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Autore: Aurelia major    10/06/2010    5 recensioni
Stralci dalla teoria alla pratica, quando l’amor conteso, inseguito, ipotizzato e alla fine compiuto, si trasforma in convivenza. E la vita comune si sa, non è mai una passeggiata…
Genere: Comico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Haruka/Heles
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Era consapevole do star camminando sul filo sottile dell’esaurimento nervoso, lo sapeva, eccome se lo sapeva. Parimenti, al di là di ogni ragionevole dubbio, era cosciente che per lo stato miserabile in cui versava attualmente non poteva  dar la colpa a nessun altro che non fosse sé stessa.

Voltò il capo per dare un’occhiata circolare alle pareti anguste della sua cella,  valutò il modo ridicolo cui era stata costretta a conciarsi e, tentata dalla voglia di prendersi a schiaffi da sola, si chiese ancora una volta perché, accidenti alla sua testaccia dura, non imparava ad essere più conciliante e far finta di nulla.

Se l’avesse fatto per un mese non sarebbe stata privata della sua casa, dei suoi vestiti e, cosa fondamentale, di starsene beatamente a cavalcioni tra svariate culture, così come aveva sempre fatto.  

“Sono stata una vera imbecille.” Si disse e, contemporaneamente, scordandosi che era di delicata fattura, a causa dell’ira a lungo repressa diede un calcio al tramezzo che separava la sua stanzetta dal corridoio, mandandone in pezzi l’intelaiatura di legno e carta. Ecco ben gli sta! Pensò fregandosene se in tal modo avrebbe dato al vecchio cerbero un’ulteriore scusa per darle addosso. “Eh già”, proruppe quindi a voce alta stavolta, inalberando una smorfia risentita e agitando il pugno in direzione imprecisata, “la frutta non cade mai troppo lontano dall’albero, vero?!”

Pure, si disse tentando di darsi una calmata e dando la stura alle domande postume, sarebbe stato davvero tanto difficile da parte sua assentire e sorvolare per una volta, una soltanto, sulle immense puttanate che spesso Michiru esternava? Porco mondo, perché proprio non le era riuscito di dirle: sì amore, hai ragione tu, hai davvero avuto un’esperienza tremenda?

Se l’avesse fatto si sarebbe risparmiata il calvario di quelle settimane, pure, ora che ne era a un passo dalla conclusione, comunque restava della sua idea iniziale. Non avrebbe potuto.

Perché dinnanzi a certe assurdità non si può!  Sbottò una voce prepotente dal suo essere più profondo. Dopodiché la medesima voce, tuonando e rimembrando il punto di non ritorno della genesi del suo travaglio, soggiunse: Perché se è vero che c’è il silenzio degli innocenti, il suo è stato di sicuro il casino dei colpevoli!

Ed ecco com’erano andate le cose.

Stavano conversando cuore a cuore sul divano, preda di quel relax che segue un amplesso particolarmente ben riuscito e fecondo, scambiandosi quelle confidenze tanto più frivole e zuccherose di quanto comunemente piaccia ammettere. Così, in balia di quell’umore benevolo e incalzata dalle domande di Michiru in materia, ché pareva non ne avesse mai abbastanza di ficcare il naso in certe faccende, si era lasciata andare a tutta una serie di memorie inerenti il periodo della sua pubertà. Cosa che non mancava mai di renderla eccessivamente compiaciuta di sé stessa, giacché riteneva le difficoltà affrontate prima, durante e dopo l’abbandono di sua madre, prove forgianti cui avrebbero anche potuto schiacciarla, se non fosse stata la persona forte e meravigliosa che era.

Okay, rifletté al ricordo tentando di fare sinceramente mea culpa, forse aveva peccato un filino di vanagloria, ma Michiru non asseriva d’amarla anche per questo? Invece, visibilmente piccata, quasi il suo fosse stato un discorso fatto nell’intento di sminuirla, aveva controbattuto a quelle asserzioni uscendosene con  l’affermazione che capiva perfettamente cosa intendesse, in quanto, anche se pareva le loro situazioni difettassero quanto a parità, piuttosto erano comparabili, giacché anche lei aveva affrontato e superato parecchi frangenti ostici.

“Guarda che nemmeno il mio è stato un percorso facile.” Aveva detto districandosi dal suo abbraccio e tirandosi su per guardarla in faccia con un cipiglio tutt’altro che amorevole. “E ti assicuro che lo status e la ricchezza della mia famiglia non ha fatto altro che renderlo più duro.”

Al che, messa al cospetto della sua metà, che altezzosa faceva affermazioni sociologiche in tenuta adamitica, Haruka aveva fatto l’imperdonabile errore di sghignazzare sarcastica e risponderle per le rime. Anche perché, visto che era chiaro stessero rapidamente andando incontro ad un battibecco e che generalmente erano solite risolvere le loro divergenze tra le lenzuola, pensò bene di buttare ulteriore benzina sul fuoco. Tanto erano già in fase talamo. Che poi Michiru dicesse sul serio o meno era un altro paio di maniche. Di certo, si era detta incredula supponendo che enfatizzasse le cose a dismisura, non c’era da fare paragoni tra l’infanzia dorata della sua bella e la trafila di case di contrizione e famiglie affidatarie con cui aveva avuto a che fare lei, giusto?

“Perché un conto è scherzare”, le chiarì beffarda, inarcando un sopracciglio e cominciando ad avvertire un certo nervosismo, anzi diciamo pure una notevole incazzatura, “ma ben altro crederci davvero.” Dopodiché, senza darle neanche il tempo di risponderle, visto che Michiru nel frattempo aveva messo su quell’espressione di offesa superiorità che tanto le dava sui nervi, con accenti vibranti aveva continuato: “Siamo oneste amore mio, mentre a te insegnavano ad usare la limetta per le unghie a me toccava scazzottare persino per un tozzo di pane!”

Chiaro quindi che a questa malsana uscita Michiru, che ormai sospettava da un bel pezzo che Haruka calcasse a bella posta la mano sulla visione dickensiana dell’insieme solo per il fatto che lei,  oltre che abbiente, era pure nobile nascita, aveva replicato ironica: “E dì un po’ tesoro a te è morto prima il nonno o la scimmietta? Ah no scusami, ti sto confondendo con il dolce Remì! Anzi sai che ti dico? Perché non ti fai crescere i capelli, così ti fai i codini e puoi fare pure Candy Candy?!”

“Ma stai zitta, tu non sai che significa prendersi le pulci!”

“E tu non hai idea di quanto sia difficoltoso l’ikebana!”

Da qui in poi avevano preso ad urlare di brutto, scambiandosi una lunga sequela di accuse, offese ed insulti assortiti, che tra l’altro le aveva portate a tirare in ballo le rispettive discendenze su, su fino all’origine della stirpe. E a tutt’oggi Haruka supponeva che, sebbene la colpa fosse equamente condivisibile, probabilmente avrebbe dovuto metterci nel mucchio pure quella sua sempiterna e dannata predisposizione a cercare, sempre e comunque, il pelo nell’uovo. D’accordo, ne era consapevole, ciononostante proprio non ce la faceva, era più forte di lei e profondamente insito nella sua più intima natura. Ma come avrebbe potuto, innanzi alla boiata pazzesca che Michiru le aveva buttata lì con convinzione, evitare di mettere i puntini sulle i?!

Non si può! Non potevo! Pensò inginocchiandosi sotto i raggi della luna.

Già, non poteva. Ma di conseguenza la sua dolce metà, che quanto a testa dura, malgrado l’apparenza, le stava assolutamente alla pari, aveva pensato bene di lavare quella presunta onta in modo infame. E aveva avuto buon gioco a  stuzzicarle  l’amor proprio, nonché il rigoglioso spirito di competizione che la contraddistinguevano e spesso mettevano in ambasce, giacché di punto in bianco se n’era uscita con una proposta sorprendente.

Di più, l’aveva fatto facendo balenare quella sua espressione peculiare, quella che Haruka a sue spese e nel tempo aveva imparato a temere e a tentare di non provocare, il che avrebbe dovuto metterla sull’avviso. Pure, innanzi a quelle sembianze,  che quanto più sembravano amabili e innocenti, tanto più erano letali e diaboliche, giacché al sorriso con cui l’omaggiava si contrapponevano le correnti sotterranee che le serpeggiavano nell’azzurro delle iridi, ancora le aveva tenuto cocciutamente testa.

E infatti alla delicata donzella era bastato un niente per incastrarla nel più blando dei modi, lanciandole a mo’ di sfida una provocazione e di fatto fregandola.

“Sai che ti dico?” Aveva esclamato appunto, vibrando del brivido di voluttà assoluta di chi sa di stare lì, lì per metterlo in quel posto al proprio interlocutore. “Se il paragone non regge affatto e la mia educazione è stata un letto di rose rispetto alla tua, allora che ne dici di fare una scommessa?   Ti assicuro cara che sarà una bazzecola per una donna temprata dalle miserie e le durezze della vita come te!”

Aveva aggiunto poi senza specificare più di tanto che, quella che poteva sembrare una gara, era invece un ingrato corso di sopravvivenza. Già e non poteva essere altrimenti, giacché consisteva nel vivere un mese a casa Kaioh in modo da poter sperimentare sulla sua stessa pelle le medesime tecniche formative, mediante le quali lo stuolo di tate, maestre, educatrici e governanti, presiedute da quell’avvoltoio ingrugnito di sua nonna, avevano fatto di Michiru una signora. La posta in palio era diventare in quel breve lasso di tempo una donna di classe. Oltre al fatto di uscirne viva naturalmente.

“Visto che ritieni siano bazzecole che ti costa?” Ne aveva concluso buttando lì, con falsa noncuranza, la sua trappola infernale. Al che, messa così la cosa, pur subodorando l’inghippo, Haruka si era vista praticamente costretta ad accettare. Anzi l’aveva fatto con fierezza, spiegando alto il suo vessillo da amazzone invitta, chiudendo gli occhi e buttandosi incosciente nel baratro.

E detto fatto, l’indomani si era trovata niente po’ po’ di meno che al cospetto del Triunvirato Nero testé riunito da Michiru. La trimurti era composta da sua nonna, la veneranda decana Akiko Kaioh-Sama, dall’istitutrice che l’aveva catechizzata, una che ad Haruka aveva ricordato molto la signora Tsukikage de “Il grande sogno di Maya”, quantunque non fosse cecata e anzi avesse due occhi da falco predatore, cosa che ebbe a scoprire a sue spese successivamente, e infine da Takagi, un’autentica geisha a fine carriera per sopraggiunti limiti d’età e servizio. Un trio che avrebbe dovuto trasformarla in un’autentica gentildonna, ma che piuttosto negli intenti di Michiru sospettava avrebbe dovuto renderle la vita un inferno.

E così era stato in effetti, giacché da quando aveva messo piede nel feudo dei Kaioh quelle arpie non l’avevano mai lasciata in pace. Alternativamente, o tutte e tre insieme olè, presiedevano a quelle che loro chiamavano lezioni, ma che in sostanza somigliavano molto ad un tribunale dell’inquisizione. Così tra arte, poesia, educazione e compagnia bella, avrebbero dovuto renderla ad  un qualcosa di molto simile ad una dama di corte. E visto che Haruka era Haruka aveva accettato senza battere ciglio la competizione e le crudeltà con cui la vessavano con il consueto slancio. Ma già dopo qualche giorno non ne poteva davvero più.

Un esempio? La composizione di quei maledettissimi Haiku. Doveva poetare e per farlo la vecchia la faceva inginocchiare al centro della stanza, ovviamente inguainata in un kimono quanto più fiorato possibile, con l’obi stretto talmente tanto, che si sentiva schizzare fuori le budella dalla gola. Dopodiché, bacchetta minacciosamente stretta in mano, l’ingiungeva di comporre all’impronta, lasciandosi ispirare dalla natura.

“Pensa all’amore.” Diceva la vecchia, spronandola quando il silenzio si faceva prolungato.

“Sì, l’amore ai tempi del colera, brutta puzzona!” Pensava Haruka, giacché la nonnina sparava delle flatulenze micidiali ma, siccome era talmente persuasa della sua nobiltà, era convinta di cacare coriandoli, perciò laddove tanfo c’era, a suo modo di vedere, l’unica imputabile era lei. Ché in quanto plebea poteva essere la sola in quella stanza a produrre olezzi immondi. Sia come sia Haruka non poteva certo ispirarsi a quel tipo di natura per lasciarsi influenzare dalla musa, per cui aveva chiuso gli occhi e ascoltato attenta il rumore della pioggia sulle grondaie. Al che aveva ghignato e colta da ispirazione aveva preso a declamare:

Gocce… gocce… gocce…

Due gocce di pioggia cadono sulla lamiera

Tikke takke, tikke takke

Takke tikke, takke tikke

Alla finestra volto le spalle

Mi si sono rotte le… orecchie

 A questo sfoggio di maestria compositiva, perché la vecchia marpiona aveva inteso benissimo cosa Haruka si fosse rotta, anzi frantumata, in realtà, il cerbero ingrugnito l’aveva lungamente presa a bacchettate sul groppone, smentendo all’istante due false impressioni: che fosse minuta e senza forze, invece picchiava più d’un fabbro, e che una vera dama disdegnasse l’esercizio delle legnate.

Balle, la picchiava notte e giorno come un tamburo, ogni sbaglio era buono per farle una cappotta e lei all’inizio ne aveva fatti tanti di errori accidenti! Ma il picco di perfidia l’aveva raggiunto quando l’aveva malmenata persino dopo la sua rovinosa caduta. Dalle scale? Dallo sgabello? Dalla grazia? Peggio, dagli zori con le zeppe. Diciotto centimetri di tacco, manco fossero gli Armadillo di Alexander Mc Queen, sui quali si pretendeva non solo camminasse, ma ballasse pure. Chiaro che come aveva solo tentato di muovere due passi era caduta a faccia in avanti e s’era pure scheggiata gli incisivi, in quanto le maniche del, sempre maledetto, kimono che aveva addosso erano così strette che non era riuscita a protendere le braccia per attutire il colpo.

Con Takagi la geisha poi le cose erano andate un filino peggio, giacché l’acclamata artista trovava che la sua danza dei ventagli fosse più simile all’adescamento di un travestito. Per non parlare dei vocalizzi improbabili che intonava qualora doveva accompagnarsi con lo shamisen. E aveva voglia Haruka a spiegarle che lei non aveva assolutamente cognizione dei canti tradizionali. Già, l’unica canzone vagamente antica che conosceva era la sigla del Grande Mazinga, perciò le aveva cantata quella, scatenandone le ire funeste. Stesso discorso per quanto riguardava il kabuki, ma lì più che di mancanza d’espressione o mimica, si era trattato di un fraintendimento strutturale, nonché del palesarsi di sentimento autentico. Del resto, che altro avrebbe potuto fare, quando sfinita delle continue sollecitazioni ad esprimere i suoi stati d’animo con la gestualità compita, se non far scattare un braccio e mostrare il dito medio alla donna? Accidenti se non era una manifestazione gestuale di sofferenza quella! Peccato che Takagi non avesse affatto apprezzato, così come la trimurti al completo non gradiva nessuno dei suoi sforzi, ivi compresa la tecnica particolare che usava per darsi il trucco. Beh, lì non poteva dar tanto torto alle tre, giacché più che un make-up si disegnava sulla faccia dei veri e propri Kandinsky. Anche se il capolavoro massimo l’aveva fatto alla menzione del mizuage.

Già, quando infine aveva capito di che diavolo stessero parlando, aveva fatto un commento assai salace sul fatto che, per quanto riguardava Michiru, non c’era stato bisogno di nessuna base d’asta. “Kaioh-Sama”, aveva detto con la faccia da faina, “praticamente me l’ha messa in mano senza che dovessi manco chiedergliela!”

Va da sé che questa chiosa le era costata una gragnola di mazzate più cospicua del solito, ma che cavolo, almeno la soddisfazione di dirle che la sua angelica nipote era una vera zoccola se la doveva togliere! Anche perché quell’infame, dacché l’aveva fatta recludere, non si era affatto peritata di farsi sentire. Di sicuro seguiva i suoi progressi, se tali ottimisticamente li si voleva chiamare, informandosi presso le sue compari, ma con lei manco un fiato.

Ed era stata questo in conclusione, unita alla somma delle umiliazioni e dei limoni amari che le avevano fatto inghiottire fin lì, a far scattare in lei una molla. E il desiderio di rivalsa aveva compiuto il miracolo, tanto che da quel momento in poi aveva chiuso la mente ad ogni se e ma e si era impegnata con tutta sé stessa per riuscire. E stupefatte le tre cesse, quattro se si voleva contare pure Michiru, avevano assistito alla sua straordinaria trasformazione. Ché la rude, irascibile, scalcinata, scortese, sgraziata, sacrilega e mascolina virago che era Haruka si era trasformata in un fiorellino. Oddio, fiorellone casomai, visto che le proporzioni e stazza erano quel che erano e di certo non potevano cambiare, ma ciononostante, addirittura due giorni prima della data pattuita, Haruka era arrivata al traguardo che nessuna di loro aveva mai supposto potesse raggiungere.

Certo si sentiva tanto un trans, ma aveva vinto lei.

Ad ogni modo quella era la sua ultima notte sotto quel tetto e, salvo per l’attacco d’ira estemporanea avuto poco prima, fin qui le era riuscito di tenere a bada la sua contrarietà. Ma ora poteva lasciarla andare ed affermare a chiare lettere che ogni cosa in quella stramaledetta dimora parlava troppo d’un passato di generazioni che avevano assurto, e ancora sbandieravano pretenziosi, un ruolo di casta assai elevato. Ci tenevano da morire a far sfoggio della loro superiorità ed era una gran rottura di palle. E d’accordo che un tempo tra quelle stesse mura aveva vissuto e imperato uno shogun, cosa che da un mese a quella parte le veniva ripetuta ad ogni pie sospinto fino alla nausea, ma c’era un limite a tutto. E la pazienza di Haruka, che mai aveva brillato per copiosità, era allo stremo.

Per cui considerò la posizione a picco sulla città dell’edificio, quasi fosse un tempio pagano ove idolatrare quei dei in terra che si sentivano i Kaioh; ascoltò il sospiro lieve della brezza estiva sembrava lambire, quasi senza toccarli, i merli puntuti del tetto spiovente; immaginò la casa covare su sé stessa al fine di conservare le millenarie tradizioni e, nel silenzio antico e sovrano che vi regnava, facendosi strada attraverso il morbido manto dell’oscurità, infine la sua voce proruppe trionfante.

“Ma vaffanculo!”

Urlò lasciando che i modulii di quel grido riverberassero per la casa. Dopodiché afferrò l’opera immortale di Sei Shonagon, la stessa sulla quale stava sgobbando dacché aveva varcato quelle porte, poiché per fare di lei una vera signora non c’era nulla di meglio che le squisite annotazioni della dama di corte dell’era Heian, e le fece fare un pindarico volo nell’azzurro fino ad esaurirsi con un tonfo acquoso là al centro del giardino. Un tiro mica a caso, anzi. E peccato si trattasse di un’edizione tutt’altro che rara, pensò Haruka ghignando. Già, Kaioh-Sama si era ben guardata da metterle tra le mani un libro che non fosse altro che brossura economica. Lei era una gajin, e ad una mezza giapponese-svedese-americanizzata non si deve rispetto, vero?

Pure, si chiese sorvolando sul classismo di quella megera, chissà se quella carogna vetusta aveva considerato le variabili impreviste e il furore che a lungo aveva fomentato. Forse no, ma in ogni caso, ne concluse, probabilmente le verrà un colpo quando scoprirà che persino un libricino da pochi yen, scagliato con forza in direzione del laghetto, ha ucciso sul colpo una delle sue preferite e pregiatissime carpe!

“Tié e carpe la carpa adesso, brutta befana!” Ridacchiò stagliandosi nel vano della finestra come uno spirito maligno deciso a vendicarsi. “Edmond Dantes mi fa una pippa!” Disse quindi mentre il piano mefistofelico su cui aveva meditato nelle sue notti insonni finalmente prendeva forma. Fece le ultime opportune telefonate, per assicurarsi che tutto fosse pronto, e lieta si congratulò con se stessa perché si stava risolvendo adamantino in tutti i suoi dettagli ed incastri.

“Ahahahahahahahah!!!” Rise sguaiata e sinistra pregustando la dolce vendetta, tremenda vendetta.

Così fu che, all’indomani della sua partenza, le sue aguzzine si ritrovarono incaprettate e completamente abbandonate a loro stesse nell’augusta dimora. La servitù era stata nottetempo congedata, previa una bella mazzetta in contanti, e nessuno poteva udirne gli strilli mentre una branco di babbuini delle montagne devastava tutto. Di più, alcuni si spinsero pure a far alle tre delle spudorate avance sessuali.

Del resto Haruka aveva provveduto apposta a cospargerle abbondantemente di miele perché ciò avvenisse. Quanto alle bestie, era da un bel pezzo che ne aveva concordato l’arrivo, facendone arrivare una partita direttamente dalle foreste thailandesi. Perché si sa, quando sei una stella dell’automobilismo, pagata molto di più di quanto potresti spendere normalmente, qualche sfizio te lo puoi togliere. Soprattutto se hai una madre girovaga, hippie e pulciosa che si ritrova agganci e maniglie particolari in ogni parte del globo.  

Quanto a Michiru… beh, considerato il concorso di colpa, Haruka poteva permettersi di essere un po’ più indulgente. All’apparenza naturalmente, giacché una tortura psicologica è molto più fine di una fisica. Per cui, visto che per una femmina gelosa non c’è niente di peggio che il sospetto del tradimento, quello le avrebbe servito. Ma solo il sospetto… ahah!

Così, mentre sfrecciava sulla sua cabriolet lungo la strada costiera, attivò l’auricolare e la chiamò.

“Pronto tesoro? Bene, bene. Sì poi ti fai raccontare da tua nonna… sempre che riesca ad arrivare al telefono beninteso… niente, niente, poi capirai… No, non torno per il momento. Perché? Ho deciso di restare a Kyoto… no, non è una vacanza… sai cosa amore? Sono riuscita talmente bene come  maiko che ho deciso di entrare in una okiya per diventare una geisha professionista… su, su non fare così! Avevi proprio ragione comunque eh? E’ dura diventare una signora, ma finalmente lo sono anch’io… Michi, ma che razza di modo di esprimersi è questo? Via, una gentildonna non si esprime così e, perdona il termine, puttana lo dici a tua sorella… beh comunque piantala di urlare, perché tanto adesso ti devo salutare… ma prima lascia che ti dedichi un haiku:

 

Nella campagna vado lontano

Mentre tra i fiori cresce giallo il grano

A te penso ascoltando il cuculo

Cara Michiru ora te lo pigli in…

 

“Ciao amore, un bacio!” Concluse mentre l’altra la riempiva di improperi e maledizioni in modo assai poco femmineo.

 

 

N.d.A.

Forse ho esagerato.

Forse non si può mettere alla berlina così Memorie di una geisha, Le note del Guanciale e My fair lady. Eppure, quale che sia il risultato, gradimento o ingiurie, mi sono divertita davvero tanto! :D  

 

 

       

 

 

 

   
 
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