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Autore: _Syn    06/06/2010    1 recensioni
1° Classificata al Contest indetto da signorino "L'ottocento stringe la mano al ventunesimo secolo [Kuroshitsuji & Son of Rust]
“Tornare all'ora del tè.” la voce dell'uomo vestito di nero rallegrò le ombre “Proprio da voi, Conte.”
L'immobilità del nobile scomparve quando i suoi occhi persero finalmente la pallida protezione delle palpebre. Il blu, due sfere nel buio, sciolse la propria regalità sullo sguardo nascosto del becchino.
“Non credo che quell'appellativo mi appartenga ancora.” replicò lui, pur sapendo che quella era un'identità che a stento egli stesso era riuscito a ripudiare. “Ma non posso dire lo stesso di te, Undertaker.” “Non posso liberarmi del mio appellativo, Conte. Non potrei neanche se lo volessi.”
Completa
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Ciel Phantomhive, Undertaker
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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2. Luce tagliente


Abbandonarsi a ricordi spiacevoli, se fa male alla memoria, leviga l'anima e le ricorda che una volta giunta la fine le pene da pagare saranno più lievi.

 

Ciel Phantomhive aveva vissuto nella sofferenza senza mai fare troppo clamore, limitandosi a restarsene nella sua ombra tessuta di ricordi da pescare solo ogni tanto. Eppure sperava fortemente che la fine giungesse dolorosa e bruciante, così che non dimenticasse chi fosse e chi fosse stato. 3

Quel giorno, mentre la carrozza lo conduceva da Undertaker, la sua mente volò deliberatamente a quel giorno.



Non ricordava ogni particolare dell'inizio di quella che ad altri sarebbe parsa una semplice storia inventata. Ma rammentava ogni dettaglio di quello che era stato il dopo. In effetti, del dopo c'era ben poco da dire, ciò che valeva la pena di ricordare era la fine. Ma la sua mente sembrava sollecita ai lunghi racconti quel giorno, perciò non si curò di porle freno e lasciò che vagasse libera, mentre le ruote della carrozza schiacciavano la strada.


Probabilmente la prima cosa che sentì fu l'urlo di sua madre e il silenzio fin troppo marcato di suo padre. A distanza di anni, dovette convenire che suo padre doveva immaginare cosa stesse accadendo, perciò aveva usato il silenzio come arma, almeno per rallentare l'incedere della fine. Ma sua madre, così simile a lui a quel tempo, non poteva sapere nulla, se non che sua sorella Angelina sarebbe venuta a trovarla il giorno dopo per passare la giornata insieme. Era estate, era normale voler uscire all'aperto e godersi un po' di calore e bel tempo, così raro nella grigia Inghilterra.

Ma quel futuro era lontano dalla realizzazione che la mente di Rachel aveva immaginato, perciò sarebbe inutile soffermarsi ulteriormente.

L'urlo della signora Phantomhive distrusse la quiete notturna del maniero e, sempre a distanza di anni, Ciel dovette ammettere che quell'urlo era più simile al silenzio, rispetto al reale silenzio del padre. A volte, i rumori forti, quelli che preannunciano la dolorosa quiete eterna, risultano tali.

Silenzio.

Sì... forse Ciel avrebbe preferito che sua madre non aprisse bocca e si lasciasse uccidere senza parlare. Forse sarebbe stato più facile?

C'erano velocissimi flash, dopo. Lui che sgusciava via dal letto caldo e rassicurante, via da quella stanza ormai contaminata dall'urlo di sua madre e che ne avrebbe conservato le vibrazioni terribili anche a distanza di anni, quando il Ciel adulto, alla ricerca di sano masochismo, tornava in quella stanza – o almeno, il punto in cui tutto era successo, visto che il maniero era stato ricostruito – per ricordare.

Ricordava, e quel ricordo se l'era tenuto stretto perché altrimenti anche tutto il resto sarebbe andato dimenticato, che mentre apriva la porta oltre la quale avrebbe trovato mamma e papà, nella speranza che in quel momento Tanaka l'avrebbe svegliato, suo padre spalancava gli occhi ormai spenti e si accasciava a terra. Aveva seguito la sua caduta come se l'avesse vista al rallentatore, come quando vedi qualcosa di immensamente prezioso cadere. La prima volta, nel momento in cui cade, sembra che non passi neanche un secondo e sei già lì, in ginocchio, che ne sfiori i cocci con le mani, triste. Poi ci ripensi e ogni istante diventa talmente pesante che fa fatica a passare. Ma forse Ciel già sapeva che non avrebbe avuto il tempo di rivedere quella scena, perciò suo padre gli cadde davanti agli occhi in un'eternità insopportabile di tempo. Cadde e basta, cercando di allungare la mano verso di lui o di dirgli qualcosa. Forse era già morto quando Ciel aveva aperto la porta. Sua madre, invece, era già morta probabilmente. Se fosse stata viva l'avrebbe raggiunto, stretto forte al petto, e detto che... Niente. Non avrebbe detto niente, perché non c'era nulla da dire.

Ma Ciel non la vide, e fu solo dopo quel giorno che si chiese come fosse morta, se anche lei avesse provato a muovere le braccia verso un Ciel ancora in corridoio, che correva verso di loro. Si domandò se anche i suoi occhi fossero come quelli di suo padre, spenti e spalancati. Si rendeva spesso conto che quelle non erano domande che un bambino, un figlio, avrebbe dovuto porsi. Ma erano le uniche che gli erano venute in mente.

Ciò che venne poi fu meno traumatico per il Ciel bambino, ancora troppo giovane e prematuramente strappato alle radici dell'infanzia per vedere suo padre morire. Eppure segnò il Ciel adulto in maniera inevitabile. Il Ciel bambino, ancora troppo impegnato a ricordare l'urlo di sua madre e a trasformarlo in uno dei suoi rari incubi dovuti ai temporali – e quella sera pioveva... - non fece quasi caso alle mani grandi e pesanti che lo trascinavano fuori dalla stanza senza delicatezza, per portarlo chissà dove, mentre la casa andava in fiamme. Non ricordava neanche che tutto quel fumo l'aveva quasi soffocato, che era svenuto con un rivolo di saliva che gli usciva dalla bocca e gli aveva sporcato la camicia da notte.

Una cosa però la ricordava, prima che svenisse. Un oggetto metallico, che il solo rumore spaventoso faceva pensare a quanto dovesse fare male ed essere tagliente, che tagliava a metà una luce accecante, più accecante del fuoco, lì dove dovevano trovarsi suo padre e sua madre. O solo suo padre... Chissà sua madre dov'era.

E un po' gli dispiacque, ma questo sempre in seguito, che sua madre non fosse morta tra le braccia del papà. Non perché in quel modo sarebbe stato come se fossero morti insieme – si muore soli, dopotutto – solo perché in quel modo, forse...


Siamo arrivati.” la voce del cocchiere pose fine a ogni suo pensiero. Tanaka aprì servizievolmente lo sportello, scendendo prima di lui, e Ciel fu fuori. Era la seconda volta che tornava lì in due giorni, ma ancora non sapeva quando sarebbe stata l'ultima. Forse l'ultimo istante sarebbe arrivato quando avrebbe smesso di sentire nella testa la risata di Undertaker.

Lo tormentava, era come se l'avesse costantemente dietro le spalle, come se non lo lasciasse solo un attimo. Oppure era lui che si aggrappava a quella risata perché, dopotutto, era l'unica cosa che l'aveva accompagnato da quel giorno. Anche mentre era via, anche mentre credeva che Tanaka sicuramente sarebbe arrivato a svegliarlo e quella risata si sarebbe rivelata nient'altro che il chiacchiericcio lontano e allegro della mamma e di zia Angelina.


Benarrivato, Conte.” lo accolse Undertaker. Certe volte si ritrovava a odiare quella sua compostezza che si sposava decisamente male con il suo aspetto. Ma era un becchino e uno Shinigami, lavorava con i morti e se non li seppelliva li giudicava. Inevitabile che diventasse un essere composto, attento ai particolari e alle parole e che non risparmiasse ai suoi visitatori brividi di terrore dovuti al suo aspetto. Ma a Ciel, l'unica cosa che provocava, era senso d'attesa. Oppure fastidio. Lo sapeva che prima o poi avrebbe giudicato anche lui, ma non pensava che sarebbe stato così diverso dal prendere il tè seduto su una bara chiusa e osservare le sue labbra sorridenti, distinguendo a malapena le iridi gialle dietro la frangia.

Spero mi ruberai poco tempo, becchino.” precisò Ciel, il bastone in una mano e la fretta nell'altra. Non aveva voglia, quel giorno, di essere lì. Probabilmente aveva sbagliato a riesumare il passato proprio mentre andava da lui.

Non dovrebbe essere rilevante, Conte. O dovrei dire signor Phantomhive? Voi stesso avete detto che quell'appellativo non vi appartiene più, ormai. Quali affari vi attendono, fuori di qui?” Ciel sopportò ogni parola senza mutare espressione. Ma sembrava che il bastone volesse crepare il pavimento.

Sono stato via, i miei affari sono stati gestiti da altri, ma come ultimo membro della famiglia Phantomhive è mio dovere fare qualcosa.” rispose.

E' esattamente di questo che volevo parlarvi, Conte. Stare via per così tanto tempo...”

Non sono di certo venuto qui per conversare amabilmente, becchino. Se è per questo che avete richiesto la mia presenza, vi consiglio di rinunciare.”

Ma questo fa parte del patto, non è così? Conversare amabilmente prima che scatti l'ora.”

E a Ciel gelò il sangue. Sapeva che avrebbe parlato del patto, prima o poi. Sapeva che avrebbe dovuto affrontarlo e fare la sua parte. Altrimenti, per quale ragione era ancora vivo dopo quella notte? Per lui non c'era stata nessuna luce tagliente.


Nove anni prima non si era chiesto chi fossero quegli uomini che l'avevano strappato via dalla sua casa, uccidendo i suoi genitori e dando fuoco al maniero. Non si era chiesto “come” avevano potuto fare una cosa del genere, era ancora troppo piccolo per poter avere una visione chiara della morale, di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Certo, magari esistevano bambini che sapevano già distinguere un uomo cattivo da un uomo buono, per quanto potessero esistere uomini totalmente votati al bene e uomini votati al male. Ma Ciel non aveva mai avuto chiaro quel concetto. C'era stato talmente tanto bene nella sua vita fino a quel momento che i suoi occhi blu non avevano per niente notato le ombre che, gradualmente, avevano fatto sbiadire le pareti di casa, lasciandole tristi e pronte a bruciare.

Ciel, in quel momento, si chiese solo perché. Ma un perché flebile, ancora mischiato a qualcosa che nemmeno a distanza di anni era riuscito a definire. Paura di morire? Paura e consapevolezza di non rivedere più i suoi genitori?

In fondo era solo un bambino, e per quanto potesse sforzarsi le sue paure restavano ombre, e non parole da usare per analizzare uno stato d'animo. Le paure dei bambini di capiscono dai piccoli gesti, dagli sguardi che neanche sanno di avere, da tanti altri motivi che non prevedono l'uso della parola in maniera chiara e diretta.

Ma questo non importava a quegli uomini cattivi. E il Ciel adulto, certe volte, si chiedeva cosa sarebbe successo se i suoi genitori fossero sopravvissuti e lui fosse tornato a casa dopo uno shock simile. Avrebbero capito le sue paure? Oppure avrebbero mandato avanti la loro vita come se niente fosse? Erano domande inutili, che creavano dubbi che morivano prima di nascere, perché la morte era venuta prima. E un dubbio che non ha un terreno per crescere è come il ghiaccio sottile. Basta sfiorarlo appena e si rompe, e tu finisci nell'acqua gelida, il freddo comincia a diventare insopportabile, il corpo cerca calore e il cuore batte finché può, veloce, finché non si può fare più niente. E si muore, perché il calore non è abbastanza.


Così si era sentito Ciel quando era tornato per poi andare via. Senza calore. Ma era vivo.


I primi tempi, quando ancora la confusione non sembrava volergli dare pace, non aveva pensato tanto all'accaduto. Non nella maniera in cui l'avrebbe affrontato un adulto, ma in fondo lui che ne sapeva? Magari un adulto l'avrebbe affrontata peggio di lui.

L'unica cosa a cui riusciva a pensare era che le braccia di zia Angelina erano terribilmente diverse da quelle della mamma, ed era strano, perché quando veniva a trovarli l'abbracciava sempre, ma non faceva caso a quel particolare.

La zia lo stringeva come se avesse paura di perderlo e vederlo sparire, sembrava volesse soffocarlo, invece la mamma lo stringeva come se lui fosse una promessa di eternità. Era lieve, era delicata e sentiva che in quella promessa non sarebbero mai stati divisi. Non sapeva se gli facesse più male la stretta soffocante della zia o il fatto che sua madre si fosse sbagliata. Erano divisi e non c'era nessuna promessa.

Quegli abbracci, piano piano, cominciarono a stancarlo. Sentiva qualcosa che appassiva dentro di lui, che provocava un cambiamento che aveva paura di affrontare, come quando ti fermi ad osservare un lago d'acqua pura e lanci un sasso e poi, chissà come mai, temi che all'improvviso quella superficie meravigliosa disegnata in cerchi concentrici possa diventare nera. Ciel l'aveva pensato una volta, quando era andato vicino ad un lago con suo padre. Aveva preso un sasso per imitare il papà e l'aveva lanciato nel lago. Quel sasso nero, quando era volato via dalla sua mano, gli aveva lasciato lo sporco della terra sul palmo. E se avesse sporcato irrimediabilmente anche l'acqua? Lui avrebbe potuto pulirsi con il fazzoletto bianco del papà, ma il lago come avrebbe fatto?

Era la stessa domanda che si era posto un giorno, mesi dopo l'accaduto. La sua anima, ora, chi l'avrebbe pulita?


So struggle in this world of your own
Knowing there's no way to escape the truth
Everything tastes bitter now
Nothing is fresh and nothing is new
4


Il motivo per cui si era posto quella domanda l'aveva capito solo dopo. Era ancora un bambino, nonostante quello che aveva passato, e se la sua anima aveva conosciuto una crescita fin troppo rapida e uno stato di decadenza altrettanto veloce, allora la sua mente non era riuscita a seguirla. Prima di capire perché avesse paura di avere l'anima sporca dovette rivivere, per la prima volta, quella notte.


Ho chiesto a Tanaka di preparare della cioccolata calda. Ne vuoi un po', Ciel?” zia Angelina entrò nella stanza dentro cui si rifugiava di solito, sorridendogli. Sorrideva nello stesso modo in cui l'abbracciava, senza dimenticare di soffocarlo.

Ma non lo faceva apposta, questo Ciel dovette ammetterlo. Forse aveva paura come lui, ma la paura Angelina se le teneva dentro e mandava fuori solo la forza vitale. Si chiese se sarebbe morta anche lei, nello sforzo. Non voleva che zia Angelina morisse, nonostante fosse soffocante. Non voleva che morisse semplicemente perché credeva sarebbe stata colpa sua. E fu in quel momento che comprese.


A undici anni si crede che voler bene a una persona che ne vuole a noi sia naturale e semplice, come respirare. Poi si cresce. E niente. Si cresce e basta.

Le cose naturali diventano uno sforzo che si eviterebbe volentieri e quando si capisce che ne vale la pena, di ritrovare quel senso di naturalezza, allora di comincia a marcire. Era quello che stava succedendo ad Angelina e a Ciel, solo in modi diversi. Erano a due stadi differenti, ed anche le conseguenze lo sarebbero state. Ma in fondo, Ciel già sapeva come sarebbe finita.

Perché lui, a undici anni, era già cresciuto abbastanza da capire che per lui era uno sforzo amare. Avrebbe dovuto capirlo quando suo padre era caduto, morendo, davanti ai suoi occhi. Avrebbe dovuto capirlo quando si era chiesto se sua madre fosse già morta, desiderando, se era ancora viva, che morisse tra le braccia di suo padre. L'aveva desiderato perché morire tra le braccia di chi si ama, anche se la morte la si affronta sempre da soli, dona un'indescrivibile rabbia a chi osserva la scena. E forse, se Ciel avesse visto i suoi genitori stretti l'uno all'altra, freddi e privi di vita, avrebbe capito prima cos'era quella sensazione che da allora lo tormentava. Avrebbe voluto provare rabbia quella volta, e non vedere suo padre tendere verso di lui. Era stato ipocrita? Stava morendo e sapeva che quel tendere non sarebbe servito a nulla, eppure l'aveva fatto, illudendo Ciel. Sua madre non l'aveva neanche vista, ma non aveva potuto fare altro che immaginare il suo abbraccio se fosse stata viva, per poi chiedersi se i suoi occhi fossero come quelli di suo padre, spenti e vuoti.

Avrebbe voluto odiarli, perché la loro naturale tendenza ad amarlo era svanita così facilmente... L'avevano lasciato solo. E per un attimo avrebbe voluto odiare più loro che gli assassini. Era quella la decadenza dall'anima? Oppure era solo normale provare quelle sensazioni contrastanti e distruttive?

Vomitò violentemente ai piedi del letto dopo averlo capito, domandandosi se la cioccolata calda di zia Angelina avrebbe potuto alleviare quel senso di indicibile amarezza che gli stava assediando le membra.



In quel periodo, per la prima volta in vita sua, Ciel pensò di chiedere aiuto a Dio. Se in certi momenti si ritrovava a piangere per i suoi genitori lacrime che mai scendevano per pura vergogna, perché non si riteneva degno di sfogarsi, altre si chiedeva cosa avrebbe fatto se avesse rivisto gli assassini, ormai uccisi dalla vendetta che aveva reclamato in presenza della luce tagliente. Allora sentiva le tenebre avvicinarsi e l'anima perdere un pezzo, come divorata. Era come se il suo corpo stesse cercando di scacciare un ospite indesiderato, un parassita. Oppure era il contrario? Forse era lui il parassita, quello che non aveva mai avuto un'utilità concreta. Magari stava semplicemente espellendo la parte debole. Da allora, aveva smesso di guardarsi allo specchio.


Un'altra cosa che all'inizio non aveva potuto notare perché d'estate zia Angelina non accendeva il camino, era il terrore che provava di fronte al fuoco. Gli bastava sentirne il calore anche da lontano e i suoi occhi diventavano cenere bruciata. Poi cecità totale e febbre alta, come se i nervi avessero ceduto, uccidendolo da dentro.


In un momento di delirio febbrile, mentre la zia cercava di far scendere la febbre in tutti i modi che conosceva e standogli accanto notte e giorno, Ciel fu travolto dal ricordo che aveva serbato nella memoria perduta. Quella fine che aveva cercato di cancellare con la storia dell'amore naturale, con il fatto che avesse odiato sua madre e suo padre quand'erano morti, con le fobie e gli abbracci soffocanti di zia Angelina che, proprio quando sentiva quelle memorie risalire, ricercava fino a farsi male.

Ma quel giorno era fin troppo debole e privo di difese per evitarlo.


C'era buio, un buio che non puoi immaginare neanche se spingi forte le dita sugli occhi chiusi. Poi ti senti solo stordito e vedi strane macchie nel vuoto se provi a guardare. Era un buio che forse non era fisico, ma mentale. Forse Ciel non voleva vedere, sperando che le tenebre lo conducessero il fretta alla morte. Probabilmente era una reazione del corpo, ma era come se qualcosa la stesse contrastando, perché i suoi pensieri stridevano in quel buio. Pensava che... Non gli importava più che i suoi genitori fossero morti, voleva morire anche lui; li avrebbe rivisti se fosse davvero morto, ma non era sicuro che fosse quella la ragione per la quale voleva mandare via la vita. Non era sicuro che volesse mandarla via. Non era sicuro di nulla, neanche delle sbarre gelide che sentiva premere contro il viso e le ginocchia, oppure il legno grezzo e graffiante sotto le gambe. Non era reale, nulla lo era. Non provò neanche a ripeterlo a se stesso, non aveva la forza di respirare. La gola bruciava e le palpebre erano pesanti, tanto che c'erano voluti minuti interi – forse ore, non aveva contato – per aprire gli occhi e scoprire un buio più pesto di quello che aveva conosciuto a occhi chiusi.

Una parte di lui, quella che fiocamente invocava ancora libertà, avrebbe voluto sapere dove si trovava e poi fuggire. Gli era rimasta una traccia vaga di istinto e avidità, ma così deboli da non compensare il resto. Non avrebbe nemmeno pianto, le sue lacrime non valevano nulla, né credeva di riuscirci.

In tutto quel tempo – quanto era passato? Un secolo? - aveva persino dimenticato di avere paura. Non era paura quella che aveva sentito prima, si diceva, se provava a riflettere negli anni. Era solo una confusione così disordinata e priva di senso che gli aveva lacerato il cervello, costringendolo a spegnere le luci, lasciando che fosse qualcun altro a guidarlo. O a mandarlo a morte. Non faceva differenza ora che si trovava lì.

Proprio mentre pensava di rannicchiarsi contro le sbarre, in una posizione più comoda, una luce forte gli bruciò gli occhi. Avvertì un dolore forte che si propagò fino alla testa, costringendolo a vomitare come un animale sulle sue stesse gambe.

Sentì voci, passi, sbatacchiare di qualcosa. Sentiva il suo respiro, infine, per la prima volta. E seppe una volta per tutte di non stare sognando, perché quando sognava non si concentrava mai sul respiro.

Respirava... faceva male, ma respirava. L'ossigeno poteva ancora sorreggerlo e donargli un poco di lucidità. Solo un po', perché quella luce forte l'aveva accecato. E inspiegabilmente si ritrovò a sentire la mancanza del buio totale di prima.

L'ultima cosa che vide prima di venire cacciato fuori da quella gabbia fu, per la seconda volta, quella luce tagliente – o la luce veniva semplicemente tagliata? Che importa, pensò. Diversamente da quando l'aveva vista al maniero, ora quella luce gli sembrava macabramente bella, come qualcosa da afferrare, anche se a giudicare dall'aspetto gli avrebbe lacerato le mani. Eppure sentì di dover correre il rischio perché, nella confusione totale e nel disordine della mente, aveva finalmente trovato un pensiero serio a cui aggrapparsi: devo vivere. E desiderò vendetta.

***§***

Note di Bella: Grazie mille a signorino per aver commentato! (la storia su Ciel ci starebbe proprio bene, effettivamente. Ci sto seriamente pensando ** Grazie per i consigli, cara, è vero che il mio stile si addice poco alle long. Tendo sempre a filosofeggiare XD Ma mi impegnerò sicuramente per migliorare. Un bacione ^^)

Bella.




3 : Riferimento all'ultima puntata dell'anime, quando Ciel dice a Sebastian – che qui non c'entra nulla – di divorargli l'anima così da fargli più male possibile.
4: Son of Rust, The World you live in
  
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