli avrebbe più chiesto perché; sarebbe stato sciocco e controproducente continuare quel
gioco che aveva per risultato solo il mutismo ostinato e orgoglioso di Sesshomaru-kun. Doveva trattarlo come uno youkai, e non come un cucciolo. E uno youkai
non lo stuzzichi; uno youkai lo poni davanti ad una
scelta. E lo lasci libero di decidere.
Perché la risposta, Ryoshi lo avvertiva, era conosciuta da entrambi, e dirla o
lasciarla intendere da uno sguardo, da un’inclinazione della tesa, non avrebbe modificato nulla, assolutamente nulla. Ma quell’altra domanda; quella che, adesso, gli solleticava
la mente e la lingua. Quella era una domanda che necessitava di
una risposta. E andava presa con consapevolezza e risoluzione.
Gli avrebbe lasciato tempo,
certo.
Il tempo di
valutare le possibilità e se stesso; il tempo di soppesare ogni cosa. Ma
non gli avrebbe permesso di scappare; non avrebbe accettato, in
risposta, una scrollata di spalle e la seta che si gonfia nel gesto elegante.
Non avrebbe accettato l’indefinito che Sesshomaru lasciava dietro di sè quando la decisione era un pericolo troppo grande. Non
glielo avrebbe permesso; non questa volta. E sì, fa paura. Lo vedeva: Sesshomaru-kun annuiva appena, impercettibile,
ma Ryoshi sapeva che si sentiva braccato, in
trappola. Sapeva di averlo costretto ad una decisione
che avrebbe potuto mutarsi in sollievo o rimpianto. Ma
era necessario. Era necessario che l’orgoglio e l’indifferenza ostentati di frantumassero per farlo crescere. Allora. Allora ci
sarebbe stato un’altra indifferenza; e un altro
orgoglio. Ma doveva scegliere. E imparare il peso
dell’azione ignota.
Si inginocchiò,
la sfera che trasudava essenza e un sottile strato d’acqua a inumidirla. Si inginocchiò e Sesshomaru gli permise di toccargli il
viso, ripercorrere le striature rosate e salire lungo il profilo elegante fino
allo spicchio di luna in fronte. Gli lascio insinuare la mano nei suoi capelli,
senza la minima repulsione o disgusto. E si chiese se fosse realmente quello
che voleva o se ci fosse una malia, un potere più antico a controllare e sopire
i suoi istinti. Una youki
che lo aveva circondato e avvolto, e che incatenava gli artigli scattati per
istinto, il ringhio che gli premeva in gola e il desiderio e il disgusto che lo
assalivano mentre Ryoshi gli sollevava la frangia e
riportava indietro i capelli, mettendogli completamente a nudo il viso e la
gola. Lo avvertì con un singulto soffocato soffiare sulla pelle scoperta del
collo, all’incrocio del date-eri. Lo sentì risalire in una scia liquida e
insinuarsi fra le pieghe della seta fino ad avvolgere completamente il suo
corpo, la sua pelle. Ryoshi lo stava possedendo, stava entrando in lui per costringerlo ad ascoltarlo, a
capirlo. A decidere. E lo lasciava libero di cacciarlo, ma gli rubava la
capacità di reazione. E scivolava sul suo corpo stuzzicandolo
e costringendolo senza realmente decidersi a prenderlo completamente.
E mentre il respiro diventava
affanno, mentre sudore, acqua e nausea si mescolavano; mentre Sesshomaru
avvertiva le energie e la youki
venir racchiuse in una bolla senza tempo e il suo corpo rifiutare di rispondere
al più semplice dei comandi; mentre realizzava la sua incapacità e la sconfitta
più irritante, in una lotta in cui la posta in gioco sembrava essere il
controllo del suo corpo; mentre quella sensazione di liquido era in ogni
cellula del suo essere, dentro e fuori, Sesshomaru avvertì di nuovo la mano di Ryoshi costringere la testa all’immobilità e il viso del mizuchi materializzarsi davanti al suo in una maschera
senza età d’acqua e vapore. L’acqua a offuscargli la vista, scendere sulle
labbra e ancora più giù, lungo il collo, fino a confondersi con il corpo e con
quell’umido che ormai sembrava far parte di lui. Perché Ryoshi,
in quel momento, lo possedeva completamente e poteva fare qualsiasi cosa con
lui: costringerlo, manovralo, e anche ucciderlo. Lo possedeva, come Sesshomaru
non aveva mai permesso a nessuno di averlo, di tenerlo. E con terrore avverti
la rabbia e l’indignazione scivolare oltre nella mente, trascinate da quella
stessa acqua; avverti i ringhi mutare in gemiti e un languore assieme
confortante e irritante farsi strada lungo le membra. E nell’ultimo barlume di coscienza, sulla sua fronte un’altra
fronte, o una bocca, un braccio, qualcosa. Qualcosa che premeva e
sussurrava con la leggerezza ironica e fastidiosa di Ryoshi.
“Puoi scegliere,
Sesshomaru-kun”
*****
Blu. E poi azzurro e ancora blu.
E bianco. In quella striscia
sottile che si insinua fra le scaglie, discende sotto
il ventre e risale. Come un arabesco; o un nastro sinuoso, e sembra basti il
fremito dell’aria a farlo alzare, allargare e poi ridiscendere. Come un
aquilone. Un aquilone che cambia colore senza preavviso, inseguendo un
capriccio dettato dal vento o forse da se stesso. E adesso il ventre è giallo e
le scaglie diventano macchie rosse in campo bianco. Schizzi di un sangue che
non c’è; schizzi di occhi che si allargano e ti fissano, attraverso il velo
iridescente e umido. Oppure c’è il nero. Una lucida veste come di un’armatura,
che avvolge completamente il corpo e si confonde fra i riflessi più scuri. Come
in un gioco, come in un pigro mutamento che non ha ragione di essere se non nel
diletto, nell’autocompiacimento.
E poi. Poi c’è
la roccia, e l’acqua che trasuda e quella luminescenza viva che pulsa e pulsa e
ti entra nella mente e ti freme sotto le mani e ti prende. Ti prende e basta. E
non riesci ad allontanarti, a distrarti, mentre le mani toccano e toccano e sfregano e scrutano. E l’impressione, forte, ti fa
male e vorresti allungare la mano ed entrare: dentro l’acqua, dentro la roccia.
Dentro. Dentro qualsiasi cosa sia quella pietra che palpita e riluccica fra i vapori. Dentro. Forse per semplice
curiosità; forse perché, in fondo, quel dentro
non lo potrai mai comprendere, anche se lo tocchi, anche se ci consumassi i
giorni, i mesi e gli anni. Lo potrai sempre avere fra le mani, nelle mani; e se ne resterà lì, davanti a te e lontano da te.
Perché è come il nishikigoi che nuota nella pietra:
si lascia intravvedere, ma non lo puoi catturare. Non lo puoi nemmeno toccare.
Ti parla,
il nishikigoi. Parla in una lingua che non ha voce e
si condensa in piccole bollicine che scompaiono contro la pietra. Ma parla. E segue il fremito del tempo e di emozioni che si
fatica a rincorrere e a distinguere. Parla nei colori mutevoli delle scaglie,
nell’arabesco dell’oro e del calico, tessendo
discorsi fuggevoli come lo scorrere dell’acqua sulla pietra che lo racchiude. Ti
parla, e ti guarda. O credi che possa vederti, mentre resta immobile, i
baffetti che fluttuano e quell’ipnotico movimento delle pinne che non porta da
nessuna parte e sembra non poter smettere mai.
Una clessidra.
La prima volta che Ryoshi le aveva mostrato il nishikigoi Alessandra aveva pensato ad una
clessidra, senza un vero perché. Ma quel pesce; quel pesce chiuso in una roccia
che trasuda acqua all’infinito; quel pesce che fluttua senza tempo e senza
cambiamento, mentre attorno tutto trascolora e
diviene; quel pesce che muta colore con la velocità di un pensiero che non si
riesce a decifrare, quasi facendosi beffa di chi lo osserva e vorrebbe
raggiungere anche un briciolo di comprensione, un frammento di quelle parole
che sono acqua nell’acqua. Quel pesce per Alessandra era stata
una clessidra che continua a girare su se stessa: una clessidra d’acqua. E con
il nishikigoi era riaffiorato il tempo, nel peso e
nel significato più strano e inconsueto. Il tempo trascorso, prima di tutto. Il
tempo trascorso da quando era arrivata in quel mondo,
in quel passato così irreale e devastante. Da quando era arrivata: erano gli
inizi di novembre quando aveva accettato di prendere parte all’escursione alle
pendici del Fuji e al lago Shojin, e c’era vento e aria calda e umida. Aria da neve, aveva pensato,
senza darci troppa importanza. In fondo, erano pochi mesi che era in Giappone e
non poteva nutrire l’insensata pretesa di comprendere e conoscere anche le bizzarie del tempo quando aveva difficoltà con il rapporto
interpersonale. Ma quell’escursione era stata una
proposta allettante: una camminata nella natura, un pomeriggio sui pattini, se
il lago fosse stato ghiacciato come si sperava, e la tranquillità del ryokan e delle terme. Sì: un metodo rilassato e indolore
per provare a rompere un po’ il ghiaccio e far progredire, seppur di poco, lo
scambio culturale che aveva intrapreso.
Erano gli inizi di Novembre,
allora. E doveva essere la fine di Ottobre in quei giorni, almeno a giudicare
dalla natura e dal vento che si faceva più freddo sera dopo sera.
Un Ottobre caldo e non rassegnato a cedere all’inverno. Inverno: un anno. Era
da circa un anno che viveva in quel mondo. E gli ultimi mesi li aveva trascorsi fra delirio, incoscienza, futon e lenta convalescenza.
Li aveva trascorsi da sola, se escludeva la presenza delle bijin-sama,
di kodama e kinoko.
E Ryoshi.
Ryoshi
che la sveglia al mattino; Ryoshi
che conversa con lei nelle lunghe ore di riposo, che le offre il braccio, il
braccio di un uomo e non di un bambino, durante le passeggiate per
ristabilirsi. Passo dopo passo, sempre un po’ più lontano, sempre un po’ oltre
il limite del giorno precedente, fra le montagne che da verdi si facevano d’oro
e rosso. I silenzi, le parole o il suono dello shinobue. Il tempo aveva preso a scorrere in quel
modo da quando aveva riaperto gli occhi in quella noka.
E forse. Forse sarebbe continuano allo stesso modo se.
Già. Se.
Se Sesshomaru non le fosse
riapparso davanti una sera d’autunno, fra il ginko e il tramonto. Se non l’avesse guardata e fosse
rimasto lì, fermo e lontano da lei. E se il suo corpo; il suo corpo, stanco e un po’ traditore, non si fosse rifiutato.
Rifiutato di qualcosa che Alessandra non riusciva (o non voleva) realizzare in
piena consapevolezza. Perché era facile dare la colpa
alle gambe un po’ malferme un po’ disabituate al movimento; perché era facile
convincersi che toccava a lui avvicinarsi, toccava a lui concederle un cenno.
Perché è giusto così; perché non c’era, quando lei si era svegliata e non c’era
stato nei momenti in cui la debolezza e lo sconforto le stringevano lo stomaco
e mettere un piede davanti all’altro, restare ferma senza appigli e aiuti
ricacciando indietro capogiri e nausea erano torture che la lasciavano esausta
e madida di sudore su un futon in una stanza vuota e silenziosa. Troppo
silenziosa.
Avrebbe. Sì: lo avrebbe voluto
accanto. Fosse stato anche semplicemente una presenza
silenziosa. Ma. Ma poter socchiudere
gli occhi e intuirne il profilo nella semioscurità o sentirne il respiro calmo
nella notte. Poter allungare la mano sul legno freddo e un po’ ruvido,
nelle notti a metà fra sonno, stanchezza e paure profonde che non avevano nome o volto ma salivano come mareggiate e rendevano affanno il
respiro e lacrime le parole. Poter allungare la mano e toccarlo.
La sua mano.
Alessandra ricordava la vaga
sensazione di un qualcosa di elegante e sottile che avvolge. E ricordava gli
artigli che le sfioravano il palmo ogni volta che Sesshomaru racchiudeva le
dita attorno alle sue e stringeva con impaccio e forza controllata. Il tepore
appena percettibile che avvertiva quando Sesshomaru cercava la sua mano e la
ricopriva con la propria. Era più grande della sua di pochissimo, forse più
affilata e quasi diafana. Eppure. Le mani di Leone
erano sempre state grandi: grandi quando, da piccola,
la stringeva e la teneva ferma sulle sue spalle. Grandi quando le aveva
insegnato l’equilibrio dei pattini, mentre le rimboccava le coperte o le tirava
una palla di neve. Leone, per Alessandra, aveva sempre avuto mani grandi pronte
a sostenerla e proteggerla; pronte a coprire quello
che non avrebbe voluto vedere. Amava le mani di suo fratello, e amava quando le
accarezzavano la testa, quando si insinuavano nei suoi
capelli e le massaggiavano le tempie, dopo le ore di studio. Amava giocarci,
con le mani di suo fratello: rincorrere le ombre e studiarne i segni. Erano
mani che erano cambiate negli anni: la fossetta all’indice, per la pressione
continua sul grilletto; l’anulare e il mignolo che non riuscivano mai a
distendersi del tutto; il segno quasi normale del calcio della pistola nel
palmo sinistro. La pelle dura del palmo destro per l’utilizzo della spada. E
assieme la leggerezza che aveva saputo conservare, come quando catturava una
farfalla e gliela mostrava, prima di liberarla senza averla davvero toccata.
Eppure.
Eppure le mani di Sesshomaru erano così diverse. Sottili,
quasi femminili; con le dita lunghe e gli artigli affilati. Ma c’erano quei particolari; quelle piccole cose che
Alessandra aveva imparato a sentire con il tempo: il tendine del polso duro e
pronto a scattare alla minima necessità; la fermezza con cui frustava l’aria e
raccoglieva la sua mano o il suo viso. C’era voluto tempo, prima di
avvicinarlo. Tempo prima che le mani scivolassero l’una nell’altra e anche
quando era diventato un gesto naturale, Sesshomaru vi ricorreva raramente e solo
nelle sue stanze o con la sicurezza di non esser visti. Ogni gesto, per la
precisione, era da Sesshomaru ridotto al minimo, anche nelle sue stanze private.
Un filtro che Alessandra aveva dovuto accettare quasi con rassegnazione e
obbligo: un po’ per la natura stessa dello youkai un po’ per quello che sembrava essere un innato
pudore orientale per qualsivoglia contatto fisico esplicito, di certo in pubblico;
e Sesshomaru sembrava centellinarlo anche nel privato.
Eppure.
Eppure Alessandra non si era
sentita trascurata prima dello scontro e della naginata.
Sesshomaru aveva imparato altre movenze, altri modi per mostrarle la sua
attenzione. Alcuni fisici, alcuni semplicemente basati sulla
sua presenza o su poche parole. Ma quella distanza; la distanza di
quella sera era stato qualcosa di nuovo e non
decifrabile. O almeno Alessandra non era riuscita a spiegarsi il senso di
quella che, in definitiva, poteva considerare solo come un’apparizione quasi
onirica. Perché mostrarsi, se non aveva avuto l’intenzione non solo di
avvicinarsi, ma nemmeno di parlarle? E, cosa che la sconcertava maggiormente,
cos’era stato quel senso di sollievo, quel respiro
rilasciato senza essersi nemmeno accorta di averlo trattenuto quando lo aveva
visto darle le spalle e scomparire. Perché, inutile continuare a negarlo, aveva
avvertito la tensione scemare assieme ad una
innaturale spossatezza che l’aveva pervasa, quando era stata certa che non si
sarebbe avvicinato, che non l’avrebbe toccata, che non…Già: baciata. Aveva
realizzato con sorpresa e perplessità di non desiderare di baciarlo, con
l’istinto di ritrarsi e proteggere la bocca, il viso. Tutto. Tutto quello che
avrebbe potuto di nuovo farla…Farla cosa? Perché le
erano tornate in mente le minuscole e sottili cicatrici al polso? Le cicatrici:
gliele aveva fatte lui, con i suoi artigli, una sera o
una notte di mesi prima. Per fermarla; per impedirle di scappare da qualcosa. O
forse solo per rabbia, per il rispetto che si ostinava a non mostrargli, per
quella irrazionale e viscerale necessità che avvertiva di provocarlo. Non era
odio o antipatia; e nemmeno attrazione. Cos’era, quel sentimento che si era
formato quando lo aveva visto, quando era stata costretta a seguirlo?
Non era amore. E non era rabbia.
Nemmeno curiosità. Forse. Forse necessità. Necessità e desiderio. Di lui; dei
suoi artigli. Degli artigli e delle zanne nella pelle,
dentro; nella carne. Aveva immaginato: il sibilo dell’aria e l’eco di
uno strappo. Sarebbe stato come strappare qualcosa di un po’ duro e resistente.
E si sarebbe accasciata a terra e …. Forse l’avrebbe azzannata alla gola; forse
le avrebbe staccato la testa. Non importava: voleva solo che lo facesse. Che attaccasse.
Voleva. Voleva davvero morire? O desiderava invece dimostrare a se stessa
che…Che cosa? Che avrebbe potuto battere uno youkai?
Era ridicolo! Una ridicola assurda arroganza che non aveva mai avuto senso di
esistere. Però. Però la gola
gliela offriva lo stesso, assieme a sfacciataggine e provocazione.
La gola.
Già: gliela aveva sempre offerta, la gola. Prima da azzannare; poi da baciare. E le
zanne c’erano state, sulla sua gola. Leggere; ed erano un brivido sottile fra
proibito e pericoloso. Ed erano orrore e divertimento: perché erano le stesse
zanne che la sfioravano quelle che aveva scoperto, più
di una volta, rosse di sangue rappreso. Dopo gli scontri; dopo le sortite.
Anche durante quell’ultimo scontro le zanne di Sesshomaru erano rosse; e Alessandra
aveva avvertito, nella confusione del dolore e della spossatezza, il disgusto
montare assieme a qualcos’altro. Qualcosa che non aveva avuto né forza né
volontà di definire. Ma che c’era ed era ancora lì,
nascosto da qualche parte. E forse. Forse era solo tornato a galla e Sesshomaru
l’aveva visto.
Oppure.
Oppure poteva esserci un’altra spiegazione. Una stupida semplice elementare
spiegazione che lei non era ancora riuscita a trovare.
Respirò piano e si ravvivò i capelli con la mano. Il sentiero si snodava fra
felci e muschio, con il grigiore delle pietre che faceva capolino a tratti fra
il fogliame marcio, reso lucido dalla poca luce che riusciva a filtrare. La
sera e la frescura le scivolavano sulla pelle, assieme alla sensazione di
vertigine che la coglieva ogni volta che attraversava la barriera.
La prima volta. La prima volta
era stato quasi per scherzo, una passeggiata e qualche
esercizio con un traguardo un po’ più lontano, la curiosità stuzzicata di
scoprire cosa ci fosse, oltre la macchia di bambù, il lucore che filtrava fra i
ginko. E le allusioni sospese di Ryoshi
che raccontava lasciando nebbia sulle parole, lasciando
i contorni indefiniti come durante un temporale.
E no, non aveva mai percepito
nulla, attorno alla noka: suoni, odori, sensazioni.
Tutto filtrava attraverso quella cortina molle e invisibile che, da quando era
stata portata lì, l’aveva protetta e nascosta all’esterno. Era come trovarsi in
una bolla opaca: un kekkai, le avevano detto. Fatto per occultare, per racchiudere e assieme permettere libertà.
Perché è dall’esterno che la noka
non è visibile; perché è come un ingresso: la porta verso un qualcosa che…Non
glielo avevano saputo spiegare: né le bijin-sama né Ryoshi. O forse era stata lei a non essere in grado capire
esattamente cosa significasse entrare in un qualcosa
di diverso. Capiva solo una cosa: dentro e fuori. E passare la barriera
significava fuori.
La prima volta era stato destabilizzante: un’immersione inaspettata e
soffocante. E la mano di Ryoshi che diviene adulta
nella sua, braccia robuste a sorreggere il suo corpo disorientato e una
frescura umida e inconsueta scenderle sul viso pallido e freddo. Mentre la
nausea montava, contraeva lo stomaco e si riversava in un conato che l’aveva
fatta cadere all’improvviso, una mano a reggere lo stomaco e l’altra forse a
proteggersi. Non ricordava bene cosa fosse successo esattamente: forse era
stata solo un’impressione forse aveva realmente vomitato, mentre il sapore di
caldo e sabbia secca scivolava lontano assieme alla sensazione di mille
tentacoli invisibili che si staccavano con schiocchi sordi.
La prima volta era stata
traumatica, e per del tempo non aveva più voluto superare il perimetro del
giardino della noka. Engawa,
albero di magnolia, engawa: lì si concentrava, ostinato,
il suo mondo. Anche se la vegetazione attorno era invitante; anche se il
mormorio di piccoli corsi d’acqua le arrivava a sprazzi nel vento. Dovevano
esserci delle cascatelle, non molto lontano; e dei piccoli specchi d’acqua. E Ryoshi parlava e parlava e cercava
di convincerla: è normale, aveva detto. Le prime volte la barriera disorienta
sempre; ma non è cattiva. È protezione; è normalità. Bastava farci l’abitudine,
e avrebbe imparato ad avvertire il passaggio in modo diverso: sarebbe stato
come immergersi nella sabbia arroventata dal sole. E al fastidio si sarebbe
sostituita una sensazione come di piacere, di ovvietà.
La prima volta era stato brutto; e anche la seconda. E la terza. E anche se,
con la reiterazione dei gesti e il respiro sempre più regolare, i conati e le
vertigini si erano diradati, le restava l’impressione di una violenza, di uno
strappo che si veniva a creare, forse nel kekkai
stesso forse in lei. E quando si voltava, nell’aria uguale e fredda rispetto al
calore soffocante del passaggio, aveva a volte l’impressione di vedere labbra o
bocche che sanguinavano e si contorcevano prima di richiudersi fino a creare
una cortina impalpabile, che nascondeva la noka.
Alessandra sorrise, mentre la
mano correva a cercare sostegno nel tronco più vicino. Aveva riacquistato il
suo equilibrio, e ormai anche camminare le risultava
di nuovo naturale e semplice. Come se il tempo trascorso fra barcollii e
incertezze non fosse mai esistito. Eppure; eppure la
consapevolezza scivolava nell’automatismo della mano che si tende alla ricerca
di un sostegno, del braccio di Ryoshi o delle bijin-sama quando i geta
incespicavano o il sentiero è di poco sconnesso.
Si fisso la mano: le leggere
escoriazioni che la segnavano, ricordo dell’ultimo tentativo che aveva fatto di
allontanarsi da sola. Non le era impedito, come aveva supposto al principio;
paradossalmente, le bijin-sama avevano incoraggiato
quel suo desiderio di allontanarsi dalla noka, anche
senza la presenza di Ryoshi. A volte c’erano i kodama, ma più spesso ne avvertiva solo la presenza nel
respiro degli alberi attorno a sé. Non avrebbe saputo spiegarlo; era diventata
naturale la sensazione sulla pelle: i gesti seguiti da mille piccoli occhi cavi
senza espressione che sembravano ridere nel loro suono di nacchere d’osso ad
ogni passo che aveva imparato (ricordato). Nessuno aveva mai tentato di
fermarla né di dissuaderla. E con il tempo aveva preso l’abitudine, alla sera, nella luce morente, di superare la barriera e
aggirarsi lungo i sentieri. Senza meta e preoccupazione di strada e tempo: un
piede avanti all’altro, fino ad una pietra o ad una
delle cascatelle che si insinuavano fra le rocce e il muschio. A volte erano
davvero pochi passi, e il tempo scorreva nel gioco di luci del crepuscolo, finchè lo shinobue echeggiava e Ryoshi le compariva accanto e con lui rientrava alla noka.
La sensazione di umido sulla
pelle nuda le provocò assieme repulsione e piacere. Raccolse i geta e riprese a seguire la curva del sentiero che saliva
appena lungo il pendio, nella boscaglia di betulle e aceri. Era una piccola
follia, si ripeteva. Uno sciocco capriccio che poteva concedersi, anche senza Ryoshi. Non c’era nulla di male, in definitiva: voleva solo
vedere di nuovo il pesce nella pietra. Avvertire l’acqua tiepida scivolarle fra
le mani e la sensazione di tranquillità e protezione che aveva avvertito la
prima volta, quando Ryoshi le aveva bendato gli occhi
e guidata. Ricordava. Ricordava la sensazione di scivoloso fra le mani, assieme
all’acqua che scorre: toccare Ryoshi era sempre
difficile. Aveva paura che evaporasse o si frantumasse in mille piccole
goccioline. Eppure. Eppure le sue mani incontravano
carne, consistenza; avvertivano un pulsare irreale eppure rassicurante.
All’inizio non aveva capito esattamente: non aveva compreso cosa intendesse Ryoshi quando le aveva detto sono
un mizuchi; e nemmeno il mostrarle le mille
possibilità della sua essenza aveva contribuito. Ma quel giorno, mentre lo
seguiva senza vedere, con nell’aria odore di umido
acqua e musica intuì qualcosa che non avrebbe mai potuto spiegare a parole. E Ryoshi non era più Ryoshi ma ogni
atomo che la circondava, ogni goccia che avvertiva bagnarle il kimono,
scorrerle sulla pelle, dentro la pelle. Avvolgerla e
prenderla come l’onda del mare; stringere e circondare per poi lasciar andare
quasi all’improvviso, assieme a un rombo che sembra un urlo o una risata troppo
alta.
E Ryoshi
l’aveva lasciata andare; e la pietra squadrata e piatta si distendeva sotto il
pelo sottile dell’acqua, fra il fumo che sapeva di minerali. Una normale
pietra, liscia per il lungo scorrere dell’acqua sulla sua superficie, ma c’era
quel debole chiarore che si confondeva con i riflessi del sole e il vapore. E
la mano aveva tremato mentre Ryoshi la guidava prima
a sfiorare la superficie dell’acqua in una carezza timida che diventava via via più intensa, seguendo le increspature e le minuscole
imperfezioni che si avvertivano. Mentre Ryoshi la
osservava disteso sulla superficie dell’acqua come su un tatami nero e fumoso;
mentre allungava un dito e penetrava la roccia come non fosse esistita e la
luminescenza indefinita diveniva luce e i riflessi rivelavano le squame
iridescenti di una carpa che si avvolgeva attorno alla mano forse conosciuta,
di certo non nemica. Alessandra ricordava il dispiacere e la frustrazione per
poter solo guardare, la pietra sotto le mani che rimbomba sorda e resiste alla
pressione; la carpa guizzare e mutare i propri colori dall’oro al rosso al blu
e poi al nero, prima di discendere verso il fondo e risalire. Sembrava potesse
fuggire da un momento all’altro, tanto la pietra si faceva trasparente e
cristallina, come uno specchio in fondo ad un pozzo.
Ryoshi
le aveva detto che era un kosokosoiwa, uno spirito
dell’acqua come lui. E che era un dono per lei, per quello che in quei mesi era
riuscita a conquistare: qualcosa che sarebbe stato suo per sempre senza poterlo
possedere mai veramente. Ma suo. Suo.
L’aveva riaccompagnata a casa
molto tardi, quel giorno. E prima di andarsene le aveva
detto: ricorda: è tuo, anche se non lo
puoi toccare.
E adesso la pietra riaffiorava
dal vapore, con l’eco lontano di un colpo ritmico a confondersi con il fruscio
della cascatella fra le felci. Sarebbe stato così semplice: stendersi sull’erba
umida e allungare la mano nel vapore, ricercando un po’ con
la memoria un po’ con l’istinto il punto da cui partire. Ecco: la
piccola fossetta, a lato del bordo. Un poco più in alto,
adesso; il centro. E adesso sfiorare l’acqua tiepida e ridiscendere in
una carezza lungo i bordi arrotondati e lisci. Prima con l’indice, così:
lentamente. Aprire il palmo, un dito alla volta, ascoltando
la sensazione di formicolio della corrente leggera sulla pelle. Aspettare:
bisogna aspettare. Il palmo aperto e sospeso; ancora. Ci vuole ancora un po’, o
è già trascorso troppo tempo? No: Ryoshi le ha detto
pazienza. Non può esser veloce, o la carpa si spaventa e non si mostra. No. Con
calma. Va bene: prova. Piega un po’ il polso, così; ancora un po’. E adesso;
adesso devi seguire cerchi come increspature; piccoli centri concentrici che si
fanno via via più grandi. Così, con calma. Non
bisogna avere fretta; mai fretta. Anche se la terra è
pesante e fastidiosa, contro lo stomaco; anche se i vapori ti
investono il viso in una cortina umida che si appiccica alla pelle e
rende lucidi e scomposti i capelli.
Potrebbe. Sì: potrebbe sollevare il
kimono e legarlo all’obi. Appena sopra il ginocchio e
poi lasciarsi scivolare in acqua: c’è un base rocciosa
poco profonda, vicino alla pietra, l’ha vista; e poi la polla discende velocemente.
Ma quel bordo c’è, e basta fare un po’ di attenzione
per non scivolare. Ecco: i lembi raccolti e annodati in vita, fermati dal sageo. E il calore intenso risalire sulla pelle con uno
sbuffo di vapore, mentre scende in acqua e allunga le mani sulla superficie del
kosokosoiwa. E i movimenti si rilassano, si adeguano
allo scroscio dell’acqua e all’eco di quel tonfo: toc toc toc. Ecco: la luminescenza si intensifica,
avvolge il polso e risale assieme all’umidità e all’acqua. È un fremito caldo,
come una garza bagnata d’acqua calda. E la pietra: la pietra
sta scolorando: al centro, sotto le mani che continuano a carezzare, come un
foro che si va allargando, centimetro per centimetro, mentre il corpo flessuoso
della carpa assume spessore e consistenza, si riesce a definire in modo sempre
più preciso. É…è bianca. Bianca screziata di azzurro. E vuol dire…vuol dire…Alessandra sorrise, le spalle in un sussulto
divertito: non lo ricorda. Forse Ryoshi non gliel’ha
detto; o forse non lo ascoltava e basta. Troppo interessata
ai riflessi e ai guizzi che alle parole.
Pluch.
Guizzi. L’altra volta c’era stato l’eco di un guizzo, prima. E la carpa si era mostrata
arrotolata su se stessa, in movimento. Ma adesso.
Adesso la carpa non sta nuotando. Resta così: ferma sotto le sue mani. E la
guarda. Guarda attraverso la pietra lucida come cristallo; mentre l’acqua.
L’acqua si è come alzata e abbassata in un onda. Un onda o un movimento. Pluch. L’acqua non fa pluch L’acqua fa…Fa…Qualsiasi cosa faccia, non fa pluch. Non in una pozza d’acqua; non a ridosso di uno zampillo e nel
mormorio sottile di piccole onde. Onde. Non ci sono onde, in una pozza.
Non ci sono onde in una piccola pozza immobile, avvolta nel vapore.
Non. Ci.
Sono. Onde.
Eppure.
Eppure l’acqua sta tremando, e c’è quel rumore. Lo scroscio dell’acqua che si
tuffa; dall’alto, da molto in alto e senza pietra o
roccia ad accompagnarla. Come quando rovesci una bacinella nel secchio: e l’eco
è un gorgoglio cupo e uno scroscio sordo. Molto sordo.
Forse. Forse è una scimmia. Sì:
una scimmia. Ryoshi dovrebbe avergliene accennato, se
non ricorda male. Ci sono alcune scimmie, su quelle montagne. E quando l’aria
si fa più fredda e l’autunno inizia a declinare, alla
sera, non è inusitato scorgere il loro muso rosso acceso far capolino fra i
vapori di una sorgente termale. Non fanno niente, le aveva detto; basta non
stuzzicarle o cercare di scacciarle. Si può condividere la stessa sorgente
senza preoccupazioni.
Ecco: certo. Si tratta di una
scimmia, forse due. E l’acqua che cade. L’acqua che cade è solo acqua sollevata e gettata. È solo impressione. Va bene. Va
tutto bene.
Adesso. Adesso basta voltarsi, e
vedrà due occhi curioso che la fissano fra il fumo.
Potrebbe. Potrebbe prendere un bel respiro; e non deve urlare. Perché, in
fondo? Sono solo scimmie. Non c’è nulla di strano; nulla di preoccupante. La koi non si sarebbe mostrata, altrimenti, giusto? La koi non si mostra, se ha paura. Ma
è lì, sotto la sua mano. Ferma.
Ferma. No: assurdo. È ferma
perché la vuole guardare. Perché è curiosa. O forse ha sbagliato qualcosa, nei
suoi gesti. E la koi ha percepito il diverso, il
movimento preoccupato del suo corpo; è abituata a Ryoshi,
la koi, non al suo richiamo. È abituata alla mano che
scende a carezzarla.
Va bene. Non c’è nulla: anche
l’acqua è ferma adesso. Non era niente. Assolutamente niente.
Basta voltarsi e c’è solo vapore.
Solo vapore. Vapore.
Bianco.
Bianco.
C’è solo bianco. E poi. Poi.
Quell’ombra; quell’ombra più scura che si condensa nel
vapore, mentre l’acqua ha ripreso a sciabordare e Alessandra la sente risalire
fino al ginocchio e ritrarsi. E la pietra. La pietra è all’improvviso
scivolosa, troppo scivolosa, e i geta
lontani, mentre la mano scorre sulla stoffa in un gesto automatico e si
nasconde nel nodo dell’obi. Il tanto. Deve allentare
la chiusura di sicurezza e stringere l’impugnatura; si estrae facilmente: una
piccola torsione del polso ed è fatta. Ecco: dovrebbe…Dovrebbe essere nel terzo
risvolto; lo mette sempre nel terzo risvolto. Abbastanza
imbottito da non essere notato; abbastanza agevole da
non essere frenato nell’estrazione. Lo ha sempre messo
lì, prima di uscire. Il palazzo non è sicuro; il palazzo
è pericolo, per lei. Il palazzo.
Già: il palazzo. Il palazzo è altrove. E lo è anche lei.
Da quando non si preoccupa più di
infilare il tanto nell’obi? Da quando la sensazione
di guardia si è affievolita fino a scomparire del tutto? Da quando avverte solo
protezione? Alessandra prese un respiro a metà fra un singhiozzo e un colpo di
tosse: pericolo. C’era qualcosa, in quell’ombra che si condensava sempre più
che le faceva ripetere, urlare, nella testa: pericolo.
E quella sensazione sgradevole
divenne crampo e vertigine e desiderio. Desiderio di
scappare, di allontanare, di fuggire; desiderio di restare, di capire, di
ritornare indietro mescolati all’adrenalina e a un senso di colpa e di
repulsione. Illogico. Perché non aveva motivo di esistere; perché non aveva
nulla di cui….vergognarsi? Giusto? Mentre sentiva i muscoli tendersi fino a far
male; mentre l’eco dell’acqua e di colpi invisibili si rincorrevano
e diventavano gong giganteschi che la frastornavano, assieme al calore che saliva
in volute di vapore, attorno a lei, dentro di lei. Mentre Sesshomaru le
sfiorava la pelle umida con la bocca e scendeva lungo la gola, fino alla base
del collo per poi risalire, la lingua che seguiva la scia di minuscole
goccioline. Ancora più su, al lobo dell’orecchio stretto fra
i denti, morso e rilasciato.
L’acqua tiepida era quasi
un’offesa attraverso la stoffa, attorno alla testa. E Alessandra avvertì i
suoni attenuarsi come attraverso un filtro, mentre l’acqua le lambiva le tempie
e le scorreva sotto la schiena, nella schiena, nelle
pieghe del kimono che si gonfiava d’aria e d’acqua, allargandosi più di quanto
avrebbe dovuto. Realizzò in un gemito di aver perso l’appiglio e che adesso i
suoi piedi, le sue gambe, galleggiavano oltre il bordo del kosokosoiwa;
e che era sdraiata. Sdraiata su una pietra liscia e calda,
mentre un uomo, uno youkai…Mentre Sesshomaru.
Sesshomaru.
La mano che risaliva lungo la
coscia, dentro l’acqua, dentro la stoffa. Risaliva e le premeva il fianco nella
pietra, come se potesse immergervelo, mentre la seta awase
iniziava a pesare e bloccare i movimenti, le contrazioni dei muscoli e del
respiro. E poi. Poi c’era la bocca; da qualche parte, lungo il suo corpo. Lungo il suo corpo nudo fra il vapore, la parte alta del kimono
aperta e lasciata galleggiare pigra, intrecciata ai capelli, avvolta fra braccia
imprigionate e libere. La bocca di Sesshomaru. Sul corpo. Sul suo corpo. Sul
suo corpo nudo. La lingua; e le mani e poi di nuovo le labbra. La fronte
premuta sull’addome, mentre le mani risalivano di nuovo i fianchi, li stringevano, li abbracciavano. E il corpo la chiudeva,
scendeva su di lei e si allontanava per concentrarsi su altro, per stuzzicare,
esplorare, sfiorare altro. I seni nudi; e un male simile ad
un pizzicorio continuo che va intensificandosi, fino
a diventare una piccola morsa. Per l’aria, certo. Per l’aria fredda sulla sua
pelle calda, sulla pelle bagnata di vapore e sudore. O
forse era…Era…La pressione delle zanne appena sotto la clavicola, la pelle che
freme stretta e morsicchiata. E poi di nuovo. Di nuovo la vertigine che l’avvolge, assieme alla nausea e alla voglia di scappare, di
andarsene. E Sesshomaru stringe i polsi, li solleva e li accarezza. Stringe,
bacia, morde. Ed è nudo sopra di lei; e la stoffa è un ricordo che si apre
attorno ai loro corpi. E il vapore è respiro e affanno e labbra gonfie e lucide
e acqua che si condensa sul corpo, in pizzicorii che
si confondono con gesti, che invitano ai gesti, a
continuare, a scoprire. Ad andare oltre.
Sesshomaru si costrinse a restare
immobile, la fronte contro i seni di Alessandra e le braccia strette ai suoi
fianchi. Si costrinse ad accettare il fremito che avvertiva nel corpo sotto di
sé, i brividi e gli spasimi che si succedevano sempre più intensi, mentre il
respiro diventava singhiozzo. Non reagiva realmente; non lo allontanava, non
urlava, non si dibatteva. Restava semplicemente inerme. Era rimasta inerme
mentre la toccava, mentre la spogliava; non si era difesa, ma lo aveva
guardato. E Sesshomaru si era accorto che Alessandra andava oltre il suo viso,
oltre il suo corpo; si era accorto che fissava lui come avrebbe fissato il vuoto e i riccioli di vapore. Lo aveva guardato
mentre arretrava fino a restare imprigionata fra il kosokosoiwa
e il suo corpo; lo aveva guardato quando l’aveva costretta a sedersi e le aveva
fatto inarcare la schiena fino a farla sdraiare. E
poi. Poi aveva continuato a tenere gli occhi aperti, senza un’espressione
soddisfacente.
Sesshomaru aveva imparato con il
tempo che i ningen mostrano la loro emozionalità nel volto, nel corpo, nella
voce. Aveva intuito la contraddizione di certi atteggiamenti, la pericolosità
dell’ira che esplode senza preavviso, l’egoismo che si nasconde sotto
atteggiamenti ambigui e troppo complessi da discernere
velocemente. Aveva conosciuto l’odore della preda prima che morisse;
l’eccitazione di un guerriero alla prospettiva di uno scontro; la lascivia e
l’orgoglio che traspariva dalle yasha
che lo volevano. E sapeva che le sue stesse emozioni, per quanto abituato a
dominarle, potevano sfuggire al suo controllo e concretizzarsi
in un fremito anche appena percettibile, nel movimento involontario degli occhi
che si stringono, nella flessione inconscia degli artigli o nel ringhio che
sentiva premere in gola. Ma le espressioni dei ningen gli erano sempre risultate arcane e insignificanti, patetiche, in balia di
contorti processi che non si era mai preoccupato di considerare.
Eppure.
Eppure quello che Alessandra
provasse lo aveva capito fin da quando l’aveva vista fra l’oro dei ginko, fin da quando aveva deciso che un passo nella sua
direzione, quella sera, era pericolo.
Di qualcosa che non aveva nome, ma pericolo. E l’aveva
riavvertito violento invaderlo di nuovo quando le si era
avvicinato, l’acqua che sciabordava al suo passaggio e al vapore mescolarsi un
odore che aveva imparato a distinguere da subito: paura. L’aveva percepito
chiaro, mentre gli scendeva nei polmoni, e aveva deciso di ignorarlo. Aveva
deciso di continuare a camminare, di abbracciare il corpo che emergeva dal
vapore, che scivolava e si concretizzava in pelle e
tentazione fra la stoffa pesante del kimono.
Era stato diverso.
Diverso da quella volta che si
era concesso a quella yasha;
diverso il fremito che aveva percepito e che continuava. E aveva deciso: andare
avanti. Per poter zittire una sensazione, un istinto
che aveva iniziato a prendere forma nella sua mente quando aveva colto lo
sgomento negli occhi di Alessandra al suo emergere dal vapore. Non lo aveva mai
guardato così, nemmeno mentre le stringeva la gola fra gli artigli. Non lo
aveva mai guardato in quel modo, con la pupilla dilatata simile alla follia e
un luccichio che, testardo, aveva attribuito solo all’umidità della polla. Non
lo aveva mai guardato in quel modo, e Sesshomaru realizzò in un singulto che
non lo stava realmente guardando, che aveva smesso di guardare
lui, di sentire il suo respiro e il suo corpo nel momento stesso in cui l’aveva
toccata. E le mani che l’avevano accarezzata erano state altre mani, e altre
bocche e lingue e respiri. Anche se gli accarezzava il viso, anche se gli aveva
stretto il viso fra le mani e lo stava ripercorrendo nei suoi contorni. Come se
toccarlo potesse cambiare qualcosa, ormai.
Le labbra che si muovevano
rincorrendo un nome che diventava un singhiozzo muto; e quel tremore continuo
che non si placava, che veniva da dentro e faceva male e nausea e disgusto.
Alessandra ripercorse il profilo di Sesshomaru, infilò le dita nei capelli
lucidi e bagnati, e si chiese perché. Perché, benché lo avesse lì, benché si
fosse lasciata spogliare e no, non ne fosse pentita, non provasse vergogna,
l’unica parola che le risuonava nella mente era: scappa. Perché il volto di Sesshomaru le fosse così estraneo, così distante. Perché tremasse e
desiderasse che se ne andasse, come aveva desiderato che la smettesse di
toccarla, di spogliarla, di amarla, e assieme avvertiva l’orrore al pensiero di
quel corpo che si allontanava, il disorientamento di esser lasciata su quel
sasso, nuda e sola come un oggetto senza valore, come il kimono che si
allargava nell’acqua.
Si accorse delle lacrime e dei
singhiozzi, del respiro irregolare e della bocca impastata di pianto solo
quando avvertì artigli sfiorarle il viso e Sesshomaru fissarla con un misto di
consapevolezza e…cos’era? Dolore? Sorpresa? O forse era accettazione. Di un
qualcosa che non riusciva a capire e che, sentiva, poteva solo spaventarla. Il
corpo di Sesshomaru scivolare sul suo, riprendendo posizione eretta;
assecondarlo mentre la riportava seduta, l’acqua a lambirle la vita e il petto
offerto all’aria e al vapore. E al suo sguardo. E Sesshomaru la guardò,
percorse la linea del collo, scese fra i seni stringendo le mani, nel buio
dell’acqua, per frenare il desiderio di toccarla ancora, di ignorare quello
che, chiaro, palese, vedeva nelle membra frementi e negli occhi dilatati, nella
scia silenziosa di lacrime che Alessandra non riusciva ancora a realizzare di
star versando.
Si soffermò sul ventre e sui
fianchi ancora un po’ magri, sbirciò i polsi sottili e ricordò per distrazione
com’erano prima, flessuosi ma con i nervi e le ossa che scomparivano nella
carne. Intuì a memoria le cicatrici che le segnavano un polso e si soffermò sulle
labbra socchiuse. Quando la baciava, era solito trattenere fra i denti il
labbro inferiore, quasi compiacendosi del sorriso che percepiva. Stringere e mordere prima di rilasciare, per sfiorarlo subito con
un dito e scoprirlo tumido e caldo.
La guardò.
E realizzò di volerla vedere
ancora così, scarmigliata, con i capelli che gocciolavano sul corpo e la pelle
completamente offerta. Realizzò di volerla, e che sarebbe bastato un gesto, un
movimento irrisorio per lui, e l’avrebbe avuto di nuovo sotto di sé, l’avrebbe
avuto davvero. E Alessandra. Alessandra non si sarebbe opposta. Lo realizzò con
un moto che potè associare solo al terrore pur nella
calma totale che lo stava pervadendo, pur nell’insensatezza di quella
sensazione. Ma il terrore di uno youkai
è così diverso da quello che ha scorto infinite volte negli occhi dei ningen al
semplice sentore della sua presenza. Il terrore di uno youkai
è molto più profondo, e si allarga a tutto il suo essere; è la sensazione di
qualcosa di cambiato, di un elemento stabile che rovina e trascina con sé. Non
getta del panico, il terrore di uno youkai. Ma fa male.
Sesshomaru era terrorizzato.
E Alessandra davanti a lui non
smetteva quel pianto silenzioso che sembrava una preghiera, mentre le labbra
mormoravano senza voce forse un nome forse una nenia o una preghiera. Era come
nel delirio: cosciente di quello che stava succedendo, e assieme incapace di
realizzarlo. E Sesshomaru era Sesshomaru ed era altri youkai; e le sue mani erano state mani estranee e bramose e
la bocca e le labbra, la lingua il corpo. Tutto. Tutto era Sesshomaru ed era
altro. Erano quei demoni. E non capiva perché; si ripeteva che non c’era un
perché.
Sesshomaru era lì, e non la
costringeva. Sesshomaru era lì, e Alessandra sentiva il suo desiderio e la
volontà che lottava per frenarlo, il controllo che imponeva a se stesso. Non si
chiese il perché; l’unica cosa che sapeva era che non aveva senso. Perché
Sesshomaru era Sesshomaru; e gli youkai erano altri youkai.
Eppure.
Eppure il suo corpo tremava e
urlava e piangeva e rifiutava. Rifiutava lui.
“Hai paura.
Di me.”
Non gli fece male.
Non lo spaventò come si era
immaginato fino a pochi istanti prima, con quel groviglio di tensione e
desiderio che gli premeva nel ventre. Non gli fece niente: come una qualsiasi
altra frase gettata per caso nel silenzio; come se fosse stato solo silenzio. Sesshomaru si riscoprì calmo e cosciente di se
stesso, e accettò con indifferenza il disorientamento che vide chiaro in
Alessandra: il labbro tremare lucido, incrinarsi e sparire in bocca, stretto
fra i denti in un tentativo infantile e sciocco di controllarsi, di non
piangere; mani sollevate a tremare convulsamente, scivolare lungo il corpo e
stringersi al petto, nascondendo una nudità di cui, adesso, Alessandra provava
solo vergogna e disgusto. Contrasse la mascella e gli sembrò di sentirlo, il
lacerarsi della carne del braccio, del seno, lì dove Alessandra premeva le
unghie per farsi male, deliberatamente male, e non sentire quelle parole echeggiare
e ripetersi nella sua testa.
Paura.
Paura; paura;
paura. Di lui. Di lui. Paura. Di. Lui.
No. Non era vero. Non poteva
essere vero; non doveva essere vero. Lui; Sesshomaru.
Lei. Lei non aveva paura. Perché avrebbe dovuto aver paura? Non le aveva mai
fatto nulla; nulla. Aveva cercato di proteggerla; aveva cercato
di aiutarla. Aveva. Aveva davvero? O erano state le circostanze, gli eventi
costruitisi in un modo quasi ironico a creare tutto? Va bene; poteva. Poteva
essere tutto. Ma la paura. La paura no.
Perché? Perché aver paura di lui?
Di lui che la desidera, anche in quel momento, e si limita a guardarla. Perché
doveva aver paura di Sesshomaru, della sua mano che scivolava lenta sulla
superficie dell’acqua e si stringeva sulla stoffa del kimono. Alessandra seguì
ipnotizzata la stoffa che veniva risollevata, l’invito
silenzioso a lasciarsi rivestire, senza mai sfiorarla. Il
date-eri risistemato e il kimono stretto nei lembi a celare nuovamente, a
conservare. Avrebbe. Avrebbe potuto strappare il kimono; avrebbe potuto godere di lei quando avesse desiderato; avrebbe potuto
averla solo pochi attimi prima.
Prima.
Già: prima. Prima la stava
amando. Prima Sesshomaru era sopra di lei, e la stava amando. E l’unica cosa
che riusciva a ricordare nitidamente era il desiderio di andarsene, di
scappare. Inghiottì a vuoto. Paura. Era davvero paura? Non poteva essere
sorpresa? Trepidazione? Sarebbe stata…Sarebbe stata la prima volta. Sarebbe
stato normale, in fondo. E invece. Invece no. Lo sapeva; lo sapeva
senza capire come o perché: non era di quella paura che Sesshomaru parlava. Non
era quella l’ansia e la trepidazione che sarebbero stati
naturali. Era qualcos’altro; qualcosa di diverso. Qualcosa di semplice e
devastante. E Sesshomaru l’aveva capito e lo conosceva. Avrebbe potuto
chiedergli perché? Avrebbe potuto pretendere che le spiegasse il ragionamento
della sua mente? Perché aver paura di lui? Perché?
“Perché?”
Sesshomaru socchiuse le labbra, sfiorò con le zanne con la lingua, in un gesto distratto, e
richiuse la bocca. Alessandra lo guardava fra i capelli spettinati e la mano
aperta sul viso. Sì: aveva paura. Paura di lui; di sentirsi dire esattamente
cosa temesse; paura di ricordare cosa avesse scatenato tutto. Paura di rivedere quella violenza senza filtri, nella sua
disarmante brutalità. E scoprire che davvero non c’era molta differenza
fra gli youkai e lui stesso. Sesshomaru si lisciò le
labbra; il vapore gli sembrava una sensazione sgradevole di appiccicoso sulla
pelle e desiderò un lago freddo e le sue acque profonde. Desiderò non aver mai
preso l’abitudine di lavarsi ogni sera in quella polla; desiderò di non essersi
lasciato trascinare dalla parte più atavica del suo istinto quando si era
accorto della presenza di Alessandra a pochi metri da lui. Desiderò.
Desiderò averla di nuovo fra le
braccia; baciarla e amarla davvero, appieno. Guardarla in viso e vedere che era
a lui che pensava, era lui che guardava. Guardarla e sapere che vedeva lui e
non altri demoni, altro desiderio, altra violenza.
Perché.
Che domanda sciocca. Così sciocca
che, in un'altra situazione, se ne sarebbe sentito offeso. Perché: perché era uno youkai. Solo per quello. E lo
erano anche i demoni che le avevano usato violenza. Era solo per quello: per un
parallelismo che Alessandra doveva aver realizzato solo in quel drammatico
frangente. C’era stato qualcosa. Qualcosa che le aveva fatto intuire più di
quanto avesse capito fino a quel momento. Sesshomaru era consapevole di non
poter discernere cosa fosse; ed era altrettanto certo che nemmeno Alessandra
avrebbe mai potuto metterlo a fuoco.
Forse era semplicemente la
differenza naturale fra loro;oppure un qualche modo di
percepire, di vivere. La razionalità, o le reazioni. Socchiuse gli occhi: era
inutile cercare di capirlo. Era successo, e non si poteva cambiare. Alessandra,
a prescindere dalla causa scatenante, aveva imparato ad aver paura di lui. E
adesso l’avrebbe avuta sempre.
Però. Però poteva dirglielo? Poteva recidere di netto i mesi
trascorsi assieme, fra incomprensioni e complicità? Poteva lasciarla da sola,
dopo quelle parole? Non la capiva; non avrebbe mai potuto capire
quello che provava, il modo che aveva di ragionare, di reagire. Per quanto si
sforzasse, l’intuizione che aveva della sfera connessa ai ningen era limitata
dalla sua stessa natura di youkai. E per quanto
potessero essere simili le reazioni, la presa stessa che esercitavano
sul singolo era diverse; come era diverso il modo di reagire.
No. Non l’avrebbe mai capita; e
forse era stata presunzione da parte sua il pensiero
di poterla in qualche modo aiutare, se mai il tenerla con lui fosse stato mosso
da quell’intento. Però. Però
c’era una cosa, che come youkai non sapeva fare:
mentire.
“Perché sono
uno youkai.
E lo erano
anche quelli”
Quelli.
Sesshomaru li chiamò solo quelli. E Alessandra sentì il respiro
premere in gola per diventare pianto isterico, mentre volti che erano ghigni
riaffioravano dalla mente assieme a lingue, mani, bocche, parole, sensazioni.
Gli incubi; l’agitazione; il rifiuto. Tutto. Tutto dovuto a quelli. A quegli youkai
che l’avevano…l’avevano…Strinse gli occhi; e il diniego di Sesshomaru al suo
pigolio non fu né sollievo né soddisfazione. Perché in fondo. In fondo non
cambiava nulla. E adesso. Adesso Sesshomaru era youkai.
Senza un motivo logico; senza che capisse il perché. Ma
era accaduto. E quelli e lui erano
diventati la stessa cosa. Erano…erano davvero la stessa cosa?
Alessandra scosse la testa, i
singhiozzi forti fra il vapore. Era ridicola, patetica, infantile. Ma non le importava. Non voleva nulla che non fosse piangere
e ripetere: no. Perché non poteva
essere; perché li rivedeva, i volti lascivi di quei
demoni. Li ricordava uno ad uno, abbruttiti dal
desiderio e da un qualcosa che non aveva nome per lei. Li vedeva; li
riconosceva. E Sesshomaru non c’era. Non c’era nulla di Sesshomaru in quelle
ombre, in quelle zanne, in quegli artigli. C’era solo quella parola: youkai. Ma cosa vuol dire, in
fondo, youkai? Non importava. Non aveva nessuna
importanza. Sesshomaru era Sesshomaru. E basta.
Basta.
Non poteva aver paura di lui; non
c’era motivo che avesse paura di lui.
Il grido che avvertì le fece
male, assieme alla rassegnata consapevolezza sul viso di Sesshomaru. E con
orrore realizzò la sua bocca ancora aperta nel rilasciare aria; realizzò la lontananza
che aveva creato fra loro, il corpo raccolto a proteggersi e le braccia raccolte sul viso. E riavvertì il corpo di Sesshomaru
accostarsi al suo che dondolava e ripeteva come una nenia quel no. Le mani
avvicinarsi per sfiorarla e il senso di terrore invaderla e farla gridare,
dandole la forza, nella confusione, di allontanarsi, di scappare. Come
si scappa da…Alessandra cercò di inghiottire: come si scappa da un pericolo.
Sesshomaru rilassò le braccia
lungo i fianchi.
Forse ci aveva sperato. Aveva sperato
che si sarebbe rifugiata contro di lui; che avrebbe
pianto stretta a lui. Sarebbe andata bene anche se
fosse rimasta rigida e immobile nelle sue braccia; sarebbe andato bene lo
stesso. E invece era scappata, senza nemmeno dargli il tempo di toccarla
realmente, senza nemmeno farlo di nuovo avvicinare. Prima. Prima era stata la
sorpresa; prima era stata la disattenzione e il rilassamento. Altrimenti.
Altrimenti non sarebbe mai riuscito a farla stendere docile su quella pietra. E
forse. Forse sarebbe stato meglio. Forse sarebbe stato meglio che se ne fosse
andato; e le avesse lasciato il tempo di realizzare. Sospirò: no. Quella era
una certezza: anche se faceva male, quella situazione era l’unica possibile.
L’unica che potesse spezzare quella sospensione che aveva imprigionato
entrambi, da quando Sesshomaru si era rimostrato a lei fra i ginko. L’aveva creata lui quella situazione, e lui aveva
dovuto infrangerla. Ed era pronto a sostenerne il peso. Mentre Alessandra.
Alessandra avrebbe avuto Ryoshi, lo realizzò in quel momento. E realizzò anche
perché avesse scelto proprio quel luogo, per la convalescenza. Quel qualcosa
che gli era balenato nella mente e non era riuscito ad
afferrare, una consapevolezza esplosa all’improvviso, in quel momento: per
quello. Aveva scelto quel luogo solo perché c’era Ryoshi.
E Alessandra aveva bisogno di Ryoshi. Le avrebbe dato
quell’aiuto che, Sesshomaru lo accettò con rabbia e frustrazione, lui non
avrebbe mai potuto darle.
“Hai paura.
Di me.
Devi
accettarlo”
E anch’io.
*****
“È sbagliato…?”
La mano si fermò sulle labbra, e
Alessandra avvertì il respiro freddo sulla pelle del collo, in un soffio un po’
sorriso un po’ sospiro. La ragnatela era ancora lassù, all’incrocio delle travi
del soffitto; la vedeva chiaramente, anche se tutto era notte e luce soffusa e
bianca. Poteva vederla lo stesso, con i fili sottili che si tendevano e
mandavano quel riverbero iridescente quando il sole li colpiva quasi per
sbaglio. Non l’aveva tolta; e si era scoperta a cercarla ogni mattina, come si cerca una presenza certa e rassicurante. Quella ragnatela;
la seta che la componeva. Non c’entrava nulla; in quel momento non significava
nulla. Ma la cercava; come la cercava in un gesto
automatico quando si alzava e quando si coricava. Forse era solo per distrarsi;
per non pesare alla risposta che, in fondo, aspettava.
Non era nemmeno riuscita a concludere la frase. Il respiro si era assottigliato in uno
sbuffo e le parole erano scivolate senza suono, in un’apnea che si fondeva con
un piacere strano e pericoloso. Maledettamente pericoloso, mentre sentiva la testa invitava a reclinarsi e mostrare la gola, scoprire la
zona sensibile della nuca. Concludere la frase. Per
dire cosa? Paura? È davvero sbagliato provare paura? Di lui? No. Forse non è questione
di giusto o sbagliato. Forse semplicemente ha paura che quella distanza che c’è
sempre stata e adesso avverte incombere, densa e pesante come nebbia, come
inchiostro che cola; quella distanza diventi qualcos’altro; diventi
lontananza, solitudine, impossibilità. Diventi addio. E la paura
di lui sia paura di perdere lui. Paura di dover accettare qualcosa che
non si può capire, che non si può realmente
comprendere e assorbire. C’erano i compromessi, prima; c’erano le illusioni, le
stupide fantasie di quella ragazzina, disarmata e alle prime armi con qualcosa
che non conosceva bene e vagheggiava in considerazioni e favole. Era iniziato
come un gioco all’amore, ed era diventato qualcosa di più. E in quel più i
compromessi facili e l’ottimismo illusorio della semplificazione,
dell’appaiamento senza ferite e senza rinunce si era sgretolato
irrimediabilmente.
Non esistevano più i compromessi;
non esisteva più il dialogo, la possibilità, sciocca
stupida e infantile di cambiare se stessa, di cambiare soprattutto lui. C’era
altro, adesso. C’era la consapevolezza. E la distanza era diventata abisso e il
legame era un filo di seta, sottile come una ragnatela. E se chiudeva gli occhi
Alessandra vedeva se stessa, su quel filo, le braccia distese nell’aria alla
ricerca di un equilibrio di poco più saldo; la mani
distese e il tremito e la fatica che sentiva nei muscoli, nei nervi, a
mantenere la posizione, a resistere a un’oscillare forse dovuto al vento, forse
solo all’altalena delle sue emozioni. Se chiudeva gli occhi; vedeva se stessa,
il filo e due sponde di un abisso. E Sesshomaru.
Sesshomaru davanti a lei.
Sesshomaru che cammina su quel confine con la naturalezza dell’abitudine; e
invidiava le sue braccia rilassate contro i fianchi, invidiava
la sicurezza dei suoi passi e l’indifferenza con cui si lasciava sferzare da un
vento di fuliggine e ansie. E odiava il modo in cui i suoi occhi la guardavano,
fra il nero delle nuvole e l’argento dei capelli. C’era. C’era scherno, nei
suoi occhi? O forse era compassione? E sentiva la bocca farsi secca e pesante;
sentiva il desiderio di fare un passo oltre il filo e giù. Lasciarsi andare e
smetterla, con quella snervante sospensione, con quel dondolio che ti preme e
ti preme e ti lascia con quella nausea e quel fastidio
alla bocca dello stomaco e la sicurezza, dilaniante, che puoi solo respirare
per un istante, prima che tutto ricominci, si ripeta uguale a se stesso. Cosa
c’era, negli occhi di Sesshomaru, nella sue mente,
nelle sue aspettative? Cosa voleva davvero?
Socchiuse gli occhi, mente
l’artiglio le premeva leggermente sul labbro, lì, al centro. Spingeva
lentamente verso il basso e poi di nuovo verso l’interno,
verso i denti che sfiorava appena per ritrarsi subito. L’artiglio; e il respiro
sulla nuca. Non c’era altro; non avvertiva altro. Le mani. Dov’erano le mani di
Sesshomaru? E le sue? E...Era ancora seduta? O era
sdraiata? Non lo capiva; non le interessava capirlo.
Voleva. Voleva ...Cosa voleva? La risposta? La voleva davvero, quella maledetta risposta? E dopo. Cosa sarebbe successo, dopo? Se avesse detto sì. Se avesse detto sì, che era
sbagliato: sbagliato aver paura di lui, sbagliato averlo allontanato, sbagliato
averlo amato, aver costruito quel rapporto. Se avesse detto sì, cosa sarebbe
successo? Lo avrebbe fermato? O forse. Forse. In fondo, non importava cosa
pensasse lui, giusto? In fondo, l’unica cosa importante era cosa decidesse lei.
E per lei...Alessandra inghiottì un grumo di saliva ed
eccitazione. C’era qualcosa di eccitante e sbagliato
(forse) in quell’attesa, nel lento movimento della bocca di Sesshomaru sul suo
collo, nella carezza ipnotica sulle labbra. C’era qualcosa che non doveva esserci;
e serpeggiava sulla sua pelle, maledetto e tentatore. Inadatto; inappropriato.
Desiderato.
Lei. Cosa
pensava veramente? Cosa significava, veramente,
aver paura di lui? Cosa comportava? Ci aveva pensato così tanto, in quei giorni. Dopo che Sesshomaru se ne era
andato e l’aveva lasciata sola, fra il vapore e la notte che saliva, il kimono
fradicio e la sensazione di uno squarcio sulla pelle, di una mancanza. E la
paura e la rabbia e le lacrime mescolarsi nelle membra che tremavano e
tremavano e diventavano sempre più rosse e poi bianche e livide per l’aria
fredda che aveva iniziato a soffiare, cancellando il vapore e mettendo a nudo l’acqua. Solo acqua.
Era rimasta...Non ricordava esattamente quanto tempo
fosse rimasta lì, le gambe immerse nella pozza e il kimono offerto al vento
freddo di Novembre. Non ricordava cosa esattamente avesse provato, pensato,
desiderato, mentre il suo respiro diventava rantolo e singhiozzo basso e
isterico. Mentre una debole luminescenza l’avvolgeva e
la riportava alla noka. L’acqua bollente sulla pelle
e la morbidezza del futon erano arrivati a sprazzi,
come se emergessero da ricordi lontani e confusi. E quando una mano era scesa
su di lei, le urla e il pianto e i gesti frenetici e
inarticolati solo per andarsene, solo per sottrarsi. E
la presa sgarbata sulle spalle, il corpo imprigionato sul futon da un altro
corpo e la bocca. La bocca chiusa da qualcosa; qualcosa che era
sbagliato, che non voleva. L’istinto reagire prima del
pensiero, i denti stringere e mordere e non lasciare, non cedere fin ad avere
in bocca un sapore strano, come di acqua, sale, erba e fango mescolati
assieme.
“Calmati”
Il viso di Ryoshi.
Il viso adulto di Ryoshi sul suo; e il corpo di un uomo e non di un bambino a
imprigionarla, a cercare di contenere quella reazione che era solo paura.
Paura. Paura. Paura. Di mani lontane nella memoria; di
artigli, bocche, violenza. Il viso di Ryoshi nella penombra della candela; le sbavature azzurre
sulla bocca, scendere scolorite sul mento e sulla manica del kinu premuto sull’angolo del labbro. E la consapevolezza esplodere come una mareggiata, assieme a
sconcerto, paura e rabbia. Assieme a un miscuglio emozionale che faceva
male. E il sussurro. La voce di Ryoshi nella testa,
in una cantilena sommessa e continua. Ancora e ancora. Calmati; calmati; calmati. C’era voluto tempo, prima che il respiro
ritornasse regolare, prima che Ryoshi la liberasse
senza paura di un gesto, di uno scatto nervoso e istintivo. C’era voluto tempo,
e la testa sul petto del ragazzo, nei singhiozzi profondi e senza un vero perchè, nella confusione che non faceva che aumentare e aumentare nella testa. Nella paura. Forse. Forse la pazzia;
forse l’isterismo. In quei momenti, con le braccia di Ryoshi
strette strette, con la sua
bocca nei capelli in una cantilena senza parole, Alessandra si era chiesta perchè non si può tornare indietro. Perchè
non avesse mai avuto la sensazione di qualcosa che sta per precipitare; non per
cambiarlo, solo per poter accettare il colpo, per non
doverci pensare e rassegnarsi. Rassegnarsi e basta. Tornare indietro: e dire ai
suoi genitori che voleva loro bene, che andava bene lo stesso se non potevano
trascorrere molto tempo assieme; dire a Leone che sì, in fondo, è gelosa della
sua fidanzata e che di farle da damigella al matrimonio non ne ha voglia.
Dirgli che, va bene, sarà infantile, ma lo vorrebbe ancora per sè, vorrebbe che non cambiasse
nulla; e fargli sapere che va bene lo stesso, che si lamenterà e sbufferà ma
andrà bene lo stesso. Perchè lo sa che Leone le vuole
bene e di lei non si dimenticherà; e che Miriam, in fondo, non è così
antipatica. É solo un po’ gelosa; solo un po’.
Tornare indietro.
E. E
cosa? Cosa cambierebbe? Perderebbe di nuovo Leone e i
suoi genitori; e quei demoni ci sarebbero ancora, nella sua testa, sul suo
corpo. Loro ci sarebbero, e Sesshomaru no. No. Non cambierebbe niente; non può cambiare niente. E ripeterlo e ripeterlo
e volerlo e desiderarlo non serve a niente. A niente. Ma
gli incubi, e la paura, e quel cancro che le sembra crescere dentro di lei, un
morso alla volta nella sua carne, in un qualcosa che è dentro e le fa male e sa
che non ha corpo; ma fa male lo stesso. Quel cancro. Quel male: mandarlo via.
Si può mandarlo via? O forse. Forse è quello che deve essere; quello che sarà
la normalità: negli incubi, nei ricordi, nella paura. Paura. Ha davvero paura?
Di Sesshomaru? Era stato difficile; difficile e lungo.
Ricordare e sforzarsi di piangere senza scappare. Aspettare
di cogliere le similitudini, le differenze: ricordare le mani di quella notte;
ricordare le mani di Sesshomaru. Le parole lascive degli youkai e i sussurri di Sesshomaru. Ricordare; confrontare;
accettare. Accettare che ci sono cose che non può
cambiare; realizzare artigli che sono artigli; zanne che sono zanne; e pelle e
mani e gesti che sono uguali. Dannatamente uguali.
La paura.
Una sorpresa sottile che si irradia nel cervello, come nel realizzare che Ryoshi l’aveva baciata. Nel risentire il
sapore di acqua e fango e terra del suo sangue e ricordare di avere risposto e
poi morso. Ricordare. L’indifferenza di Sesshomaru attraverso le
lacrime, il modo in cui la fissava, dall’engawa,
mentre piangeva e si nascondeva contro Ryoshi.
D’istinto. La sensazione di sbagliato, di diverso che le era passata sulla
pelle quando lo aveva visto semplicemente andarsene, senza una parola, senza un
gesto di gelosia, rabbia o delusione. L’aveva guardata: ed era fra le braccia
di un altro demone; aveva appena baciata un altro
demone e lo cercava, si aggrappava a lui come un bambino spaventato. E nei
singhiozzi piano piano più bassi il fremito della
consapevolezza: cercava Ryoshi e non Sesshomaru.
Mentre nella sua mente lo youkai
sfumava in contorni indefiniti e pericolosi, e gli occhi si tingevano di rosso
e gli artigli erano ombre lunghe che si allungavano e tagliavano e facevano
male e. E. E.
La paura.
Già: aveva paura. Paura di
vederlo cambiare; paura che diventasse, che fosse,
come gli youkai dei suoi incubi. Come quelli. E con la paura, si era accorta,
era arrivata la tranquillità. Non la sicurezza, non la
rassegnazione: solo la tranquillità. Come se tutto, adesso, potesse
ritrovare un suo equilibrio, come se ogni tassello potesse riprendere il suo
posto e quella sospensione che l’aveva circondata si fosse infranta. Puff! Andare avanti. Un avanti qualsiasi, ma avanti. Con la
paura, con una punta di preoccupazione nel fondo della testa che era...Era strana. Poteva...era davvero
possibile che avesse paura di Sesshomaru e...e non volesse scappare? Era
giusto, aver paura di lui? Lo era? O sarebbe stato un altro muro, un altra barriera fra loro e la loro diversità, fra quella
differenza che non è solo di razze ma, con il tempo Alessandra ne stava
prendendo sempre maggior coscienza, era più complessa e profonda. Impossibile
da abbattere, piegare o modificare. Forse. Forse era davvero solo
accettazione. E riequilibrare tutto; giorno dopo giorno.
É sbagliato aver paura di
Sesshomaru? No. Poteva pensare di no. Ma il pensiero
non bastava; non bastava più. Aveva pensato che fosse un ragazzo; e non lo era.
Aveva pensato di poterlo capire; e non poteva. Aveva
pensato che ci fosse orgoglio ed istruzione dietro ad
ogni suo comportamento, e non c’era, non solo. Aveva pensato. E aveva cercato
di capirlo, di segmentarlo con un metro troppo lontano, un metro
umano che classificava fra bene e male, giusto e sbagliato. E la paura è male e
la fiducia è bene. Eppure. Eppure Alessandra aveva
paura di Sesshomaru e si fidava di lui: cos’era, allora? Bene o male? Ed era
davvero importante deciderlo? Era davvero essenziale?
É sbagliato aver paura di
Sesshomaru?
“Va bene.
Sei hai paura,
va bene”
Va bene.
Era così strano poterlo dire, poterlo sentire. Era così strano sapere che non cambiava nulla, che sarebbe rimasto uguale. Va. Bene.
Aver paura va bene; è normale; è...è giusto. Sì;
giusto. E Sesshomaru. Sesshomaru non si era ritratto; Sesshomaru era ancora lì,
la bocca sulla nuca e le braccia strette strette
alla vita. C’era. C’era. Questa volta, c’era. Qualsiasi cosa volesse dire;
qualsiasi cosa significassero per lui le mani che si
rincorrono, lo sfiorarsi lo stringersi forte delle dita. Avrebbe voluto
vederlo; vedere il suo viso mentre sussurrava, vedere
la sua espressione compassata. Che effetto gli aveva fatto, dirglielo? Aveva
fatto effetto o semplicemente era stata una constatazione, una conferma che
sembrava quasi una liberazione. Avrebbe voluto vederlo; senza una vera ragione.
Ma la notte era nera e la luna d’autunno troppo pallida e
lontana. C’erano le ombre; e il corpo di Sesshomaru. Il suo corpo,
contro la schiena; le mani scivolare sullo yogi, e la
bocca. Mentre. Mentre...Alessandra ansimò, fra
sorpresa, piacere e vergogna.
Sesshomaru leccò la base della
nuca. Era strano. Era tutto così strano. Non lo aveva pensato; non lo aveva
pianificato. Era successo; stava succedendo e basta. E
questa volta non era sicuro di volersi fermare; non era sicuro
che ci fosse un giusto o sbagliato in quello che faceva. Era successo; e basta.
Quando l’aveva vista fra le braccia di Ryoshi; quando
aveva visto il mizuchi baciarla; quando era stato
sulla sua pelle, fra i vapori dell’acqua: da quel momento qualcosa gli aveva
fatto pensare che la volesse e non avrebbe mai potuto averla; averla davvero.
Non l’avrebbe mai capita; non l’avrebbe mai amata come Alessandra voleva essere
amata, come vuole essere amata una ningen. Non sapeva
cosa volesse dire, amarla come una ningen. C’era stato qualcosa, negli occhi di
Alessandra quando era nelle braccia di Ryoshi;
qualcosa che lui non aveva capito: delusione o paura o forse...forse
dispiacere. Per qualcosa che non aveva fatto; per qualcosa che non faceva o non mostrava. Ma cosa
c’era di sbagliato, nel corpo di Ryoshi che avvolgeva
Alessandra? Cosa c’era di sbagliato? Lo aveva voluto lui; era stato lui a
spingerlo, a creare quella situazione. Lo sapeva: lui no; ma Ryoshi. Ryoshi avrebbe saputo
calmarla, aiutarla; avrebbe saputo capirla. Mizushi e youkai sono diversi;
sono molto diversi. E Alessandra aveva bisogno di...di vicinanza. Sì: vicinanza.
Eppure.
Eppure era tornato. Era tornato
alla noka; e adesso la stringeva fra le braccia.
Adesso le baciava il collo e le sfiorava le labbra, la bocca. Era stato
istinto, misurato e calmo, ma istinto. Scorgerla dalle
shoji lasciate aperte nel riverbero della luna che
calava a occidente; scorgerla senza colori, mentre gli dava le spalle nel
futon, forse appena sveglia forse ancora incapace di dormire. Scivolare sui
tatami e sedersi dietro di lei; sentire il respiro trattenuto e la mano, la sua
mano, risalire a sfiorare le ciocche corte e ribelli
sulla nuca. Dai capelli passare al collo, sfiorare la pelle con l’attenzione
che usa quando saggia il filo della katana. Taglia,
aveva pensato. Può tagliare; cosa, non gli interessava. Taglia. E basta. Anche
se Alessandra non è una katana; anche se Alessandra è più simile al fodero che
alla katana. Eppure. Eppure era stato naturale: la
bocca muoversi fra i capelli e lo scollo dello yogi,
lasciandole il tempo di abituarsi, di rilassarsi. Forse aveva pensato che
l’avrebbe respinto; forse si era aspettato di avvertire l’aria sulla bocca e di
vederla stringere forte la stoffa e piangere. O solo fissarlo: fissarlo con gli occhi grandi ancora più aperti, mentre il
respiro prima si ferma e poi accelera, sale dal petto e diventa ansimo.
Lo aveva immaginato. E non aveva
voluto prevedere la sua risposta; non sapeva cosa avrebbe risposto. Forse si
sarebbe alzato e l’avrebbe lasciata di nuovo sola, come alla fonte termale; o
forse avrebbe ignorato tutto e l’avrebbe amata, anche se avesse pianto e urlato
e scalciato. Forse. O forse l’avrebbe solo guardata, prima di.
Prima di qualsiasi altra cosa. Non lo aveva voluto pensare. Perchè
ogni pensiero poteva, era, suo; era da demone. E ogni cosa che avesse fatto non
l’avrebbe comunque capita; non sarebbe riuscito a capire
cosa esattamente lei volesse; cosa si aspettasse; cosa cercasse. Toccarla era
stato un capriccio; era stato un gioco. Bisogno. Bisogno di farle capire
qualcosa che lui per primo si era rassegnato ad accettare per il semplice fatto
che esisteva. Senza cercare nomi, motivazioni, ragioni. C’era. Ed ignorarla, ormai, era inutile, completamente inutile.
Toccarla.
E nel corpo che si rilassa e si
adegua; nel respiro che si fa basso e un po’ affrettato, sentire le parole
sussurrate e sospese; sentire Alessandra cercare
qualcosa che le permetta di andare avanti, di ritornare accanto a lui,
qualunque cosa possa significare, qualunque cosa significhi quello che deve
realizzare. É giusto avere paura di lui? Sì. Sì; è giusto. É normale. La paura
è percezione: della differenza; della diversità che intercorre fra loro. Forse
era quello lo sbaglio: l’assenza di paura. Come l’aveva visto, fino a quel
momento? Come un ningen? Anche se lo sapeva che era youkai,
non lo aveva mai realizzato davvero. Come lui non aveva mai pensato davvero
alla sua natura umana. Avevano sbagliato; tutti e due.
E tutto si era infranto troppo in fretta; tutto era precipitato senza che
fossero preparati, senza che fossero pronti. Caduto e basta. E avevano dovuto
imparare ad alzarsi. Avevano dovuto imparare che per loro non c’era un insieme, ma solo accanto. Accettare la distanza e la diversità; razionalizzare che
pur nell’incomprensione potevo restare assieme, non erano costretti a
rifiutarsi.
Sì; va bene.
Se Alessandra aveva paura di lui,
andava bene. Perchè significava che sapeva cos’era;
che sapeva chi era. Andava bene.
Sesshomaru strinse gli occhi. Bianca;
vedere la nuca di Alessandra nel rettangolo di carne fra la cipria bianca
sarebbe stato bello. Molto bello. Sarebbe stato...Lisciò
le labbra. Non importava. Andava bene lo stesso. Andava bene il brivido sulla
pelle, fra eccitazione e freddo, mentre faceva scivolare lo yogi
sulla spalla, giù fino a scoprire la cicatrice che le deturpava la pelle. Si
era rimarginata del tutto, ormai. Una striscia rosa, lunga e un po’ sporgente,
con ancora l’accenno della seta che ne aveva stretto
le labbra. Premette l’indice all’inizio della ferita, ripercorrendola con
attenzione, concentrato. Non sarebbe andata via; una ferita del genere non
sarebbe andata più via. E ancora si chiedeva perchè. Perchè Hakudoshi avesse mirato a
lei; se davvero avesse mirato a lei o fosse stato solo
un incidente, un ostacolo inaspettato sulla traiettoria della naginata. Perchè. Non aveva
importanza chiederselo, ormai. La cicatrice sarebbe rimasta. E Alessandra
avrebbe continuato a vivere.
Alessandra sussultò quando
avvertì il ruvido della lingua di Sesshomaru ripassare sulla ferita; sentì
l’aria chiudersi in gola e una sensazione di calore e vergogna e piacere
invaderle il corpo, risalire fino al viso. E l’istinto di mordere e succhiare
fu istante, appena le dita di Sesshomaru le sfiorarono le labbra e le
scivolarono in bocca. Gli artigli. Poteva sentire gli artigli scorrere
sull’interno delle guance; solleticarle la lingua e pungerla con discrezione.
Ed era...era piacevole, sì. Era una sensazione bella,
anche con il respiro che singhiozzava e il pensiero vago, lontano, di quello
che significava davvero. Stinse le labbra e gli impedì di allontanare le dita,
seguendo l’istinto, inclinando appena la testa, con la sicurezza che la bocca
di Sesshomaru avesse accennato un sorriso sulla sua pelle.
Un sorriso. Già: non se l’era
aspettato. Aveva pensato che avrebbe solo assecondato il suo movimento, e
invece. Invece aveva iniziato a sedurlo anche lei, con piccole proteste, con piccoli accorgimenti senza pudore o vergogna. C’era
qualcosa, in Alessandra. Qualcosa che gliela faceva percepire sicura nonostante
fosse inesperta. Respirò piano, risalendo lungo il collo. Vergine. Lo sentiva
chiaro: l’odore di acqua che aveva percepito fin dalla prima volta. Quell’odore
che aveva creduto come un profumo ed era solo l’odore della pelle di Alessandra.
Il suo odore. Aveva imparato a riconoscerlo anche mischiata al sangue, al
sudore, alle lacrime. Aveva imparato a riconoscerlo e adesso lo sentiva
crescere, farsi più intenso più la cercava, più la coinvolgeva. Vergine. Chissà
come sarebbe cambiato dopo l’odore di Alessandra. Chissà se avrebbe avuto
ancora quella sfumatura che ricorda l’acqua.
Sesshomaru inclinò la testa e
soffiò sulla pelle leggermente accaldata. Bianca. Quasi fastidioso, adesso,
quel bianco. Morse il collo all’altezza della spalla, e lasciò scivolare una
mano fino ai lembi dello yogi, gustandosi il corpo che
si ritraeva d’istinto prima di rilassarsi. Lo yogi; le
pieghe fra la seta; la pelle. Il seno. Lasciar scivolare la manica e metterle a nudo un seno, gustandosi il singulto e una
protesta debole di un corpo che preme contro il suo in una ribellione che è
gioco, che è ricerca di abitudine, di...Alessandra strinse le gambe e scrollò
le spalle. Era...era così strano. Vergogna, piacere,
eccitazione. Era. Non lo sapeva. E non voleva pensare a cosa significasse.
Sesshomaru; la sua mano; un seno. Era diverso, ecco. Diverso. Non era come quelli. Loro. Loro facevano male; loro
stringevano e sentivi gli artigli nella carne e umido e disgusto e...No. Basta. Basta pensarci. Alessandra strinse gli occhi,
forte. Era stupido. Assolutamente stupido mettersi a piangere. Perchè? Perchè altri l’avevano
toccata? Perchè altri l’avevano vista nuda senza che
lei potesse difendersi? Era passato. Era il passato. Non doveva pensarci;
superare. Solo superare. Anche se...Sesshomaru. La
mano di Sesshomaru. Concentrarsi. Ecco: stringe appena, gli artigli sono quasi
delicati, raccolti. Ha come un suo ritmo, un sondare continuo e moderato. Dalla base del seno alla punta; fermarsi, insistere fino quasi a
far male, a strappare un singulto, e poi rilasciare, tornare a una carezza più
discreta.
Diverso.
Il seno di Alessandra è diverso. Non
è piccolo e alto come quello della yasha
che lo ha amato; non è liscio e freddo come quello delle demoni che gli si sono
offerte. É caldo; trema e si contrare sotto gli artigli. Duro. Prima era
morbido, quasi abbandonato. Adesso è duro. Carne. É carne piena; soda. É
diverso. Non se ne era mai accorto; non ci aveva mai pensato. Il seno di
Alessandra. Quando dormiva accanto a lui; quando la stringeva; quando l’aveva
visto, sporco di sangue e sudore fra la stoffa e la frenesia del ritorno dal
campo di battaglia. Quando lo aveva sentito umido di vapore alla pozza. Non ci
aveva pensato. Non aveva mai veramente voluto pensarci. Il
seno di Alessandra; il suo corpo. Il suo corpo umano; il suo corpo diverso. Lo stava scoprendo; lo stava
percependo; lo intravvedeva nella debole luminescenza della notte, al bagliore
morente delle braci. Il. Corpo. Di.
Alessandra.
Così. Così diverso.
I seni caldi, molto caldi;
assieme al tremito soffuso, forse di piacere forse per l’aria fredda della
notte che entrava dall’engawa. Gli piaceva. Gli
piaceva quella sensazione nuova. Afferrare carne e... e assaporarla. La mano
ricercare i gangli nervosi, premere e rilassarsi mentre il respiro di
Alessandra diventava ansimo, basso e roco; mentre sentiva la seta frusciare in
piccoli scatti scomposti e il collo pulsare sotto le labbra. Risalì al mento,
definendolo con calma, la lingua che scivolava sul contorno ovale del viso. E
la mano che era passata a massaggiargli la nuca, inaspettata e piacevole come
il corpo che premeva contro il suo, come la testa di Alessandra che si inclinava sempre un po’ di più, soffiandogli sotto il
mento, respirando sulla sua gola. Era diverso. Con la yasha era stato diverso. Diversa la pelle sotto gli
artigli; diversi il respiro e i movimenti; diverso il calore e l’eccitazione
che sentiva crescere nel ventre.
Alessandra ripassò la lingua
sulle labbra. Sete. Era stupido, ma aveva sete. Disidratata; come se non
bevesse da giorni. E le labbra le sentiva screpolate e
gonfie e calde. Le labbra. Avrebbe voluto baciarlo. Sì: voltare la testa e
baciarlo. Non le erano bastate le dita; non le erano bastate
le carezze e il solletico sulle labbra, sulla lingua, nella bocca. Avevano solo
risvegliato la voglia di baciarlo, cominciando dall’angolo della bocca;
scendere sul labbro inferiore e stringerlo fra i denti. Aveva imparato come
Sesshomaru volesse essere baciato: con lentezza, con una calma che a tratti era
esasperazione, che ti lasciava con l’impazienza e il fiato ridotto a un sibilo,
mentre stringi la carne sottile e tiepida. Tumide. Avrebbe voluto vederle,
sentire le labbra di Sesshomaru gonfiarsi e arrossarsi sotto le sue, nelle sue.
Avrebbe voluto vederlo socchiudere la bocca e...La
mano risalire sul collo, giocando con alcune ciocche sfuggite sul petto.
Risalire al viso e stringergli appena il mento, deliziandosi del piccolo
disorientamento che, forse, gli aveva provocato. Mentre il corpo si inclina appena di lato e la seta del kariginu
sfiora i seni nudi; mentre i capelli ricadono scomposti sul viso e sulla
schiena nuda e lui resta fermo, aspettando che il dito decida se risalire alle
labbra o scivolare di nuovo verso la gola. Aspettare. E il pensiero diventare
impudenza, mentre gli fa socchiudere le labbra e sfiora i canini, in un brivido
proibito e nuovo, il respiro freddo e più profondo, quasi il tentativo
disperato di un ansimo represso.
Sesshomaru socchiuse gli occhi.
Mentre la lingua scivolava attorno al dito di Alessandra e le labbra e i denti
si stringevano appena per impedirle di ritrarsi. Poteva sentire la carne; poteva sentire le ossa contro le zanne e il sangue che
pulsava nei capillari. Poteva sentire i denti affondare istante per istante e sapere benissimo quando fermarsi, come modulare la
forza per trattenerla e non per ferirla. Calmare il respiro che vorrebbe
correre troppo; imporsi lentezza e piacere. C’era tempo. C’era tutto il tempo
che volesse: dilatare. Dilatare quegli istanti, ancora e ancora. Liberarle le dita e stringerle la mano, piegandosi fino a soffiarle
il respiro sul viso, sulla bocca. Sfiorare, provocare e scendere sul
collo senza toccarla, senza appagarla. Nascondere il sorriso
al sospiro di disappunto e piacere; e premere corpo contro corpo, trascinandola
indietro, facendole perdere l’equilibrio e costringendola sdraiata, la
schiena nuda sotto le labbra e i seni sulla seta.
Alessandra si concesse un respiro
che sembrava un gemito, mentre la coperta del futon le avvolgeva la testa e le
attutiva i sensi; mentre la seta del lenzuolo era freddo
sulla pelle calda ed eccitata, sui seni turgidi e stuzzicati. E ritrovarsi
prona, la schiena nuda e la bocca di Sesshomaru a scendere lungo la spina
dorsale, le mani percorrere il profilo fino ai fianchi e stringere, insinuarsi
fra la stoffa, lungo lo yogi e chiudersi sul ventre,
sotto di lei. Restarsene lì, in un abbraccio che è possesso, incapace di capire
esattamente cosa facesse. Sentirlo sul fianco, poi sulla nuca
e sulla spalla, ridiscendere alle scapole. Le labbra e
poi la lingua e di nuovo la bocca e le dita segnare il contorno delle ossa
soffiando al passaggio, sfiorandola con il naso e il solletico dei
capelli ribelli. La mano insinuarsi dalla nuca, risalire in
un massaggio e stringere un ciuffo senza far male. A sottolineare
quel momento, quel gioco che è andato oltre, che è diventato qualcos’altro.
Qualcosa di più grande, di adulto. Per entrambi.
Il singulto e
la risata soffocata dalla coperta; le mani percorrere il ventre, risalire fra
la seta ai seni, sollevarli e proseguire alle spalle, scivolare da sotto
il corpo per scomparire e riapparire sui fianchi, allargandosi sulla schiena.
Alessandra poteva sentire chiaramente le dita, le palme asciutte e fresche
mentre le percorrevano la schiena; e alla seta del lenzuolo la seta del kimono
di Sesshomaru che si sdraiava su di lei, le labbra baciare la cicatrice e
accomodarsi sul costato sinistro, all’altezza del cuore, con le mani che la
costringevano ad allargare le braccia e si allungavano sulla sua pelle, fino ad intrecciare le dita. Non pesava. Non pesava come avrebbe
creduto. Il corpo di Sesshomaru sul suo era una sensazione piacevole;
l’orecchio premuto sul suo cuore e le braccia e il kimono e tutto il suo essere
a coprirla. Non stava facendo nulla; ma nel respiro regolare e profondo;
nell’aria che sentiva sulla pelle; nel corpo che la premeva e avvertiva certo,
presente, concreto, ad ogni respiro c’era qualcosa.
Qualcosa di più eccitante e seduttivo
che nelle carezze, nei baci, nelle mani che svelano ed esplorano. E avvertire piccole scosse nei muscoli; un fremito percorrere la
pelle e un calore piacevole e naturale nel ventre.
Sesshomaru chiuse gli occhi.
L’odore di Alessandra si faceva
più intenso; sempre più forte. Assieme al suo. C’era. C’era qualcosa di
primitivo anche nei ningen, di istintivo. C’era
qualcosa che non rispondeva alla ragione ma ad un
istinto che Sesshomaru poteva illudersi fosse simile, fosse quasi comune al
suo. Respirava piano, quasi impercettibile, mentre il cuore di Alessandra
batteva. Batteva. E il suo corpo avvertiva il calore della pelle nuda, l’odore
intensificarsi e i muscoli contrarsi in piccoli movimenti involontari, di aspettativa, di attesa. Era strano. Il corpo di Alessandra
lo sosteneva; non le pesava addosso, ma non riusciva ad avvolgerlo
completamente: anche se si fosse sdraiato diversamente, comunque non l’avrebbe
potuta nascondere del tutto. Il corpo di Alessandra: grande
come il suo; così diverso dal suo. Così diverso da quello delle yasha. Aveva i fianchi pronunciati, e il seno pieno che
rigonfiava il kimono e la costringeva a tenere l’obi
ripiegato e abbassato sulla vita, che curvava leggermente in fuori. Non era il
corpo ad adattarsi al kimono, ma il kimono al corpo.
Era sempre stato così. Sesshomaru ricordò altri abiti, abiti
che non conosceva: hakama stretti a segnare le gambe
e kariginu senza nappe, dai colori scuri dell’ocra e
del marrone. Ricordò in modo distratto come la fasciassero, come lasciassero
intravvedere le forme quasi a volerle sottolineare. In
un sorriso, ricordò anche un altro vestito fra i vapori di una pozza termale:
un vestito che gli aveva permesso di guardarla, di soffermarsi sul suo seno e
sulla pelle scoperta. Quanto era passato? Quanto tempo era trascorso da quando...Da quando l’istinto gli aveva detto: uccidi. Non calcolava il tempo; non lo calcolava
come i ningen. Forse. Forse Alessandra lo avrebbe saputo: era autunno allora; e
adesso un altro inverno, lontano dal palazzo, senza assedio, senza guerra.
Forse. Forse se glielo avesse...Ma perchè?
Perchè parlare?
Il corpo sollevarsi per
assecondare il movimento di Alessandra; le braccia tendersi a sorreggere il
peso mentre lei gli offriva il seno nudo e il sorriso nella luce incerta
dell’ultimo spicchio di luna. Poteva vederla; sapeva che poteva
vederla. Sdraiata sotto di lui, fra la coperta e la seta; sdraiata sotto di
lui, coperta dal suo corpo, dai capelli che scivolavano sul futon. Poteva
immaginarla; poteva osservarla. Vederla. Vedere come
nessuno di loro aveva più sperato che potesse fare; vederla come non aveva fatto quella volta lontana nella memoria, fra la neve e
l’imbarazzo di una caduta inappropriata. Vederla; e indugiare sul collo in
ombra, scendere lungo il raggio di luce che si insinua
fra i seni, che sfiora l’ombelico ed è inghiottito dall’ombra. Vederla, mentre
la mano risale lungo l’avambraccio contratto, dentro la manica. Pelle sulla pelle; la sensazione di diverso al contatto. La
pelle di Sesshomaru è liscia; così liscia da sembrare cristallo; e sotto
avvertire il sangue che scorre e la tensione dei tendini e dei muscoli mentre
lo sorreggono. Asciutto; freddo. Così
diverso da lei: senza calore, senza sudore. Allargare lo scollo del
kimono, mentre la mano massaggia la base della gola, si allarga seguendo ombre
sfuggenti. Risalire con il respiro, il corpo sostenuto dal
gomito. Respiragli sulla pelle, aspettando un fremito, un respiro.
Baciarlo. Baciare l’incavo fra la spalla e il collo, risalire
e costringerlo a indietreggiare, a farsi trascinare seduta. Indugiare
sul capillare sotto al mento, leccandolo con
insistenza, mentre le mani allargano il kimono e liberano il petto. E
costringere ancora, la schiena piegata e il futon ad
accoglierlo. Guardarlo. Seduta su di lui, il seno nudo nella luna che va
declinando. Guardarlo e prendergli una mano, la palma aperta
sul ventre, in un movimento lento. Guardarlo e stringere le gambe
attorno ai suoi fianchi, costringerlo a desiderarla ancora, il corpo ondeggiare
e ritrarsi appena Sesshomaru accenna un movimento, un contatto che va oltre la
mano sul ventre e le gambe attorno ai fianchi. E piegarsi con un sorriso e
fargli sentire la seta sulla pelle, e il respiro alitargli all’orecchio,
sollevare i capelli, mentre i denti stuzzicano un lobo. Alessandra l’ha scoperto
col tempo: Sesshomaru è molto sensibile alle orecchie. E sorridere,
seminascosta dalla mascella che le ombre fanno apparire più dura, più maschile
e adulta. Sorridere degli occhi chiusi e delle labbra socchiuse; sorridere del
fremito delle palpebre quando si sposta e resta ferma sopradi lui, sdraiata su
di lui. E sfiorargli le labbra quasi con pudore, assaporando l’attesa, assaporando il taglio sottile e la facilità con cui la
lascia giocare.
Trovarsi il
respiro in bocca, il collo in tensione e gli occhi di Sesshomaru a irrisoria
distanza. E accorgersi di un pensiero stupido. Ricordarsi di un
particolare che era abitudine, di un qualcosa che era stato sempre. E adesso è
diverso. Ricordarsi: il viso avvicinarsi, con le labbra
socchiudersi con studiata lentezza; vederlo e poi solo sentirlo, nel respiro
sulla bocca, nella bocca. Sentirlo e basta. Perchè
non l’aveva mai guardata. Quando la baciava, comunque la baciasse,
non la guardava mai: le palpebre socchiuse o le mani a chiuderle gli occhi. Non
la guardava, quando era cieco. Adesso. Adesso invece Alessandra poteva vedere
l’occhio sinistro, nel riverbero morente della luna. La
striscia argentata zigzagare in un fondo più scuro, quasi nero. E sapere
che è ambra, ricordare le sfumature attorno all’iride e desiderare la luce
dell’andon o il sole, per poterlo baciare ancora così
e vederle bene e non solo immaginarle, quelle sfumature, quella leggera
policromia.
E lasciarsi trascinare distesa e
poi rotolare, l’ansimare che gonfia il petto e
scoprire che è piacevole, la sensazione della pelle di Sesshomaru sulla
propria, i seni contratti che fanno male e il sottile disappunto di faticare
sempre di più a distinguere il suo profilo nella notte che avanza. É bello. É bello sentire la sua bocca, il suo corpo. É bello sentire la pelle e la seta mescolarsi e stringerlo forte e
respirare piane per calmare il cuore e le vertigini. Respirare; piano. Così: trattenerlo sul petto, la testa fra i seni senza vergogna, e
aspettare. Aspettare; senza fretta, senza paura di perdere qualcosa, di
rompere qualcosa. É bello. Ed è così strano. Alessandra sorride, il viso fra i
capelli di Sesshomaru. Non è la prima volta; non è la prima
volta che vede il suo corpo, che tocca il suo petto. Non è la prima volta che
lo tocca ed è tutto così diverso. Troppo diverso. Una carezza quasi distratta
sulle spalle, mentre cerca di ricordare dove fossero ferite, quanto potessero
essere profonde. Ma la pelle è liscia; liscia e
glabra. Fredda. Cercare; ricordare: il kimono intriso di sangue e l’odore forte
del corpo dello youkai. Un odore quasi selvaggio, ferino, confuso fra le urla e il sangue.
Le mani che la stringevano, sì. L’avevano stretta così forte, su quel campo di
battaglia. Le avevano strappato gli abiti e l’avevano stretta. Come in quel
momento; come la stavano stringendo in quel momento, il peso del suo corpo sul
suo. Possesso, desiderio, voglia.
La voleva.
La desiderava e non gli
interessava se fosse giusto, sbagliato; non importava che fosse ningen o youkai. La voleva e basta. E no, non riusciva a trovarlo, un dannato motivo, per cui avrebbe dovuto
fermarsi. Era. Era come se qualcosa di nuovo avesse iniziato a formarsi nella
sua mente; come se qualcosa che era cresciuto piano piano
adesso stesse prendendo contorni sempre più definitivi e precisi. Era ancora
presto; troppo presto. Non riusciva a capire; forse non avrebbe mai capito veramente. Eppure. Eppure
andava bene. Andava bene lo stesso. Il collo sotto le zanne,
i seni fra le mani. Va bene; va bene. Qualcosa.
Cambierà qualcosa; cambierà tutto, dopo. Ma va bene. Può affrontarla; può
accettare di affrontarla. In quel momento, con i sensi intorpiditi dal
desiderio, con Alessandra sotto di lui, il suo respiro caldo e il pensiero
della sua bocca socchiusa e tumida, Sesshomaru capì. Capì che preoccupazioni,
timori e barriere c’erano; capì che le differenze non se ne sarebbero mai
andate; capì che non l’avrebbe mai potuta comprendere, che avrebbe potuto amarla solo come può amare uno youkai.
Lo capì; e seppe che nulla ormai li avrebbe più riportati vicini, che qualcosa
era cambiato, era tornato al suo posto e adesso Alessandra aveva paura di lui e
ne avrebbe sempre avuta. Timore, paura, rispetto; ma anche
desiderio, voglia, fiducia. E andava bene. Andava bene lo stesso. Sì:
bene. Perchè Alessandra tremava e sussultava, quando
le sue zanne la sfioravano; perchè sentiva sotto la
sua pelle come un brivido e l’istinto di ritrarsi quando la accarezzava. Ma
c’erano le sua mani che lo cercavano; c’era la sua
bocca sulla sua, la voglia e il desiderio. C’era un qualcosa di
istintivo e irrazionale che li teneva ancora lì, su quel futon,
nonostante le differenze e le distanze.
Poteva andarsene.
Strapparsi al corpo che spingeva
verso il suo; andarsene, il kimono scivolare di nuovo sulle spalle e l’aria
fredda dell’inverno sulla pelle. Uscire sull’engawa e
chiedersi cosa ci fosse, negli occhi di Alessandra. Cosa ci sarebbe stato nel
percepire il suo corpo abbandonarla. Lasciarla. Già: non era per quello che era
andato da lei? Per lasciarla libera? Per dirle che poteva fare quello che
voleva e tornare nel suo mondo? Il mondo di Alessandra. Sesshomaru cercò la
mano della ragazza e strinse forte, mordendole la carne fino a sentirla
sussultare. Il mondo di Alessanra;
il mondo dei ningen. Un altro mondo; un’altra realtà. Sì: era andato per
lasciarla al suo mondo. O voleva convincersi che era per quello, che era stato
un motivo logico e razionale a fargli attraversare il kekkai
mentre la luna scendeva dietro le montagne. L’engawa e le shoji socchiuse; il
silenzio di quell’inverno, rilassato e lontano dal palazzo. Così diverso: senza la tensione palpabile nell’aria; senza il
crepitio di youki e gli echi di duelli e allenamenti.
Un inverno visto di nuovo; negli spicchi di luce che si andavano ritirando
dall’engawa; nella figura che riusciva appena a
individuare, seduta nel futon. Era stato naturale: scivolare oltre le porte e
sedersi dietro di lei. Sedersi, e le braccia stringere le
spalle di Alessandra e restare così, a respirare sulla sua spalla. A
respirare contro il suo corpo che si rilassava e imparava di nuovo la
vicinanza, si abituava di nuovo a quella sensazione.
Percepire le labbra socchiudersi in un respiro che è esitazione e scoprirsi a
desiderarle, quelle labbra, quella bocca. La voce premuta sulla stoffa mentre
le rispondeva che sì, lo sapeva che Ryoshi l’aveva
baciata. Lo sapeva; lo aveva visto. E nella mente premere solo il desiderio di
vederle la nuca prima che la luna scompaia del tutto; la voglia dei capelli fra
le mani e la pressione della testa nel palmo, mentre la costringe a inclinare
un po’ il collo e la bacia. E scoprirsi ad accarezzarla prima
di formulare razionalmente il pensiero e no, non voler smettere. Perchè non è sbagliato; perchè è
bello.
Il respiro.
Era così facile respirare.
Dentro; fuori. Dentro; fuori. Inspirare; espirare. Inspirare; espirare. Ancora.
É facile, ricordi? Facile; naturale. E allora perchè?
Perchè all’improvviso no, non era più sicura di
sapere come si facesse, davvero, a respirare? Perchè
l’aria se ne restava lì, nella gola, mentre il petto sussultava e si sollevava
e cercava. Cercava la bocca di Sesshomaru, le sue mani, la sua lingua. Cercava;
e dell’aria e del respiro non gli importava nulla. Si era fermato, prima. Si
era fermato, come assopito. Si era fermato e aveva cercato la sua mano. Nel
buio totale, l’aveva stretta forte. E Alessandra si era chiesta cosa volesse
dirgli, cosa significasse. E sentire il suo corpo desiderare altro, sentirlo in
aspettativa e tensione, una frenetica intensa
piacevole tensione, mentre Sesshomaru ancora la toccava, ancora e ancora. Sentirsi impaurita e scoprire di non aver davvero paura; sentire la
voglia di scappare e la volontà annullarsi assieme. Era così difficile.
Era così difficile capire cosa volesse, cosa cercasse. Ma
la paura. La paura c’era e non la spaventava. Quando Sesshomaru l’aveva
abbracciata; quando aveva iniziato quel gioco, quella seduzione che stava
diventando altro, che era già altro. E che nessuno di loro riusciva, voleva
fermare. Il corpo rigido accettare, ricordare. Ricordare quando la abbracciava
la notte, a palazzo; ricordare quando l’abbracciava e
aspettava che incubi e fantasmi scomparissero. Ricordare quando lo sentiva,
nella notte, sedersi sull’engawa oltre le shoji chiuse; sedersi e consumare le poche ore di tregua in
un qualcosa che lei non capiva. Non capire. E accettare; rassegnarsi.
Come con la paura. Accettare.
Va bene.
La mano di
Sesshomaru premere sul ginocchio, scivolare sulla seta assieme alla bocca.
Le labbra, la lingua sulla pelle, sulla cicatrice che le segnava la rotula. Sentirlo misurarla millimetro per millimetro, l’artiglio a
percorrere con minuzia ogni imperfezione. Forse divertendosi e scoprire
qualcosa che non si era mai accorto avesse; forse cercando di ricordare se era
una ferita recente o vecchia. E sentirlo come sorridere di un pensiero non
detto, mentre la seta è un fruscio eccitante nel buio.
Nel buio. Alessandra espirò, lentamente; l’eccitazione e il desiderio
riscaldarle il corpo, partire in basso, dal ventre, e serpeggiare piacevole
sotto la pelle. Desiderio. Sì: lo desiderava; lo voleva. E il gemito nella mano
di Sesshomaru che sfiora la coscia, risalendo sotto la seta e allargando lo
spacco del kimono. Risalire. Risalire ancora.
Il kimono largo
sul ventre, e quell’odore. Un odore forte, quasi pungente mescolarsi con
il suo. Non è fastidio, non è disgusto. Così diverso da quello di una yasha, così diverso da quello
di sua madre. L’odore di una ningen; di Alessandra. Sesshomaru si accorse di
avere le labbra socchiuse; sa di desiderare e di volere e sa che l’amerà, anche se poi cambierà tutto. E sa che l’amerà nel solo modo che conosce, in cui può amarla: come
un demone, senza porsi domande o cercare di immaginare cosa potrebbe fare un
ningen, cosa può provare un ningen. Sarebbe stupido; e inutile. L’amerà per quello che è lei, e per quello che è lui. E potrà essere bello e piacere e potrà essere dolore e
ribrezzo. Non importa. Non importa più. Vuole amarla. Mentre la mano accarezza
la coscia e risale e allenta il fundoshi; il palmo
aperto sul ventre sudato e caldo, troppo caldo. Il nodo del koshihimo premere leggermente sulla pelle, a fermare la
stoffa e la sua mano. Non lo scioglierà. Guidare le
gambe e scoprire una resistenza che seduzione; sentire i muscoli contrarsi e
opporsi e poi rilassarsi e assecondare i suoi gesti. Sentirla
sussultare, sentirla cercare qualcosa che ancora non
conosce. E non pensare se c’è paura, attesa o stupore.
Non.
Pensare. Come non si è mai permesso di fare; come non ha mai permesso che
succedesse. É rimasto lucido con la yasha che ha amato per prima; è rimasto lucido con le altre
demoni che hanno condiviso il letto con lui, per necessità e bisogno. Restare
lucido; e ritrarsi un attimo prima. Ritrarsi come infastidito e andarsene. Perchè non deve dare spiegazioni; perchè
è lui che sceglie. E può scegliere che l’amante non lo soddisfa.
Alessandra invece.
Alessandra la vuole; e non gli
importa se non lo saprà soddisfare come una yasha. Non gli importa se l’amore di una ningen è rozzo,
gretto e insignificante; se è infantile e sciocco rispetto a quello di un
demone. Rispetto alla completezza, alla profondità diversa,
alla percezione diversa di uno youkai. La
vuole. Mentre il calore sale dal ventre e il desiderio è pressione e male e
voglia. Come fame. Fame. In un formicolio che serpeggia nella pelle, partendo
dal basso e risalire lungo le vene, nelle vene con il
sangue veloce, sempre più veloce.
Vuole.
Ha.
E c’è urgenza; c’è pressione e vertigine. Nel buio. Nel buio Sesshomaru non
se ne accorge; non avverte il virare dei suoi occhi, non percepisce il mutare
del mondo che li circonda: la noka diventare acqua,
mentre la luna, sì, per un istante, si mostra di nuovo fra i rami del salice.
Non vede; non ascolta; non pensa. C’è solo il suo corpo; e quello di
Alessandra. Il suo essere in Alessandra. E i gemiti e il respiro che è ansito; i movimenti cadenzati, prima lenti poi voraci poi
lenti ancora. Seguendo qualcosa che gli dice l’istinto, assecondando le sue
risposte, il modo in cui lei lo cerca, in cui lei gli impedisce di andarsene.
Non vede. La lingua passare e ripassare sulle labbra, le mani
affondare nel futon, cercare coperte seta legno. Non vede il suo viso
arrossarsi, la pelle della gola tendersi e invitare, provocante, la sua bocca.
Non vede l’ombra sanguinea avvolgere ogni cosa; non si accorge dell’affilarsi
delle zanne e degli artigli. Non è lo stesso; non è come trasformarsi, non è
come assumere la sua forme animale. Eppure.
Eppure c’è forza, dentro al suo corpo. C’è una forza
violenta che lo riscalda, che lo fa desiderare.
Desiderare.
C’è la seta. Fra
di loro. Contro i suoi fianchi caldi e sudati; attorno
alle reni di Sesshomaru. C’è la seta, e la
pelle che si sfiora quasi per sbaglio, mentre lo sente in lei; mentre lo vuole
in lei. E sorprendersi di non pensare a nulla che non sia il piacere e il ritmo
strano che le sta imponendo. O è lei a dare un tempo? Non lo sa. Ci sono le
gambe a stringergli maggiormente la schiena; c’è il gemito basso e roco salire
nella gola, sfuggire senza pudore. Sente se stessa; e sente
lui. Il respiro diverso di Sesshomaru sulla pelle. Il suo
respiro quasi più caldo; e il gemito sordo e fondo nella gola vibrare,
gorgogliare e concedersi quasi in un ringhio. Uno; due; tre volte.
Diventare intenso; diventare continuo assieme al respiro più veloce. Sempre più
veloce. Di lui. E di lei.
E infine il respiro restare lì,
nella gola. Restare lì mentre quel calore sale e sale
e dal ventre passa allo stomaco, nei polmoni, nel cervello. Quel
calore insinuarsi dentro di lei, improvviso; e le mani di Sesshomaru stringersi
a lei, stingere la sua carne, il suo corpo. Stringere facendo male e
piacere assieme. E c’è quel calore. Quel calore che non è suo, non è solo suo.
Saperlo nella confusione dei sensi; saperlo e
chiedersi perchè c’è assieme il desiderio di piangere
e ridere. Mentre la pelle di Sesshomaru è liscia e asciutta sul suo copro sudato; mentre il suo peso la costringe di nuovo a
respirare e lo sente, forte, il suo respiro pesante e sensuale fra l’orecchio e
la guancia.
Mentre gli spasmi ancora contraggono
muscoli e torturano; mentre, Sesshomaru lo sente, l’odore di Alessandra è
cambiato. Lo ha sentito per tutto il tempo: virare in
acre e tingersi di qualcosa, qualcosa di simile al sangue; come odore di sangue
poi svanito, avvolto dal salire del suo odore. Salire, salire ancora fino a
quando c’era solo quello, e dentro Alessandra. Dentro l’odore di Alessandra. E
diventare altro. Diventare quell’odore che, lo sa, da adesso sarà suo.
E sentirla tremare per l’aria
fredda della notte sulla pelle sudata e calda; sentire il suo corpo stringersi
al suo e non lasciarlo andare. Non ancora; non così presto. Stringerla
e scoprire di non essere ancora soddisfatto, di desiderarla ancora e ancora.
Di volerla. Di volere ancora piacere. Piacere da lei.
Piccole
annotazioni
1. Il luogo della convalescenza di
Alessandra esiste realmente e si trova nel centro nella penisola di Izu, famosa per le sue sorgenti termali raccolte fra le
montagne scavate da numerosi fiumi come il Kano e ricca
di cascate come le famose sette cascate di Kawazu,
che hanno ispirato anche il romanzo La
ballerina di Izu del premio Nobel Yasunari Kawabata. In
particolare, la noka dove vive
Alessandra si trova nelle vicinanze di Izu-Nagaoka,
oggi rinonama stazione termale ma in epoca Sengoku luogo ancora disabitato, nel centro nord del paese,
fra le colline di Genjiyama e il monte Kutsuragi. La panoramica mentale di Sesshomaru prende avvio
più a sud, da Yugashima per la precisione, sulle rive
del Kano che disegna una valle di magnifico splendore risalendo
verso il monte Daruma.
2. La figura di Ryoshi (il nome è formato da ryou che
significa drago e shi che corrisponde
a viola; quindi: drago viola) è
liberamente ispirata a quella di Habaek del (personalmente) meravglioso
manwha La sposa
di Habaek. Riconosco che da parte mia è un
azzardo introdurre, a due capitoli dalla fine, un personaggio totalmente nuovo
che non ho la possibilità di approfondire ulteriormente in modo particolare. E,
a voler esser sinceri, Ryoshi non era previsto, all’inizio.
Ma è nato per necessità e ormai ha raggiunto, nell’economia
narrativa, un ruolo fondamentale (per il futuro). É anche un piccolo gioco: perchè Ryoshi è legato all’acqua,
che per tradizione è elemento femminile. Acqua maschile, quasi. Ma Ryoshi è particolare: è un bambino, è un ragazzo, è un uomo. E non è umano;
non è youkai. É un mizuchi,
una creatura diversa da Sesshomaru. Per percezione e capacità di comprendere i
ningen; ed è –importante- più antico di Sesshomaru e degli youkai
stessi.
3. Può sembrare un particolare pedante
e senza preciso valore, ma ci tenevo a questa precisazione. Nel paragrafo
conclusivo Sesshomaru non si spoglia e non spoglia
completamente Alessandra. Una sciocchezza, direte. Una scelta. No, in verità. Perchè, mi sono documentata, è
nella tradizione orientale la seduzione e l’amore non si esprimono nel nudo.
Analizzando le stampe, le ukiyo-e
e le immagini erotiche della tradizione nipponica è da rilevare come il nudo
non compaia mai. L’erotismo si esprime attraverso l’allusione, il gioco di
svelamento-copertura, anche nel rapporto più intimo. La mancata nudità totale
di Sesshomaru e Alessandra, di conseguenza, non è un mio vezzo, ma ha un suo
preciso perchè, culturale e sessuale.