Era consapevole
do star camminando sul filo sottile dell’esaurimento
nervoso, lo sapeva, eccome se lo sapeva. Parimenti, al di là
di ogni
ragionevole dubbio, era cosciente che per lo stato miserabile in cui
versava attualmente
non poteva dar la
colpa a nessun altro
che non fosse sé stessa.
Voltò
il capo per dare un’occhiata circolare alle pareti
anguste della sua cella, valutò
il modo
ridicolo cui era stata costretta a conciarsi e, tentata dalla voglia di
prendersi a schiaffi da sola, si chiese ancora una volta
perché, accidenti alla
sua testaccia dura, non imparava ad essere più conciliante e
far finta di nulla.
Se
l’avesse fatto per un mese non sarebbe stata privata della
sua casa, dei suoi vestiti e, cosa fondamentale, di starsene beatamente
a cavalcioni
tra svariate culture, così come aveva sempre fatto.
“Sono
stata una vera imbecille.” Si disse e,
contemporaneamente, scordandosi che era di delicata fattura, a causa
dell’ira a
lungo repressa diede un calcio al tramezzo che separava la sua
stanzetta dal
corridoio, mandandone in pezzi l’intelaiatura di legno e
carta. Ecco ben gli
sta! Pensò fregandosene se in tal modo avrebbe dato al
vecchio cerbero un’ulteriore
scusa per darle addosso. “Eh già”,
proruppe quindi a voce alta stavolta, inalberando
una smorfia risentita e agitando il pugno in direzione imprecisata,
“la frutta
non cade mai troppo lontano dall’albero, vero?!”
Pure, si disse
tentando di darsi una calmata e dando la
stura alle domande postume, sarebbe stato davvero tanto difficile da
parte sua assentire
e sorvolare per una volta, una soltanto, sulle immense puttanate che
spesso Michiru
esternava? Porco mondo, perché proprio non le era riuscito
di dirle: sì amore,
hai ragione tu, hai davvero avuto un’esperienza tremenda?
Se
l’avesse fatto si sarebbe risparmiata il calvario di
quelle settimane, pure, ora che ne era a un passo dalla conclusione,
comunque
restava della sua idea iniziale. Non avrebbe potuto.
Perché
dinnanzi a
certe assurdità non si può! Sbottò una voce
prepotente dal suo essere più profondo. Dopodiché
la medesima voce, tuonando e
rimembrando il punto di non ritorno della genesi del suo travaglio,
soggiunse: Perché se è
vero che c’è il silenzio degli
innocenti, il suo è stato di sicuro il casino dei colpevoli!
Ed ecco
com’erano andate le cose.
Stavano
conversando cuore a cuore sul divano, preda di quel
relax che segue un amplesso particolarmente ben riuscito e fecondo,
scambiandosi quelle confidenze tanto più frivole e
zuccherose di quanto
comunemente piaccia ammettere. Così, in balia di
quell’umore benevolo e
incalzata dalle domande di Michiru in materia, ché pareva
non ne avesse mai
abbastanza di ficcare il naso in certe faccende, si era lasciata andare
a tutta
una serie di memorie inerenti il periodo della sua pubertà.
Cosa che non
mancava mai di renderla eccessivamente compiaciuta di sé
stessa, giacché
riteneva le difficoltà affrontate prima, durante e dopo
l’abbandono di sua
madre, prove forgianti cui avrebbero anche potuto schiacciarla, se non
fosse
stata la persona forte e meravigliosa che era.
Okay,
rifletté al ricordo tentando di fare sinceramente mea culpa, forse aveva peccato un filino
di vanagloria, ma Michiru non asseriva d’amarla anche per
questo? Invece,
visibilmente piccata, quasi il suo fosse stato un discorso fatto
nell’intento
di sminuirla, aveva controbattuto a quelle asserzioni uscendosene con l’affermazione che
capiva perfettamente cosa
intendesse, in quanto, anche se pareva le loro situazioni difettassero
quanto a
parità, piuttosto erano comparabili, giacché
anche lei aveva affrontato e
superato parecchi frangenti ostici.
“Guarda
che nemmeno il mio è stato un percorso facile.”
Aveva detto districandosi dal suo abbraccio e tirandosi su per
guardarla in
faccia con un cipiglio tutt’altro che amorevole. “E
ti assicuro che lo status e
la ricchezza della mia famiglia non ha fatto altro che renderlo
più duro.”
Al che, messa
al cospetto della sua metà, che altezzosa faceva
affermazioni sociologiche in tenuta adamitica, Haruka aveva fatto
l’imperdonabile errore di sghignazzare sarcastica e
risponderle per le rime. Anche
perché, visto che era chiaro stessero rapidamente andando
incontro ad un battibecco
e che generalmente erano solite risolvere le loro divergenze tra le
lenzuola,
pensò bene di buttare ulteriore benzina sul fuoco. Tanto
erano già in fase
talamo. Che poi Michiru dicesse sul serio o meno era un altro paio di
maniche.
Di certo, si era detta incredula supponendo che enfatizzasse le cose a
dismisura, non c’era da fare paragoni tra
l’infanzia dorata della sua bella e
la trafila di case di contrizione e famiglie affidatarie con cui aveva
avuto a
che fare lei, giusto?
“Perché
un conto è scherzare”, le chiarì
beffarda, inarcando
un sopracciglio e cominciando ad avvertire un certo nervosismo, anzi
diciamo
pure una notevole incazzatura, “ma ben altro crederci
davvero.” Dopodiché, senza
darle neanche il tempo di risponderle, visto che Michiru nel frattempo
aveva
messo su quell’espressione di offesa superiorità
che tanto le dava sui nervi,
con accenti vibranti aveva continuato: “Siamo oneste amore
mio, mentre a te
insegnavano ad usare la limetta per le unghie a me toccava scazzottare
persino
per un tozzo di pane!”
Chiaro quindi
che a questa malsana uscita Michiru, che ormai
sospettava da un bel pezzo che Haruka calcasse a bella posta la mano
sulla
visione dickensiana dell’insieme solo per il fatto che lei, oltre che abbiente, era pure
nobile nascita,
aveva replicato ironica: “E dì un po’
tesoro a te è morto prima il nonno o la
scimmietta? Ah no scusami, ti sto confondendo con il dolce
Remì! Anzi sai che
ti dico? Perché non ti fai crescere i capelli,
così ti fai i codini e puoi fare
pure Candy Candy?!”
“Ma
stai zitta, tu non sai che significa prendersi le
pulci!”
“E tu
non hai idea di quanto sia difficoltoso l’ikebana!”
Da qui in poi
avevano preso ad urlare di brutto, scambiandosi
una lunga sequela di accuse, offese ed insulti assortiti, che tra
l’altro le
aveva portate a tirare in ballo le rispettive discendenze su, su fino
all’origine della stirpe. E a tutt’oggi Haruka
supponeva che, sebbene la colpa fosse
equamente condivisibile, probabilmente avrebbe dovuto metterci nel
mucchio pure
quella sua sempiterna e dannata predisposizione a cercare, sempre e
comunque,
il pelo nell’uovo. D’accordo, ne era consapevole,
ciononostante proprio non ce
la faceva, era più forte di lei e profondamente insito nella
sua più intima
natura. Ma come avrebbe potuto, innanzi alla boiata pazzesca che
Michiru le
aveva buttata lì con convinzione, evitare di mettere i
puntini sulle i?!
Non si
può! Non
potevo! Pensò inginocchiandosi sotto i raggi della
luna.
Già,
non poteva. Ma di conseguenza la sua dolce metà, che
quanto a testa dura, malgrado l’apparenza, le stava
assolutamente alla pari,
aveva pensato bene di lavare quella presunta onta in modo infame. E
aveva avuto
buon gioco a stuzzicarle
l’amor
proprio, nonché il rigoglioso spirito
di competizione che la contraddistinguevano e spesso mettevano in
ambasce, giacché
di punto in bianco se n’era uscita con una proposta
sorprendente.
Di
più, l’aveva fatto facendo balenare quella sua
espressione peculiare, quella che Haruka a sue spese e nel tempo aveva
imparato
a temere e a tentare di non provocare, il che avrebbe dovuto metterla
sull’avviso. Pure, innanzi a quelle sembianze, che quanto più
sembravano amabili e innocenti,
tanto più erano letali e diaboliche, giacché al
sorriso con cui l’omaggiava si
contrapponevano le correnti sotterranee che le serpeggiavano
nell’azzurro delle
iridi, ancora le aveva tenuto cocciutamente testa.
E infatti alla
delicata donzella era bastato un niente per
incastrarla nel più blando dei modi, lanciandole a
mo’ di sfida una
provocazione e di fatto fregandola.
“Sai
che ti dico?” Aveva esclamato appunto, vibrando del
brivido di voluttà assoluta di chi sa di stare
lì, lì per metterlo in quel
posto al proprio interlocutore. “Se il paragone non regge
affatto e la mia
educazione è stata un letto di rose rispetto alla tua,
allora che ne dici di
fare una scommessa? Ti
assicuro cara
che sarà una bazzecola per una donna temprata dalle miserie
e le durezze della
vita come te!”
Aveva aggiunto
poi senza specificare più di tanto che,
quella che poteva sembrare una gara, era invece un ingrato corso di
sopravvivenza. Già e non poteva essere altrimenti,
giacché consisteva nel
vivere un mese a casa Kaioh in modo da poter sperimentare sulla sua
stessa pelle
le medesime tecniche formative, mediante le quali lo stuolo di tate,
maestre,
educatrici e governanti, presiedute da quell’avvoltoio
ingrugnito di sua nonna,
avevano fatto di Michiru una signora. La posta in palio era diventare
in quel
breve lasso di tempo una donna di classe. Oltre al fatto di uscirne
viva
naturalmente.
“Visto
che ritieni siano bazzecole che ti costa?” Ne aveva
concluso buttando lì, con falsa noncuranza, la sua trappola
infernale. Al che,
messa così la cosa, pur subodorando l’inghippo,
Haruka si era vista
praticamente costretta ad accettare. Anzi l’aveva fatto con
fierezza, spiegando
alto il suo vessillo da amazzone invitta, chiudendo gli occhi e
buttandosi
incosciente nel baratro.
E detto fatto,
l’indomani si era trovata niente po’ po’
di
meno che al cospetto del Triunvirato Nero testé riunito da
Michiru. La trimurti
era composta da sua nonna, la veneranda decana Akiko Kaioh-Sama,
dall’istitutrice che l’aveva catechizzata, una che
ad Haruka aveva ricordato
molto la signora Tsukikage de “Il grande sogno di
Maya”, quantunque non fosse
cecata e anzi avesse due occhi da falco predatore, cosa che ebbe a
scoprire a
sue spese successivamente, e infine da Takagi, un’autentica
geisha a fine
carriera per sopraggiunti limiti d’età e servizio.
Un trio che avrebbe dovuto
trasformarla in un’autentica gentildonna, ma che piuttosto
negli intenti di
Michiru sospettava avrebbe dovuto renderle la vita un inferno.
E
così era stato in effetti, giacché da quando
aveva messo
piede nel feudo dei Kaioh quelle arpie non l’avevano mai
lasciata in pace. Alternativamente,
o tutte e tre insieme olè, presiedevano a quelle che loro
chiamavano lezioni,
ma che in sostanza somigliavano molto ad un tribunale
dell’inquisizione. Così
tra arte, poesia, educazione e compagnia bella, avrebbero dovuto
renderla ad un
qualcosa di molto simile ad una dama di
corte. E visto che Haruka era Haruka aveva accettato senza battere
ciglio la competizione
e le crudeltà con cui la vessavano con il consueto slancio.
Ma già dopo qualche
giorno non ne poteva davvero più.
Un esempio? La
composizione di quei maledettissimi Haiku.
Doveva poetare e per farlo la
vecchia la faceva inginocchiare al centro della stanza, ovviamente
inguainata
in un kimono quanto più fiorato possibile, con
l’obi stretto talmente tanto,
che si sentiva schizzare fuori le budella dalla gola.
Dopodiché, bacchetta
minacciosamente stretta in mano, l’ingiungeva di comporre
all’impronta, lasciandosi
ispirare dalla natura.
“Pensa
all’amore.” Diceva la
vecchia, spronandola quando il silenzio si faceva prolungato.
“Sì,
l’amore ai tempi del colera,
brutta puzzona!” Pensava Haruka, giacché la
nonnina sparava delle flatulenze
micidiali ma, siccome era talmente persuasa della sua
nobiltà, era convinta di
cacare coriandoli, perciò laddove tanfo c’era, a
suo modo di vedere, l’unica
imputabile era lei. Ché in quanto plebea poteva essere la
sola in quella stanza
a produrre olezzi immondi. Sia come sia Haruka non poteva certo
ispirarsi a
quel tipo di natura per lasciarsi influenzare dalla musa, per cui aveva
chiuso
gli occhi e ascoltato attenta il rumore della pioggia sulle grondaie.
Al che
aveva ghignato e colta da ispirazione aveva preso a declamare:
Gocce…
gocce… gocce…
Due gocce di
pioggia cadono sulla lamiera
Tikke
takke,
tikke takke
Takke
tikke,
takke tikke
Alla finestra
volto le spalle
Mi si sono
rotte le… orecchie
A questo sfoggio di maestria
compositiva,
perché la vecchia marpiona aveva inteso benissimo cosa
Haruka si fosse rotta,
anzi frantumata, in realtà, il cerbero ingrugnito
l’aveva lungamente presa a
bacchettate sul groppone, smentendo all’istante due false
impressioni: che
fosse minuta e senza forze, invece picchiava più
d’un fabbro, e che una vera dama
disdegnasse l’esercizio delle legnate.
Balle, la
picchiava notte e
giorno come un tamburo, ogni sbaglio era buono per farle una cappotta e
lei all’inizio
ne aveva fatti tanti di errori accidenti! Ma il picco di perfidia
l’aveva
raggiunto quando l’aveva malmenata persino dopo la sua
rovinosa caduta. Dalle
scale? Dallo sgabello? Dalla grazia? Peggio, dagli zori con le zeppe.
Diciotto centimetri
di tacco, manco fossero gli Armadillo di
Alexander
Mc Queen, sui
quali si pretendeva non solo camminasse, ma ballasse pure. Chiaro che
come
aveva solo tentato di muovere due passi era caduta a faccia in avanti e
s’era
pure scheggiata gli incisivi, in quanto le maniche del, sempre
maledetto,
kimono che aveva addosso erano così strette che non era
riuscita a protendere
le braccia per attutire il colpo.
Con Takagi la
geisha poi le cose erano andate un filino
peggio, giacché l’acclamata artista trovava che la
sua danza dei ventagli fosse
più simile all’adescamento di un travestito. Per
non parlare dei vocalizzi
improbabili che intonava qualora doveva accompagnarsi con lo shamisen. E
aveva voglia Haruka a spiegarle che lei non aveva assolutamente
cognizione
dei canti tradizionali. Già, l’unica canzone
vagamente antica che conosceva era
la sigla del Grande Mazinga, perciò le aveva cantata quella,
scatenandone le
ire funeste. Stesso discorso per quanto riguardava il kabuki, ma
lì più che di
mancanza d’espressione o mimica, si era trattato di un
fraintendimento
strutturale, nonché del palesarsi di sentimento autentico.
Del resto, che altro
avrebbe potuto fare, quando sfinita delle continue sollecitazioni ad
esprimere
i suoi stati d’animo con la gestualità compita, se
non far scattare un braccio
e mostrare il dito medio alla donna? Accidenti se non era una
manifestazione
gestuale di sofferenza quella! Peccato che Takagi non avesse affatto
apprezzato,
così come la trimurti al completo non gradiva nessuno dei
suoi sforzi, ivi
compresa la tecnica particolare che usava per darsi il trucco. Beh,
lì non
poteva dar tanto torto alle tre, giacché più che
un make-up si disegnava sulla
faccia dei veri e propri Kandinsky. Anche se il
capolavoro massimo l’aveva
fatto alla menzione del mizuage.
Già,
quando infine aveva capito di che diavolo stessero parlando,
aveva fatto un commento assai salace sul fatto che, per quanto
riguardava
Michiru, non c’era stato bisogno di nessuna base
d’asta. “Kaioh-Sama”, aveva
detto con la faccia da faina, “praticamente me l’ha
messa in mano senza che
dovessi manco chiedergliela!”
Va da
sé che questa chiosa le era costata una gragnola di
mazzate più cospicua del solito, ma che cavolo, almeno la
soddisfazione di
dirle che la sua angelica nipote era una vera zoccola se la doveva
togliere! Anche
perché quell’infame, dacché
l’aveva fatta recludere, non si era affatto
peritata di farsi sentire. Di sicuro seguiva i suoi progressi, se tali
ottimisticamente li si voleva chiamare, informandosi presso le sue
compari, ma
con lei manco un fiato.
Ed era stata
questo in conclusione, unita alla somma delle umiliazioni
e dei limoni amari che le avevano fatto inghiottire fin lì,
a far scattare in
lei una molla. E il desiderio di rivalsa aveva compiuto il miracolo,
tanto che
da quel momento in poi aveva chiuso la mente ad ogni se e ma e si era
impegnata
con tutta sé stessa per riuscire. E stupefatte le tre cesse,
quattro se si
voleva contare pure Michiru, avevano assistito alla sua straordinaria
trasformazione. Ché la rude, irascibile, scalcinata,
scortese, sgraziata, sacrilega
e mascolina virago che era Haruka si era trasformata in un fiorellino.
Oddio, fiorellone
casomai, visto che le proporzioni e stazza erano quel che erano e di
certo non
potevano cambiare, ma ciononostante, addirittura due giorni prima della
data
pattuita, Haruka era arrivata al traguardo che nessuna di loro aveva
mai supposto
potesse raggiungere.
Certo si
sentiva tanto un trans, ma aveva vinto lei.
Ad ogni modo
quella era la sua ultima notte sotto quel tetto
e, salvo per l’attacco d’ira estemporanea avuto
poco prima, fin qui le era
riuscito di tenere a bada la sua contrarietà. Ma ora poteva
lasciarla andare ed
affermare a chiare lettere che ogni cosa in quella stramaledetta dimora
parlava
troppo d’un passato di generazioni che avevano assurto, e
ancora sbandieravano
pretenziosi, un ruolo di casta assai elevato. Ci tenevano da morire a
far
sfoggio della loro superiorità ed era una gran rottura di
palle. E d’accordo
che un tempo tra quelle stesse mura aveva vissuto e imperato uno
shogun, cosa
che da un mese a quella parte le veniva ripetuta ad ogni pie sospinto
fino alla
nausea, ma c’era un limite a tutto. E la pazienza di Haruka,
che mai aveva brillato
per copiosità, era allo stremo.
Per cui
considerò la posizione a picco sulla città
dell’edificio,
quasi fosse un tempio pagano ove idolatrare quei dei in terra che si
sentivano
i Kaioh; ascoltò il sospiro lieve della brezza estiva
sembrava lambire, quasi
senza toccarli, i merli puntuti del tetto spiovente;
immaginò la casa covare su
sé stessa al fine di conservare le millenarie tradizioni e,
nel silenzio antico
e sovrano che vi regnava, facendosi strada attraverso il morbido manto
dell’oscurità, infine la sua voce proruppe
trionfante.
“Ma
vaffanculo!”
Urlò
lasciando che i modulii di quel grido riverberassero
per la casa. Dopodiché afferrò l’opera
immortale di Sei Shonagon, la stessa
sulla quale stava sgobbando dacché aveva varcato quelle
porte, poiché per fare
di lei una vera signora non c’era nulla di meglio che le
squisite annotazioni
della dama di corte dell’era Heian, e le fece fare un
pindarico volo
nell’azzurro fino ad esaurirsi con un tonfo acquoso
là al centro del giardino. Un
tiro mica a caso, anzi. E peccato si trattasse di un’edizione
tutt’altro che
rara, pensò Haruka ghignando. Già, Kaioh-Sama si
era ben guardata da metterle
tra le mani un libro che non fosse altro che brossura economica. Lei
era una gajin, e ad una mezza
giapponese-svedese-americanizzata non si deve rispetto, vero?
Pure, si chiese
sorvolando sul classismo di quella megera, chissà
se quella carogna vetusta aveva considerato le variabili impreviste e
il furore
che a lungo aveva fomentato. Forse no, ma in ogni caso, ne concluse,
probabilmente
le verrà un colpo quando scoprirà che persino un
libricino da pochi yen,
scagliato con forza in direzione del laghetto, ha ucciso sul colpo una
delle
sue preferite e pregiatissime carpe!
“Tié
e carpe la carpa adesso, brutta befana!” Ridacchiò
stagliandosi
nel vano della finestra come uno spirito maligno deciso a vendicarsi.
“Edmond
Dantes mi fa una pippa!” Disse quindi mentre il piano
mefistofelico su cui
aveva meditato nelle sue notti insonni finalmente prendeva forma. Fece
le
ultime opportune telefonate, per assicurarsi che tutto fosse pronto, e
lieta si
congratulò con se stessa perché si stava
risolvendo adamantino in tutti i suoi
dettagli ed incastri.
“Ahahahahahahahah!!!”
Rise sguaiata e sinistra pregustando
la dolce vendetta, tremenda vendetta.
Così
fu che, all’indomani della sua partenza, le sue
aguzzine si ritrovarono incaprettate e completamente abbandonate a loro
stesse
nell’augusta dimora. La servitù era stata
nottetempo congedata, previa una
bella mazzetta in contanti, e nessuno poteva udirne gli strilli mentre
una branco
di babbuini delle montagne devastava tutto. Di più, alcuni
si spinsero pure a
far alle tre delle spudorate avance sessuali.
Del resto
Haruka aveva provveduto apposta a cospargerle
abbondantemente di miele perché ciò avvenisse.
Quanto alle bestie, era da un
bel pezzo che ne aveva concordato l’arrivo, facendone
arrivare una partita
direttamente dalle foreste thailandesi. Perché si sa, quando
sei una stella
dell’automobilismo, pagata molto di più di quanto
potresti spendere
normalmente, qualche sfizio te lo puoi togliere. Soprattutto se hai una
madre
girovaga, hippie e pulciosa che si ritrova agganci e maniglie
particolari in
ogni parte del globo.
Quanto a
Michiru… beh, considerato il concorso di colpa, Haruka
poteva permettersi di essere un po’ più
indulgente. All’apparenza naturalmente,
giacché una tortura psicologica è molto
più fine di una fisica. Per cui, visto
che per una femmina gelosa non c’è niente di
peggio che il sospetto del
tradimento, quello le avrebbe servito. Ma solo il sospetto…
ahah!
Così,
mentre sfrecciava sulla sua cabriolet lungo la strada
costiera, attivò l’auricolare e la
chiamò.
“Pronto
tesoro? Bene, bene. Sì poi ti fai raccontare da tua
nonna… sempre che riesca ad arrivare al telefono
beninteso… niente, niente, poi
capirai… No, non torno per il momento. Perché? Ho
deciso di restare a Kyoto… no,
non è una vacanza… sai cosa amore? Sono riuscita
talmente bene come maiko che
ho deciso di entrare in una okiya per
diventare una geisha professionista… su, su non fare
così! Avevi proprio
ragione comunque eh? E’ dura diventare una signora, ma
finalmente lo sono anch’io…
Michi, ma che razza di modo di esprimersi è questo? Via, una
gentildonna non si
esprime così e, perdona il termine, puttana lo dici a tua
sorella… beh comunque
piantala di urlare, perché tanto adesso ti devo
salutare… ma prima lascia che
ti dedichi un haiku:
Nella campagna
vado
lontano
Mentre tra i
fiori
cresce giallo il grano
A te penso
ascoltando
il cuculo
Cara Michiru
ora te lo
pigli in…
“Ciao
amore, un bacio!” Concluse mentre l’altra la
riempiva
di improperi e maledizioni in modo assai poco femmineo.
N.d.A.
Forse ho
esagerato.
Forse non si
può mettere alla berlina così Memorie
di una geisha, Le note del Guanciale
e My fair lady. Eppure,
quale che
sia il risultato, gradimento o ingiurie, mi sono divertita davvero
tanto! :D
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