2. Luce tagliente
Abbandonarsi a
ricordi spiacevoli, se fa male alla memoria, leviga l'anima e le
ricorda che una volta giunta la fine le pene da pagare saranno
più lievi.
Ciel Phantomhive aveva vissuto
nella sofferenza senza mai fare troppo clamore, limitandosi a
restarsene nella sua ombra tessuta di ricordi da pescare solo ogni
tanto. Eppure sperava fortemente che la fine giungesse dolorosa e
bruciante, così che non dimenticasse chi fosse e chi fosse
stato. 3
Quel giorno,
mentre la carrozza lo conduceva da Undertaker, la sua mente
volò deliberatamente a quel giorno.
Non ricordava ogni
particolare dell'inizio di quella che ad altri sarebbe parsa una
semplice storia inventata. Ma rammentava ogni dettaglio di quello che
era stato il dopo. In effetti, del dopo c'era ben poco da dire,
ciò che valeva la pena di ricordare era la fine. Ma la sua
mente sembrava sollecita ai lunghi racconti quel giorno,
perciò non si curò di porle freno e
lasciò che vagasse libera, mentre le ruote della carrozza
schiacciavano la strada.
Probabilmente
la prima cosa che sentì fu l'urlo di sua madre e il silenzio
fin troppo marcato di suo padre. A distanza di anni, dovette convenire
che suo padre doveva immaginare cosa stesse accadendo,
perciò aveva usato il silenzio come arma, almeno per
rallentare l'incedere della fine. Ma sua madre, così simile
a lui a quel tempo, non poteva sapere nulla, se non che sua sorella
Angelina sarebbe venuta a trovarla il giorno dopo per passare la
giornata insieme. Era estate, era normale voler uscire all'aperto e
godersi un po' di calore e bel tempo, così raro nella grigia
Inghilterra.
Ma quel
futuro era lontano dalla realizzazione che la mente di Rachel aveva
immaginato, perciò sarebbe inutile soffermarsi
ulteriormente.
L'urlo della signora
Phantomhive distrusse la quiete notturna del maniero e, sempre a
distanza di anni, Ciel dovette ammettere che quell'urlo era
più simile al silenzio, rispetto al reale
silenzio del padre. A volte, i rumori forti, quelli che preannunciano
la dolorosa quiete eterna, risultano tali.
Silenzio.
Sì...
forse Ciel avrebbe preferito che sua madre non aprisse bocca e si
lasciasse uccidere senza parlare. Forse sarebbe stato più
facile?
C'erano
velocissimi flash, dopo. Lui che sgusciava via dal letto caldo e
rassicurante, via da quella stanza ormai contaminata dall'urlo di sua
madre e che ne avrebbe conservato le vibrazioni terribili anche a
distanza di anni, quando il Ciel adulto, alla ricerca di sano
masochismo, tornava in quella stanza – o almeno, il punto in
cui tutto era successo, visto che il maniero era stato ricostruito
– per ricordare.
Ricordava,
e quel ricordo se l'era tenuto stretto perché altrimenti
anche tutto il resto sarebbe andato dimenticato, che mentre apriva la
porta oltre la quale avrebbe trovato mamma e papà, nella
speranza che in quel momento Tanaka l'avrebbe svegliato, suo padre
spalancava gli occhi ormai spenti e si accasciava a terra. Aveva
seguito la sua caduta come se l'avesse vista al rallentatore, come
quando vedi qualcosa di immensamente prezioso cadere. La prima volta,
nel momento in cui cade, sembra che non passi neanche un secondo e sei
già lì, in ginocchio, che ne sfiori i cocci con
le mani, triste. Poi ci ripensi e ogni istante diventa talmente pesante
che fa fatica a passare. Ma forse Ciel già sapeva che non
avrebbe avuto il tempo di rivedere quella scena, perciò suo
padre gli cadde davanti agli occhi in un'eternità
insopportabile di tempo. Cadde e basta, cercando di allungare la mano
verso di lui o di dirgli qualcosa. Forse era già morto
quando Ciel aveva aperto la porta. Sua madre, invece, era
già morta probabilmente. Se fosse stata viva l'avrebbe
raggiunto, stretto forte al petto, e detto che... Niente. Non avrebbe
detto niente, perché non c'era nulla da dire.
Ma Ciel
non la vide, e fu solo dopo quel giorno che si chiese come fosse morta,
se anche lei avesse provato a muovere le braccia verso un Ciel ancora
in corridoio, che correva verso di loro. Si domandò se anche
i suoi occhi fossero come quelli di suo padre, spenti e spalancati. Si
rendeva spesso conto che quelle non erano domande che un bambino, un
figlio, avrebbe dovuto porsi. Ma erano le uniche che gli erano venute
in mente.
Ciò
che venne poi fu meno traumatico per il Ciel bambino, ancora troppo
giovane e prematuramente strappato alle radici dell'infanzia per vedere
suo padre morire. Eppure segnò il Ciel adulto in maniera
inevitabile. Il Ciel bambino, ancora troppo impegnato a ricordare
l'urlo di sua madre e a trasformarlo in uno dei suoi rari incubi dovuti
ai temporali – e quella sera pioveva... - non fece quasi caso
alle mani grandi e pesanti che lo trascinavano fuori dalla stanza senza
delicatezza, per portarlo chissà dove, mentre la casa andava
in fiamme. Non ricordava neanche che tutto quel fumo l'aveva quasi
soffocato, che era svenuto con un rivolo di saliva che gli usciva dalla
bocca e gli aveva sporcato la camicia da notte.
Una cosa
però la ricordava, prima che svenisse. Un oggetto metallico,
che il solo rumore spaventoso faceva pensare a quanto dovesse fare male
ed essere tagliente, che tagliava a metà una luce accecante,
più accecante del fuoco, lì dove dovevano
trovarsi suo padre e sua madre. O solo suo padre... Chissà
sua madre dov'era.
E un po'
gli dispiacque, ma questo sempre in seguito, che sua madre non fosse
morta tra le braccia del papà. Non perché in quel
modo sarebbe stato come se fossero morti insieme – si muore
soli, dopotutto – solo perché in quel modo,
forse...
“Siamo arrivati.” la
voce del cocchiere pose fine a ogni suo pensiero. Tanaka
aprì servizievolmente lo sportello, scendendo prima di lui,
e Ciel fu fuori. Era la seconda volta che tornava lì in due
giorni, ma ancora non sapeva quando sarebbe stata l'ultima. Forse
l'ultimo istante sarebbe arrivato quando avrebbe smesso di sentire
nella testa la risata di Undertaker.
Lo tormentava, era
come se l'avesse costantemente dietro le spalle, come se non lo
lasciasse solo un attimo. Oppure era lui che si aggrappava a quella
risata perché, dopotutto, era l'unica cosa che l'aveva
accompagnato da quel giorno. Anche mentre era via, anche mentre credeva
che Tanaka sicuramente sarebbe arrivato a svegliarlo e quella risata si
sarebbe rivelata nient'altro che il chiacchiericcio lontano e allegro
della mamma e di zia Angelina.
“Benarrivato,
Conte.” lo accolse Undertaker. Certe volte si ritrovava a
odiare quella sua compostezza che si sposava decisamente male con il
suo aspetto. Ma era un becchino e uno Shinigami, lavorava con i morti e
se non li seppelliva li giudicava. Inevitabile che diventasse un essere
composto, attento ai particolari e alle parole e che non risparmiasse
ai suoi visitatori brividi di terrore dovuti al suo aspetto. Ma a Ciel,
l'unica cosa che provocava, era senso d'attesa. Oppure fastidio. Lo
sapeva che prima o poi avrebbe giudicato anche lui, ma non pensava che
sarebbe stato così diverso dal prendere il tè
seduto su una bara chiusa e osservare le sue labbra sorridenti,
distinguendo a malapena le iridi gialle dietro la frangia.
“Spero
mi ruberai poco tempo, becchino.” precisò Ciel, il
bastone in una mano e la fretta nell'altra. Non aveva voglia, quel
giorno, di essere lì. Probabilmente aveva sbagliato a
riesumare il passato proprio mentre andava da lui.
“Non
dovrebbe essere rilevante, Conte. O dovrei dire signor Phantomhive? Voi
stesso avete detto che quell'appellativo non vi appartiene
più, ormai. Quali affari vi attendono, fuori di
qui?” Ciel sopportò ogni parola senza mutare
espressione. Ma sembrava che il bastone volesse crepare il pavimento.
“Sono
stato via, i miei affari sono stati gestiti da altri, ma come ultimo
membro della famiglia Phantomhive è mio dovere fare
qualcosa.” rispose.
“E'
esattamente di questo che volevo parlarvi, Conte. Stare via per
così tanto tempo...”
“Non
sono di certo venuto qui per conversare amabilmente, becchino. Se
è per questo che avete richiesto la mia presenza, vi
consiglio di rinunciare.”
“Ma
questo fa parte del patto, non è così? Conversare
amabilmente prima che scatti l'ora.”
E a Ciel
gelò il sangue. Sapeva che avrebbe parlato del patto, prima
o poi. Sapeva che avrebbe dovuto affrontarlo e fare la sua parte.
Altrimenti, per quale ragione era ancora vivo dopo quella notte? Per
lui non c'era stata nessuna luce tagliente.
Nove anni
prima non si era chiesto chi fossero quegli uomini che l'avevano
strappato via dalla sua casa, uccidendo i suoi genitori e dando fuoco
al maniero. Non si era chiesto “come” avevano
potuto fare una cosa del genere, era ancora troppo piccolo per poter
avere una visione chiara della morale, di ciò che
è giusto e ciò che è sbagliato. Certo,
magari esistevano bambini che sapevano già distinguere un
uomo cattivo da un uomo buono, per quanto potessero esistere uomini
totalmente votati al bene e uomini votati al male. Ma Ciel non aveva
mai avuto chiaro quel concetto. C'era stato talmente tanto bene nella
sua vita fino a quel momento che i suoi occhi blu non avevano per
niente notato le ombre che, gradualmente, avevano fatto sbiadire le
pareti di casa, lasciandole tristi e pronte a bruciare.
Ciel, in
quel momento, si chiese solo perché. Ma un perché
flebile, ancora mischiato a qualcosa che nemmeno a distanza di anni era
riuscito a definire. Paura di morire? Paura e consapevolezza di non
rivedere più i suoi genitori?
In fondo
era solo un bambino, e per quanto potesse sforzarsi le sue paure
restavano ombre, e non parole da usare per analizzare uno stato
d'animo. Le paure dei bambini di capiscono dai piccoli gesti, dagli
sguardi che neanche sanno di avere, da tanti altri motivi che non
prevedono l'uso della parola in maniera chiara e diretta.
Ma questo
non importava a quegli uomini cattivi. E il Ciel adulto, certe volte,
si chiedeva cosa sarebbe successo se i suoi genitori fossero
sopravvissuti e lui fosse tornato a casa dopo uno shock simile.
Avrebbero capito le sue paure? Oppure avrebbero mandato avanti la loro
vita come se niente fosse? Erano domande inutili, che creavano dubbi
che morivano prima di nascere, perché la morte era venuta
prima. E un dubbio che non ha un terreno per crescere è come
il ghiaccio sottile. Basta sfiorarlo appena e si rompe, e tu finisci
nell'acqua gelida, il freddo comincia a diventare insopportabile, il
corpo cerca calore e il cuore batte finché può,
veloce, finché non si può fare più
niente. E si muore, perché il calore non è
abbastanza.
Così si
era sentito Ciel quando era tornato per poi andare via. Senza calore.
Ma era vivo.
I primi
tempi, quando ancora la confusione non sembrava volergli dare pace, non
aveva pensato tanto all'accaduto. Non nella maniera in cui l'avrebbe
affrontato un adulto, ma in fondo lui che ne sapeva? Magari un adulto
l'avrebbe affrontata peggio di lui.
L'unica
cosa a cui riusciva a pensare era che le braccia di zia Angelina erano
terribilmente diverse da quelle della mamma, ed era strano,
perché quando veniva a trovarli l'abbracciava sempre, ma non
faceva caso a quel particolare.
La zia lo
stringeva come se avesse paura di perderlo e vederlo sparire, sembrava
volesse soffocarlo, invece la mamma lo stringeva come se lui fosse una
promessa di eternità. Era lieve, era delicata e sentiva che
in quella promessa non sarebbero mai stati divisi. Non sapeva se gli
facesse più male la stretta soffocante della zia o il fatto
che sua madre si fosse sbagliata. Erano divisi e non c'era nessuna
promessa.
Quegli
abbracci, piano piano, cominciarono a stancarlo. Sentiva qualcosa che
appassiva dentro di lui, che provocava un cambiamento che aveva paura
di affrontare, come quando ti fermi ad osservare un lago d'acqua pura e
lanci un sasso e poi, chissà come mai, temi che
all'improvviso quella superficie meravigliosa disegnata in cerchi
concentrici possa diventare nera. Ciel l'aveva pensato una volta,
quando era andato vicino ad un lago con suo padre. Aveva preso un sasso
per imitare il papà e l'aveva lanciato nel lago. Quel sasso
nero, quando era volato via dalla sua mano, gli aveva lasciato lo
sporco della terra sul palmo. E se avesse sporcato irrimediabilmente
anche l'acqua? Lui avrebbe potuto pulirsi con il fazzoletto bianco del
papà, ma il lago come avrebbe fatto?
Era la
stessa domanda che si era posto un giorno, mesi dopo l'accaduto. La sua
anima, ora, chi l'avrebbe pulita?
So struggle in this world of
your own
Knowing there's no way to escape the truth
Everything tastes bitter now
Nothing is fresh and nothing is new 4
Il motivo per cui
si era posto quella domanda l'aveva capito solo dopo. Era ancora un
bambino, nonostante quello che aveva passato, e se la sua anima aveva
conosciuto una crescita fin troppo rapida e uno stato di decadenza
altrettanto veloce, allora la sua mente non era riuscita a seguirla.
Prima di capire perché avesse paura di avere l'anima sporca
dovette rivivere, per la prima volta, quella notte.
“Ho
chiesto a Tanaka di preparare della cioccolata calda. Ne vuoi un po',
Ciel?” zia Angelina entrò nella stanza dentro cui
si rifugiava di solito, sorridendogli. Sorrideva nello stesso modo in
cui l'abbracciava, senza dimenticare di soffocarlo.
Ma non lo
faceva apposta, questo Ciel dovette ammetterlo. Forse aveva paura come
lui, ma la paura Angelina se le teneva dentro e mandava fuori solo la
forza vitale. Si chiese se sarebbe morta anche lei, nello sforzo. Non
voleva che zia Angelina morisse, nonostante fosse soffocante. Non
voleva che morisse semplicemente perché credeva sarebbe
stata colpa sua. E fu in quel momento che comprese.
A undici
anni si crede che voler bene a una persona che ne vuole a noi sia
naturale e semplice, come respirare. Poi si cresce. E niente. Si cresce
e basta.
Le cose
naturali diventano uno sforzo che si eviterebbe volentieri e quando si
capisce che ne vale la pena, di ritrovare quel senso di naturalezza,
allora di comincia a marcire. Era quello che stava succedendo ad
Angelina e a Ciel, solo in modi diversi. Erano a due stadi differenti,
ed anche le conseguenze lo sarebbero state. Ma in fondo, Ciel
già sapeva come sarebbe finita.
Perché
lui, a undici anni, era già cresciuto abbastanza da capire
che per lui era uno sforzo amare. Avrebbe dovuto capirlo quando suo
padre era caduto, morendo, davanti ai suoi occhi. Avrebbe dovuto
capirlo quando si era chiesto se sua madre fosse già morta,
desiderando, se era ancora viva, che morisse tra le braccia di suo
padre. L'aveva desiderato perché morire tra le braccia di
chi si ama, anche se la morte la si affronta sempre da soli, dona
un'indescrivibile rabbia a chi osserva la scena. E forse, se Ciel
avesse visto i suoi genitori stretti l'uno all'altra, freddi e privi di
vita, avrebbe capito prima cos'era quella sensazione che da allora lo
tormentava. Avrebbe voluto provare rabbia quella volta, e non vedere
suo padre tendere verso di lui. Era stato ipocrita? Stava morendo e
sapeva che quel tendere non sarebbe servito a nulla, eppure l'aveva
fatto, illudendo Ciel. Sua madre non l'aveva neanche vista, ma non
aveva potuto fare altro che immaginare il suo abbraccio se fosse stata
viva, per poi chiedersi se i suoi occhi fossero come quelli di suo
padre, spenti e vuoti.
Avrebbe
voluto odiarli, perché la loro naturale tendenza ad amarlo
era svanita così facilmente... L'avevano lasciato solo. E
per un attimo avrebbe voluto odiare più loro che gli
assassini. Era quella la decadenza dall'anima? Oppure era solo normale
provare quelle sensazioni contrastanti e distruttive?
Vomitò
violentemente ai piedi del letto dopo averlo capito, domandandosi se la
cioccolata calda di zia Angelina avrebbe potuto alleviare quel senso di
indicibile amarezza che gli stava assediando le membra.
In quel
periodo, per la prima volta in vita sua, Ciel pensò di
chiedere aiuto a Dio. Se in certi momenti si ritrovava a piangere per i
suoi genitori lacrime che mai scendevano per pura vergogna,
perché non si riteneva degno di sfogarsi, altre si chiedeva
cosa avrebbe fatto se avesse rivisto gli assassini, ormai uccisi dalla
vendetta che aveva reclamato in presenza della luce tagliente. Allora
sentiva le tenebre avvicinarsi e l'anima perdere un pezzo, come
divorata. Era come se il suo corpo stesse cercando di scacciare un
ospite indesiderato, un parassita. Oppure era il contrario? Forse era
lui il parassita, quello che non aveva mai avuto un'utilità
concreta. Magari stava semplicemente espellendo la parte debole. Da
allora, aveva smesso di guardarsi allo specchio.
Un'altra
cosa che all'inizio non aveva potuto notare perché d'estate
zia Angelina non accendeva il camino, era il terrore che provava di
fronte al fuoco. Gli bastava sentirne il calore anche da lontano e i
suoi occhi diventavano cenere bruciata. Poi cecità totale e
febbre alta, come se i nervi avessero ceduto, uccidendolo da dentro.
In un
momento di delirio febbrile, mentre la zia cercava di far scendere la
febbre in tutti i modi che conosceva e standogli accanto notte e
giorno, Ciel fu travolto dal ricordo che aveva serbato nella memoria
perduta. Quella fine che aveva cercato di cancellare con la storia
dell'amore naturale, con il fatto che avesse odiato sua madre e suo
padre quand'erano morti, con le fobie e gli abbracci soffocanti di zia
Angelina che, proprio quando sentiva quelle memorie risalire, ricercava
fino a farsi male.
Ma quel
giorno era fin troppo debole e privo di difese per evitarlo.
C'era buio, un buio che non
puoi immaginare neanche se spingi forte le dita sugli occhi chiusi. Poi
ti senti solo stordito e vedi strane macchie nel vuoto se provi a
guardare. Era un buio che forse non era fisico, ma mentale. Forse Ciel
non voleva vedere, sperando che le tenebre lo conducessero il fretta
alla morte. Probabilmente era una reazione del corpo, ma era come se
qualcosa la stesse contrastando, perché i suoi pensieri
stridevano in quel buio. Pensava che... Non gli importava
più che i suoi genitori fossero morti, voleva morire anche
lui; li avrebbe rivisti se fosse davvero morto, ma non era sicuro che
fosse quella la ragione per la quale voleva mandare via la vita. Non
era sicuro che volesse
mandarla via. Non era sicuro di nulla, neanche delle sbarre gelide che
sentiva premere contro il viso e le ginocchia, oppure il legno grezzo e
graffiante sotto le gambe. Non era reale, nulla lo era. Non
provò neanche a ripeterlo a se stesso, non aveva la forza di
respirare. La gola bruciava e le palpebre erano pesanti, tanto che
c'erano voluti minuti interi – forse ore, non aveva contato
– per aprire gli occhi e scoprire un buio più
pesto di quello che aveva conosciuto a occhi chiusi.
Una parte di lui, quella che
fiocamente invocava ancora libertà, avrebbe voluto sapere
dove si trovava e poi fuggire. Gli era rimasta una traccia vaga di
istinto e avidità, ma così deboli da non
compensare il resto. Non avrebbe nemmeno pianto, le sue lacrime non
valevano nulla, né credeva di
riuscirci.
In tutto
quel tempo – quanto era passato? Un secolo? - aveva persino
dimenticato di avere paura. Non era paura quella che aveva sentito
prima, si diceva, se provava a riflettere negli anni. Era solo una
confusione così disordinata e priva di senso che gli aveva
lacerato il cervello, costringendolo a spegnere le luci, lasciando che
fosse qualcun altro a guidarlo. O a mandarlo a morte. Non faceva
differenza ora che si trovava lì.
Proprio
mentre pensava di rannicchiarsi contro le sbarre, in una posizione
più comoda, una luce forte gli bruciò gli occhi.
Avvertì un dolore forte che si propagò fino alla
testa, costringendolo a vomitare come un animale sulle sue stesse
gambe.
Sentì
voci, passi, sbatacchiare di qualcosa. Sentiva il suo respiro, infine,
per la prima volta. E seppe una volta per tutte di non stare sognando,
perché quando sognava non si concentrava mai sul respiro.
Respirava...
faceva male, ma respirava. L'ossigeno poteva ancora sorreggerlo e
donargli un poco di lucidità. Solo un po', perché
quella luce forte l'aveva accecato. E inspiegabilmente si
ritrovò a sentire la mancanza del buio totale di prima.
L'ultima cosa che vide prima di
venire cacciato fuori da quella gabbia fu, per la seconda volta, quella
luce tagliente – o la luce veniva semplicemente tagliata? Che
importa, pensò. Diversamente da quando l'aveva vista al
maniero, ora quella luce gli sembrava macabramente bella, come qualcosa
da afferrare, anche se a giudicare dall'aspetto gli avrebbe lacerato le
mani. Eppure
sentì di dover correre il rischio perché, nella
confusione totale e nel disordine della mente, aveva finalmente trovato
un pensiero serio a cui aggrapparsi: devo vivere. E
desiderò vendetta.
***§***
Note di Bella: Grazie mille a signorino per
aver commentato! (la storia su Ciel ci starebbe proprio bene,
effettivamente. Ci sto seriamente pensando ** Grazie per i consigli,
cara, è vero che il mio stile si addice poco alle long.
Tendo sempre a filosofeggiare XD Ma mi impegnerò sicuramente
per migliorare. Un bacione ^^)
Bella.
3 : Riferimento all'ultima puntata dell'anime, quando Ciel dice a Sebastian – che qui non c'entra nulla – di divorargli l'anima così da fargli più male possibile.
4: Son of Rust, The World you live in
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