Lei, il mare e la seppia di Pichichi (/viewuser.php?uid=79680)
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-Non sta andando niente affatto
male, vero?-
Sebbene
stessi cercando di mascherare il mio disagio da più di due
ore, credevo che
chiunque guardandomi bene in faccia avrebbe potuto capire che
l’unica cosa che
desideravo era andarmene via, il più lontano possibile da
quel posto. Feci un
sorriso assolutamente falso alla mia amica, ma lei era troppo presa
dalla
contemplazione del posto per accorgersi del mio umore.
-No, per niente-
Feci
un piccolo sospiro e preferii, piuttosto che ascoltare le chiacchiere
delle
altre ragazze, dedicarmi a far ruotare il liquido all’interno
del calice.
Da
un punto di vista oggettivo, non avrei certo potuto lamentarmi: il
ristorante
che era stato prescelto per trascorrere il Ferragosto era uno dei
più rinomati
e frequentati della costa; era abbastanza grande da ospitare tutti gli
amici,
ma al contempo garantiva un’atmosfera raccolta e familiare;
le pareti
verniciate da un arancione delicato bastavano inoltre per assicurare la
mia
approvazione. Un altro punto a favore del posto era la vicinanza col
mare,
cosicché dopo un’abbondante mangiata avremmo
potuto trasferirci sulla spiaggia,
e se per entrare in acqua ci sarebbe stato da aspettare, almeno ci
saremmo
goduti il paesaggio.
Più
che la festa di compleanno di Andrea, sembrava la rimpatriata di un
vecchio
gruppo di surfisti, a giudicare da come eravamo vestiti.
Neanche
lo avessimo fatto apposta, portavamo tutti dei pantaloncini che non
oltrepassavano
il ginocchio e canottiere molto scollate. Da sotto gli indumenti
spuntavano i
lacci di costumi colorati, segno che avevamo deciso di trascorrere
l’intera
giornata in spiaggia. Non che avessi niente in contrario a questo,
anzi, ma la
compagnia che dovevamo sopportare non mi andava proprio a genio.
Per
evitare l’inconveniente di restare insieme a persone che non
conoscevo nemmeno
di vista, mi ero portata appresso due amici. Ironia della sorte,
sembrava che
loro due avessero trovato scopi molto più divertenti a cui
dedicarsi, piuttosto
che darmi retta.
Sebastiano
aveva scelto, per arginare la noia a cui sarebbe stato sottoposto, di
portarsi
dietro la canna da pesca e il barattolo dei vermi, così da
poter trascorrere il
pomeriggio seduto su uno scoglio a lanciare l’amo nella
speranza di pescare
qualcosa.
Inutile
dire che la scoperta del barattolo di vermi nella tasca del costume di
Sebastiano aveva prodotto cinque buoni minuti di urla disgustate da
parte di Sonia,
la quale per il resto della giornata non aveva voluto più
avvicinarsi a lui.
Sebastiano, che con l’ausilio della luce del sole sembrava un
vero e proprio
marocchino, aveva trovato fra gli amici di Andrea numerosi figli di
papà
affascinati dalla sua pseudo competenza nel campo della pesca, e ora se
ne
stava dritto sulla sedia, tutto orgoglioso di poter spiegare come fare
a
prendere i pesci più grossi.
A
me, osservandolo, veniva da ridere: l’unica volta in cui si
era cimentato con
costanza nella pesca, e cioè un paio di giorni
all’inizio di Agosto, era stato
capace di rimanere dalle sei della mattina, ora in cui la spiaggia
è libera e i
pesci abboccano meglio, fino alle otto della sera con la canna in mano,
una
scatola di esche appena comprate e un secchio per raccogliere le ignare
prede;
a fine giornata era tornato imbronciato e deluso, portando un secchio
riempito
di acqua salata nel quale si agitavano cinque pesciolini della
lunghezza di
undici centimetri; per non offenderlo, per gratificare il suo orgoglio
e
rendere omaggio allo sforzo, li avevamo fritti e ce li eravamo
mangiati.
Non
si poteva quindi definire il miglior pescatore della zona, ma quegli
idioti lo
stavano a sentire e a me faceva piacere che lui si vantasse di fronte
ad
Andrea, che nel pomeriggio avrebbe certamente cercato di emularlo.
-Ci sei?-
Sonia
mi sventolò una mano davanti agli occhi, dato che da
più di un minuto osservavo
il tavolo dei ragazzi con interesse.
-Sì, ci sono- dissi tornando a
guardare il menu.
-A che pensi?- mi domandò.
Era
incredibile che non si accorgesse di quanto mi annoiassi a stare
lì e fosse al
contempo capace di cogliere la minima sfumatura di
“pensosità” nel mio sguardo.
-A niente, guardavo Sebastiano pavoneggiarsi-
risposi con un sorriso.
-Ma quanto è bello quello biondo,
mamma mia...- mormorò lei, voltandosi a guardarlo.
Mi
ero giocata l’altro diversivo per evitare una giornata noiosa
circa a metà
mattinata, quando sulla spiaggia aveva fatto la sua comparsa il gruppo
di amici
di Andrea, con relativo capobanda.
Fino
a quel momento la giornata era andata abbastanza bene, considerando che
Sebastiano se ne stava sdraiato al sole per abbronzarsi, con
l’intento di
acquisire l’etnia di un cittadino del Marocco, e noi due
passavamo il tempo ad
interrogarci su come avevano potuto eliminare la nostra modella
preferita in un
reality show.
Poi
comparvero quei ragazzi, e sia io che Sonia ci giocammo la giornata.
Lei
era stata catturata in particolare dal fisico di un ragazzo alto e
biondo,
dalla pelle chiara e gli occhi verdi, che per quanto ne sapevo io
faceva il
cameriere in un famoso ristorante costiero.
Inutile
dire che da quel momento lei non aveva avuto occhi che per lui, ed io
non avevo
più avuto nessuno con cui commentare quanto fosse
palesemente truccato quel
programma.
Per
quei motivi ora mi trovavo sola, perduta nella noia e intrappolata fra
le due
amiche di Andrea che spettegolavano su questioni che non
m’interessavano.
-Io ho scelto- annunciai alle altre,
e chiusi il menu per catturare l’attenzione del cameriere.
-Sì, anche noi- mi sorrise Andrea,
dall’altro tavolo, posto accanto al nostro.
Ora,
io non volevo sembrare maleducata, ma non mi riusciva proprio di
replicare al
suo sorriso con altrettanto entusiasmo. Feci una smorfia che
più che
contentezza esprimeva dolore, secondo me. Per fortuna lui non parve
accorgersene e tornò a chiacchierare con i suoi amici,
attendendo il cameriere.
-Bene, vi serviamo subito gli
antipasti-
Dopo
aver preso le ordinazioni di tutti il cameriere si allontanò
verso la cucina, e
dopo non molto tempo ci vennero serviti su dei piattini bruschette col
pomodoro, piccoli panini ripieni di olive e acciughe immerse
nell’olio.
Mentre
mi accingevo a prelevare un po’ di queste ultime prima che le
ragazze me le
soffiassero, Andrea si rivolse a me dall’altro tavolo.
-Quest’anno avete partecipato al
raduno dei windsurf?-
Io
masticai il boccone prima di rispondere, e mi stupii di tanto interesse
nei
miei confronti. Probabilmente, pensai, la sua voleva essere una domanda
carina,
per mettermi a mio agio.
-In realtà è Sebastiano che ha
gareggiato, io e Sonia gli abbiamo solo fatto il tifo-
-Sai windsurfare?- domandò Simone,
il ragazzo di cui Sonia si era infatuata.
-Sì- rispose lui, tutto contento di
potersi vantare di un’altra abilità.
Io
detestavo tutti e tre i ragazzi, sia Andrea che Simone che Luca, e
perciò ero
ben felice che si sentissero in qualche modo in difetto di fronte al
mio amico.
Qui
non c’erano campi da golf o da rugby su cui potessero provare
la loro
superiorità maschile, bisognava purtroppo arrangiarsi col
mare, o al massimo
con un campetto delimitato da quattro pali incastrati nella sabbia.
-Ed è anche bravo. L’anno scorso
è
arrivato decimo- aggiunse Sonia, sorridendogli con
complicità.
In
realtà Sebastiano si era classificato ufficialmente come
quindicesimo, ma quei
tre che potevano saperne? D’altronde, venivano qui poche
volte all’anno,
solitamente durante le festività natalizie, pasquali e nel
periodo estivo;
Andrea scendeva con la sua fidanzata e portava con sé i due
amici, per
compagnia.
-Be’, nemmeno tu te la cavi male-
Percepii
chiaramente il mio cuore mancare un battito a quelle parole, e
probabilmente le
mie guance divennero rosse per la vergogna; per dissimulare il mio
imbarazzo mi
affrettai a mandare giù altro vino, e fortunatamente nessuno
lo notò.
-Non esagerare, è già tanto se sto
in piedi sulla tavola-
Sonia,
che mi aveva immediatamente guardato negli occhi e che sicuramente
aveva colto
il mio imbarazzo, si affrettò a depistare
l’attenzione degli altri raccontando
la nostra esperienza come windsurfiste, iniziata e conclusasi piuttosto
in
fretta.
L’adorai
per quel gesto carino nei miei confronti, perché nel momento
in cui tutti
furono distratti dalle sue parole potei dare una lunga ed eloquente
occhiata
alla ragazza seduta di fronte a me, fra Sonia ed Andrea.
Mi
ero categoricamente imposta per tutta la durata del pranzo di guardare
da ogni
parte fuorché nella sua direzione, perché
conoscevo il mio livello di
resistenza e probabilmente questo sarebbe crollato in fretta.
Lei,
da parte sua, non fece alcun movimento strano o azzardato, limitandosi
a
piantare i suoi occhi celesti nei miei verdi. Mi era molto difficile
trattenere
tutto quello che mi passava per la testa, ma lei nemmeno mi aiutava,
col suo
abbigliamento: i capelli biondo scuro lunghi oltre le spalle, e
sistemati con
una riga laterale, risentivano ancora dell’acqua salata del
mare che li
increspava in un modo delizioso; la canottiera nera creava un piacevole
contrasto con la sua pelle chiarissima e non dava modo di indovinare su
cosa
potesse celarsi al di sotto di essa, ma in compenso le arrivava poco
sopra
l’ombelico, cosicché stando in piedi avrebbe
potuto fare mostra del suo ventre
liscio e magro; per completare il quadro, un paio di pantaloncini
bianchi del
tutto inconsistenti e provocanti, specie se portati sopra un costume
nero.
Insomma,
sembrava in tutto e per tutto una sfida al mio autocontrollo.
Forse
il mio minuto di contemplazione si prolungò troppo a lungo,
perché mi arrivò un
calcio sullo stinco, e a giudicare dalla potenza impiegata doveva
essere stata
Sonia, che come me giocava a pallone.
Nell’esternare
il mio disprezzo verso Andrea, non avevo preso in considerazione il
motivo più
importante, quello per cui lo ritenevo la creatura più
ripugnante dell’intero
pianeta: oltre ad essere uno spocchioso figlio di papà,
oltre alla sua mania di
ricordare ogni due per tre quanto difficile fosse stato il suo esame di
odontoiatria e come lui nonostante ciò fosse riuscito a
superarlo, oltre alla
sua fede milanista che lo classificava immediatamente come un essere da
non
prendere in considerazione, lui era il fidanzato della ragazza seduta
di fronte
a me e della quale io, ovviamente, ero innamorata.
C’era
voluto un po’ di tempo perché potessi accettare
quest’ultima parola, eppure non
avevo trovato altro modo di definire il rapporto che mi legava a lei,
che mi
impediva perfino di considerare le proposte di altre ragazze
discretamente
gradevoli.
L’avevo
definita come una specie di calamita, che mi attirava con una forza
magnetica
superiore addirittura alla resistenza orgogliosa che facevo,
cosicché mi
ritrovavo spesso a gironzolarle attorno come un cagnolino scodinzolante
e in
attesa del suo osso succulento.
Le
cose avrebbero potuto essere anche più semplici, se lei non
fosse stata la
fidanzata di Andrea, se non fosse stata la migliore amica per la quale
in tanti
anni non avevo provato altro che affetto e se non avesse ricambiato i
miei
sentimenti.
Invece
lei, con mia estrema sorpresa e incredulità, aveva accettato
di buon grado il
mio affetto speciale, e mi aveva dato momenti di grande
felicità per i quali
avrei potuto sopportare tutti gli sproloqui di Andrea.
Il
problema stava nella sua incapacità di affrontare la
realtà che stavamo
vivendo, nell’interrompere la relazione con Andrea e nelle
nostre frequenti
litigate.
Prima
di entrare in questa situazione a dir poco cinematografica, i nostri
caratteri
si mantenevano su due piani completamente opposti, ma forse proprio a
causa di
questo ci trovavamo bene stando insieme; da quando il nostro rapporto
era
sfociato in quell’assurda situazione, complici la tensione,
la paura di essere
scoperte, il tempo sempre più rado che potevamo trascorrere
assieme, le nostre
divergenze si erano amplificate.
Lei
era diventata più tesa e irritabile, tanto da arrabbiarsi
per ogni minima cosa
dando sfogo alla sua indole altamente infiammabile, mentre io in
risposta ai suoi
sbalzi di umore diventavo più fredda, quasi indifferente e
ribattevo col
sarcasmo gratuito.
Non
poche volte, a dir la verità, eravamo arrivate a litigare
urlandoci addosso di
tutto, promettendoci di non rivederci mai più e dimenticare
l’esistenza
dell’altra, per poi trovarci a quel tavolo, l’una
di fronte all’altra, entrambe
con gli occhi bassi e sfuggenti e la paura mista al nervosismo che ci
faceva
comportare quasi come due estranee.
Poteva
l’amore rovinare in quel modo un’amicizia
bellissima?
Era
questa la domanda che mi ronzava per la testa in quel momento, ma le
mie
elucubrazioni furono interrotte bruscamente dall’arrivo della
prima portata.
Forse
i miei pensieri ingarbugliati condizionavano più di quel che
credessi le mie
azioni, perché sembrava proprio che il piatto di spaghetti
al nero di seppia
fosse lo specchio del mio stato d’animo: contorto, confuso e
pessimista.
Detto
ciò, bisognava ammettere che erano buonissimi. Nessuno degli
altri prediligeva
quel primo, perché avevano deviato le loro preferenze sulle
cozze e le acciughe
al pomodoro. Personalmente mi piaceva l’idea che quegli
spaghetti
impiastricciati di nero e così poco gradevoli alla vista
fossero in realtà
deliziosi.
Per
un po’ nessuno parlò, poiché eravamo
tutti impegnati a consumare il pranzo con
soddisfazione. Involontariamente i miei occhi si posarono sul suo
piatto e
sorrisi della sua difficoltà di estrarre le cozze dal
guscio. Stava cercando di
farlo senza utilizzare le mani, in modo da non risultare troppo
grossolana, al
pari delle amiche di Andrea. Teneva il coltello in una mano e la
forchetta
nell’altra, cercando di estrarre il mollusco, ma non ci
riusciva.
Anche
questa volta mi dilungai troppo nella mia contemplazione,
perché mi arrivò un
nuovo calcio da sotto il tavolo.
-Ahio!- stavolta non vi ero
preparata ed inoltre Sonia aveva centrato un preciso punto della tibia
che già
mi doleva in precedenza.
Lei,
per dissimulare il significato di quel gesto, finse di allungarsi per
prendere
un piattino.
-Scusa, non volevo...- mi sorrise, e
io di quel sorriso non colsi né allegria né
dispiacere, ma un severo monito.
Per
questo tornai a concentrarmi sui miei spaghetti a testa bassa, cercando
di non
pensare troppo.
-Sei ancora lì? Ne hai aperte solo
due o tre...- commentò Andrea rivolgendosi a lei.
-Non ci riesco...- rispose lei con
una mezza risata.
-Sei troppo lenta, una vera lumaca.
Quando usciamo insieme devo venire sotto casa sua mezz’ora
dopo, per non dover
aspettare tutto il tempo fuori-
Lo
guardai con crudele compassione. Sì, lo compativo,
perché non riusciva affatto
a comprendere la bellezza che si trovava fra le mani e di cui
– povero idiota –
credeva di essere il padrone.
La
osservai stirare le labbra in un sorriso tirato, per farlo vincere
ancora una
volta. Non capivo affatto la sua passività, il suo
comportarsi da perfetta
fidanzatina. Fingeva per accontentarlo, eppure lo sapevamo tutti che
non le si
confaceva affatto quell’atteggiamento, sapevamo che se fosse
stata libera di
dire la sua si sarebbe fatta valere. Con me si comportava
così, almeno.
Di
nuovo mi guardò dritta negli occhi per un nanosecondo di
complicità, e poi
tornò a dedicarsi al suo piatto, scegliendo di mangiare la
pasta e lasciare per
ultimi i molluschi.
Com’era
stupido quel ragazzo, pensai spontaneamente, trattenendomi per non
sorridere
alla vista del modo in cui spostava i gusci neri da parte e avvolgeva
gli
spaghetti.
Io,
al contrario di Andrea, adoravo la delicatezza e la cura con cui
compiva anche
i più piccoli gesti, il modo educato di non strafogarsi di
cibo, la
meticolosità nello scegliere un vestito e acconciarsi i
capelli, anche nel suo
modo di masticare vedevo una certa raffinatezza.
Ogni
suo gesto trasudava eleganza e nonostante fosse vestita di una semplice
canottiera e un paio di shorts bianchi, avesse i capelli tenuti fermi
da un singolo
ferretto, risultava molto più bella delle altre ragazze,
benché queste
portassero collane, bracciali e costumi ricercati.
La
semplicità era una delle caratteristiche che più
mi piacevano della sua
persona. Mi accorsi di essere rimasta con lo sguardo perduto sui suoi
lineamenti e mi stupii di come Sonia non mi avesse richiamato.
Tornando
ad interessarmi della conversazione in atto, capii il motivo della
distrazione
della mia amica: Simone si stava versando da bere e nel frattempo
raccontava
della sua esperienza come cameriere.
-C’era una signora di mezza età
seduta al tavolo con delle amiche- stava raccontando –e
trovava tutte le scuse
possibili per trattenermi... credo si sarebbe versata il vino addosso
da sola,
purché poi fossi io a ripulirla-
Sonia
rise forzatamente assieme agli altri ragazzi, e per questo ne
approfittai per
prendermi una rivincita e darle un’occhiata eloquente:
detestavo quando si
comportava in modo così frivolo!
-Oh, non mi vanno tutte. Chi ne
vuole un po’?-
Lei
smise di armeggiare con le posate e mise il piatto in bella vista
perché uno di
noi terminasse le poche cozze che erano rimaste.
Stupendomi
del mio tono del tutto naturale e privo di qualsiasi artificio,
anticipai le
due ragazze sedute accanto a me allungando le mani per prendere il
piatto.
-Dai ti aiuto io-
Sicuramente
nessuno di loro avrebbe potuto immaginare che lei avesse solo cercato
una scusa
per potermi parlare, e che io non aspettassi altro che un modo per
poterla
sfiorare fisicamente.
In
tempi reali impiegai meno di cinque secondi a prelevare i molluschi dal
suo
piatto e restituirglielo, ma nella mia concezione del tempo il momento
in cui
le sfiorai leggermente gli avambracci e le mani durò
un’eternità.
Dopodiché,
disinteressandoci della conversazione, ci guardammo nuovamente e mi
sembrò di
cogliere nel suo sguardo un certo rimprovero, come se avessi fatto
qualcosa di
male.
Allora
tentai di comunicarle il mio smarrimento aggrottando leggermente la
fronte, ma
lei rispose distogliendo lo sguardo e facendo un lieve gesto con la
mano che
volevano significare: parliamo dopo.
Possibile
che non fossimo nemmeno arrivati al secondo e già fossi in
ansia a causa sua?
Nel
frattempo pulendomi le labbra mi accorsi di averle tutte macchiate col
nero di
seppia, e per questo mi alzai dal tavolo per recarmi in bagno.
Il
ristorante non era molto grande e poteva ospitare al massimo una
cinquantina di
persone, ma quel bagno era veramente straordinario: spazioso, con
vetrate
colorate che lasciavano entrare grandi quantità di luce
dall’esterno,
piastrellato di un bel colore tenue e decorato con fantasie tipicamente
marittime. Mi piacevano i bagni enormi e provvisti di uno specchio
lungo tutta
la parete, oltre che di una serie di lavandini perfettamente
funzionanti.
Cominciai
a sciacquarmi la bocca per bene in modo che il nero venisse via e poi
mi
sistemai i capelli e lo scollo della canottiera.
Avrei
voluto gettarmi subito in acqua a causa del caldo soffocante,
amplificato poi
dal fatto di dover essere rinchiusi in una sala assieme a tante
persone,
costretta ad indossare dei pantaloncini verde militare e delle scarpe
chiuse.
Avvertivo chiaramente il tessuto sintetico del mio costume appiccicarsi
alla
pelle.
Prima
che potessi uscire dal bagno, la porta si aprì. Il mio cuore
fece un salto di
dimensioni spropositate, credendo che fosse lei, perciò
subì una brusca
delusione quando scoprì trattarsi di Sonia.
-Che c’è? Non sono bellissima,
d’accordo, ma non c’è bisogno di fare
quella faccia!- commentò per farmi
ridere.
-La devi smettere di tirarmi calci,
mi hai fatto male-
-Tu continui a fissarla, non è colpa
mia! Vaglielo a spiegare ad Andrea che stavi esaminando la sua
acconciatura!-
Io
risi divertita del suo sarcasmo e grata per avermi ricordato che dovevo
trattenermi.
-Capirai- replicai – non si
accorgerebbe di niente-
Sonia
scosse la testa mentre si asciugava le mani.
-Va bene che è talmente pieno di sé
da non interessarsi di nient’altro, ma se non stai attenta se
ne accorgerà. E
poi saranno cazzi amari-
-Hai ragione-
-Parlando di altro, ho scoperto che
il ristorante in cui lavora è lo stesso in cui lavora mio
cugino!- mi comunicò.
-In cui lavora chi?- domandai.
-Simone!-
Mi
ero un momento disinteressata del suo discorso, così quando
capii di chi si
stava parlando storsi il naso come disgustata.
-Il più carino è il terzo, quello
coi capelli neri! Quello lì è proprio brutto!-
-Ma che vuoi capirne tu?-
-Si fa le sopracciglia. Ho detto
tutto-
Lei
rise con me e tornammo a sederci al tavolo, per scoprire che era
arrivata la
seconda portata.
Avevamo
ordinato due orate a dir poco gigantesche, in modo da dividercele in
eque
parti.
Il
pesce era davvero buonissimo, specie accompagnato con le patate che ci
avevano
portato, e nuovamente tutti quanti, troppo occupati ad usare la bocca
per
mangiare, evitammo di fare commenti.
Una
spina lunga e sottile mi aveva pizzicato la guancia e per questo stavo
cercando
di sfilarmela. Ero particolarmente concentrata su questo gesto per cui
non mi
resi subito conto che c’era un ginocchio che sfiorava quasi
impercettibilmente il
mio, sotto il tavolo.
Credendo
fosse ancora opera di Sonia guardai la mia amica con aria
interrogativa, prima
di accorgermi che non era stata lei.
Tornai
a mangiare la mia porzione senza badarvi più di tanto, e a
quanto pareva il suo
era stato un gesto casuale, perché non si ripeté
più.
Andrea
scelse proprio il momento sbagliato per allungare un braccio sulla sua
spalla e
darle un bacio sulla guancia, cosa che fece salire in me una rabbia
indicibile.
Fu come se la spina che avevo rimosso poco prima fosse rimasta
incastrata nella
gola, per quanto mi dava fastidio quella scena.
Sentii
un impellente bisogno di fare qualcosa, di ricordarle che ero proprio
davanti a
lei, per non dover ingoiare quel boccone amaro senza
possibilità di dire la
mia.
Sistemandomi
meglio sulla sedia riuscii a fare in modo che le nostre gambe si
sfiorassero in
un gesto apparentemente casuale.
Dapprima
nemmeno lei se ne accorse, ma ad un certo punto la vidi abbassare e poi
alzare
verso di me lo sguardo, per chiedere spiegazioni.
Oh,
se avessi potuto avrei gridato a squarciagola come il mio unico
desiderio fosse
rimanere da sola con lei!
Andrea
continuava imperterrito, quasi lo facesse apposta, a parlottare con lei
in modo
affettuoso, e io come per protestare proseguii nel mio tentativo di
infastidirla.
Lei
comprese la situazione ed ebbi l’impressione che volesse
tirarmi un calcio da
sotto il tavolo, ma continuò ad ascoltare quel che le diceva
il fidanzato con
sempre minore interesse.
Forse
perché mi sentivo del tutto impotente e trascurata in quel
momento, o perché
non sopportavo che Andrea pomiciasse con lei a quel modo, poggiai un
gomito sul
tavolo e con l’altra mano provai ad accarezzarle il
ginocchio.
Con
mio sommo divertimento non appena venni a contatto con la sua pelle
liscia
quasi sobbalzò e mi lanciò un’occhiata
poco amichevole, come a dire: smettila
subito.
Io
nascosi un sorriso beffardo e sadico dietro la mano e la osservai
arrossire.
Quel
dettaglio mi provocò una tremenda scarica di adrenalina,
perché non era causato
dalle attenzioni che le stava riservando Andrea, ma dal mio movimento
ed essere
consapevole di averla fatta arrossire mi conferì
un’espressione vittoriosa.
-Scusate-
Scegliendo
una via diplomatica per uscire dalla situazione, lei scansò
Andrea con una mano
e si fece spazio per alzarsi dalla sedia e recarsi in bagno. Nel farlo
mi
guardò in un modo che non mi piacque per nulla. Feci un
sospiro impercettibile,
mentre seguivo con gli occhi la sua sagoma sparire dietro la porta
della
toilette. Probabilmente l’avevo fatta arrabbiare.
Ciononostante,
ero stata costretta a farlo per non cadere sconfitta di fronte a
quell’essere
che ora stava pigramente adagiato sulla sedia e faceva battute sconce
con i
suoi amici. Colsi l’espressione annoiata di Sebastiano e gli
sorrisi, grata per
aver fatto lo sforzo di integrarsi in una compagnia di cui non gliene
fregava niente.
Prima
di mangiare il gelato i ragazzi si alzarono da tavola per andare a
fumare, e
siccome Sonia era corsa al loro seguito per cercare di scoprire altri
dettagli
su Simone, mi trovai libera da ogni impiccio e potei a mia volta
alzarmi, per
recarmi in bagno.
Lei
si stava sciacquando la faccia e quando mi vide subito mise su
un’espressione
dura e irritata, e seppi che stava per arrivarmi una lavata di capo.
-Sei un’idiota!- cominciò, gettando
i fazzoletti nel bidone dei rifiuti – Cosa ti salta in mente?-
Roteai
gli occhi per aver sentito quell’incipit decine di volte e
risposi:
-Non mi salta in mente niente, mi
dava fastidio...-
-Sì ma a te non dovrebbe dare
fastidio!- replicò lei, incrociando le braccia al petto.
Da
quel gesto capii che non era affatto intenzionata a lasciar correre e
che se
l’era presa sul serio.
-Cosa vuoi che faccia, che me ne
stia lì a guardarvi? Scusa tanto, non ci penso nemmeno...
non so nemmeno perché
sono venuta qui oggi, a rompermi le palle!- risposi,stringendomi nelle
spalle.
-Be’ per quanto mi riguarda potevi
anche startene a casa! In effetti sarebbe stato meglio per tutti, tu
non dovevi
esserci!-
-Ma se mi hai invitato tu, cosa
dici!-
Era
solo quello il motivo per cui avevo accettato di trascorrere il
Ferragosto lì,
perché me l’aveva chiesto lei con molta
gentilezza; e d’altronde come avrei
potuto dirle di no?
Sarei
stata capace di sopportare centinaia di pranzi con tutti gli amici di
Andrea,
se fosse stata lei a chiedermelo.
Risentita
perché effettivamente non poteva scampare a
quell’affermazione prese fiato e
poi, con forza ancora maggiore come per voler sostenere ciò
che diceva, disse:
-Guarda, ti odio! Non fare mai più
una cosa del genere, non ti azzardare!-
-Il fatto è che ti dà fastidio che
abbia ragione, tutto qui...-
-Non è vero!-
-Come non è vero, è sempre stato
così, vuoi forse dirmi che avresti preferito startene
appiccicata a quello lì?-
Più
io cercavo di mantenere un tono basso e mi affidavo alle frecciatine,
più lei
andava su tutte le furie e alzava la voce.
-Non parlare così di lui!-
-Io parlo come mi pare e piace-
-Ti detesto quando fai la persona
immatura-
-E io invece detesto vederti assieme
a lui!-
Ecco,
l’avevo detto. Tutto d’un fiato, proprio quando non
se l’aspettava, l’avevo
tirato fuori velocemente sperando che così fosse meno
doloroso.
Lei
rimase un momento spiazzata e forse stupita di quella mia inaspettata
ed
esplicita ammissione, ma cercò di riprendersi subito.
-Sarebbe il mio fidanzato-
-Tu non lo ami-
L’avevo
detto evitando accuratamente di guardarla in faccia e preferendo
osservare le
piastrelle di quel fantastico bagno, tenendo sulle labbra un sorriso
strafottente.
Mi
aggrappavo a quella convinzione con tutta me stessa, me la ripetevo
all’infinito quando la mia sicurezza vacillava, quando lei mi
mandava a quel
paese e minacciava di chiudere per sempre ogni legame, in balia dei
suoi sbalzi
d’umore. Non pretendevo di essere io l’oggetto del
suo amore, non aspiravo a
diventare per lei ciò che lei era per me, però mi
auto-convincevo che Andrea
non fosse affatto il suo fidanzato, che lei ci stesse assieme per
convenienza,
per il sesso, per gioco.
Gioivo
immensamente quando mi raccontava quanto a tratti lo detestasse, ma
dentro di
me non volevo che lo lasciasse.
Avevo
paura che lei, dovendo fare una scelta libera da queste complicazioni,
mi
mettesse da parte. Questo non l’avrei mai sopportato, quindi
preferivo starmene
in un angolo ad aspettare che lei mi permettesse di venirle vicino.
Più volte
mi era stato fatto notare come questo comportamento non fosse affatto
coerente
col mio modo di agire e di pensare, eppure non riuscivo proprio ad
allontanarmi
da lei.
Ci
avevo provato, ma ero stata male come non mi era mai successo per
nessun altra
o altro che fosse. La mia malattia aveva capelli biondi e in quel
momento mi
guardava con uno strano sguardo, quasi sospettoso. Io sapevo cosa
volevano
significare quegli occhi celesti leggermente socchiusi: non voleva
continuare a
portare avanti una colossale bugia, cioè quella di amare
Andrea, ma nemmeno era
capace di illudermi.
A
volte si presentava alla mia mente il pensiero terrificante che lei mi
considerasse nient’altro che la sua migliore amica, che i
baci e le carezze non
avessero per lei lo stesso significato che avevano per me, che mi
volesse bene ma
non con la mia stessa intensità.
Quel
pensiero era angosciante e per quanto tentassi di scacciarlo a forza
dalla mia
testa questo tornava sempre prepotentemente in primo piano. Non potevo
costringerla, non era nei miei desideri, ma allo stesso modo non ero
abituata
ad arrivare seconda, a perdere, a vedermi soffiare il premio da sotto
il naso.
Purtroppo
in quel caso non avrei potuto farci nulla, non c’era nulla di
sbagliato in lei,
se non ricambiava i miei sentimenti.
-Non stiamo parlando di lui, ora- disse
lei, cercando di riacquistare il comando della discussione –
il problema è che
tu non puoi fare in questo modo-
-Cioè?-
Si
era un po’ calmata e a giudicare da come si muoveva non era
più tanto sicura
delle sue affermazioni.
-Non puoi fare così, lo sai che mi
fa arrabbiare-
-Anche tu mi fai arrabbiare-
replicai – è così palese che ti
piacerebbe essere da qualsiasi parte meno che
con lui-
-Bene, io sono arrabbiata con te e
tu con me. Non c’è niente da dire-
Distolse
lo sguardo per far capire che la discussione terminava lì, e
a giudicare dal
modo in cui aveva stretto le labbra si era dovuta trattenere per non
aggiungere
altro e non arrabbiarsi eccessivamente con me. L’idea che si
sentisse in dovere
di controllarsi di fronte a me, di mostrarsi tranquilla ed equilibrata
come
invece non era, non mi piacque affatto.
Così
quando cercò di sorpassarmi per tornare nel salone, la tenni ferma per un braccio e
domandai:
-Ma perché no? Perché se lui
può
farlo io no?-
-Perché a me di lui non me ne frega
niente!-
Lei
reagì d’istinto, com’era prevedibile, e
poco ci mancò che non mi tirasse uno
schiaffo. Quando si arrabbiava diventava rossa come un papavero, e su
di lei
che aveva la pelle chiarissima quel colore faceva un effetto curioso.
-Pensa se ci lasciamo. Bene, chi se
ne frega, è andata male!- spiegò, spintonandomi
via.
-E allora?-
Stavolta
prima di rispondere esitò e quando parlò
preferì osservare la fila di lavandini
piuttosto che il mio volto.
-Pensa se invece noi due ci mettiamo
insieme e poi ci lasciamo. Non ci parleremo più. Io non
voglio che accada...-
Anche
io persi di colpo tutta la sicurezza e mi limitai a domandare:
-Perché dovremmo lasciarci?-
Nella
mia testa una simile opzione non era stata nemmeno concepita, per
quanto
effettivamente probabile fosse.
Lei
riprese coraggio e il suo solito tono spavaldo.
Alzò
la testa e rispose:
-Perché litighiamo sempre!-
-Che razza di risposta sarebbe?-
-Lo vedi anche tu, ogni tot
litighiamo e sempre per la stessa questione...-
-Sei tu che ti arrabbi per ogni
minima cosa!-
-Oh, guarda caso mi arrabbio sempre
con te!-
Era
vero, litigavamo molto spesso e per questioni che alla fine non
ricordavamo
nemmeno per quanto erano futili, ma a me non importava per niente.
Anche se
provavo ad offendermi per ciò che mi diceva, non riuscivo a
tenere in piedi la
farsa neanche per un giorno: dovevo assolutamente chiederle scusa,
perché non
sopportavo l’idea di non parlarle. Anche se avevo ragione, e
anche se il mio
orgoglio ne usciva umiliato grandemente, non m’importava un
fico secco.
Ero
come un elastico: più lei cercava o faceva finta di
allontanarmi, più io venivo
attirata da una forza incredibile verso il punto di partenza.
Più lei mi
trattava male, più quell’attrazione spontanea
cresceva.
Lei
si stava arrabbiando perché sosteneva che non avessi alcun
diritto a
contraddirla, cosa che mi parve molto stupida. Alla fine,
poiché come sempre
accadeva da un preciso argomento scivolavamo in questioni
più futili, mi stufai
delle sue chiacchiere e chiusi la discussione come sempre facevo in
quei casi:
-Senti, a me non me ne frega niente
di chi ha ragione o chi ha torto, l’unica cosa che voglio
è stare con te, lo
capisci?-
Era
una frase molto diplomatica, forse non del tutto veritiera ma comunque
adatta a
quel tipo di situazioni.
Lei
ammutolì e dimenticò la sua rabbia. Vedendola
esitare affondai il colpo
decisivo.
-E tu no?-
-Io...-
Non
importava quanto avesse gridato prima, quanto si fosse incavolata,
quanto
avesse finto di essere restia, perché io sapevo che poteva
cambiare idea da un
momento all’altro e il tutto stava nel saper interpretare
bene l’attimo giusto.
Lei fece un passo indietro e diede l’impressione di voler
abbassare lo sguardo.
Allora
capii che quello era il momento giusto, e approfittando del suo attimo
di
esitazione mi avvicinai e velocemente le poggiai le labbra sulle sue,
anche per
impedire che dicesse qualcosa e rovinasse tutto.
Facendole
reclinare la testa di lato con una mano, cercai appoggio trovandolo in
un muro,
addosso al quale la feci poggiare.
Sentii
la sua mano premere sulla mia guancia e artigliarla con le unghie,
così mi
spostai leggermente per guardarla negli occhi.
Lei
non era proprio contrariata, la sua era più
un’espressione rassegnata, di chi
sa di non poter andare contro le proprie sensazioni, pur volendole
mascherare
abilmente.
La
volta successiva fu più disponibile e stringendosi
– forse istintivamente – al
mio corpo lasciò che partecipasse al bacio anche la sua
lingua.
Quel
gesto in particolare fece saltare tutti i buoni e casti propositi che
avevo in
testa e attraversata da un’altra e più potente
scarica di adrenalina feci
intrecciare le nostre gambe e la spinsi di più contro il
muro.
Prima
che una delle mie mani potesse scivolare sotto i suoi abiti e
commettere atti
completamente fuori luogo, riuscii a riprendere consapevolezza della
situazione
e a limitarmi al semplice bacio.
Non
fui capace di quantificare il tempo che passammo in quel bagno, in
particolare
quello che impiegammo baciandoci, ma ripresi la piena coscienza della
realtà
solo quando udimmo un rumore dietro la porta.
Prima
era stato tutto uno scambio di odori, di saliva, di sensazioni che
parevano
protrarsi all’infinito e che ci avevano estraniato dal mondo
reale
proiettandoci in una dimensione tutta nostra.
Ma
il rumore dietro la porta la fece spaventare e così
immediatamente, prima che
avessi anche solo il tempo di staccarmi autonomamente, mi diede uno
spintone
per togliermi di mezzo, nel vero senso della parola.
Le
due amiche di Andrea trovarono lei appoggiata alla colonna con le
guance rosse,
e me che cercavo di mantenermi in equilibrio dopo essere stata
bruscamente
allontanata.
-Ah voi eravate qui?- domandò una di
loro, superandoci.
-Stanno servendo il gelato, se ne
volete-
Lei
fu la prima a ricomporsi e a tornare di là, mentre io
aspettai un po’ e
preferii sciacquarmi il viso.
Non
mi aveva dato uno schiaffo, non mi aveva respinto e anzi era stata ben
felice
di partecipare al bacio, ma lo spavento che aveva provato nel sentire
il rumore
dietro la porta e che avevo percepito benissimo, aveva rovinato tutto.
Bene, ecco un'altro
racconto diviso in due capitoli. Spero di riuscire a postare l'altro
prima di martedì, nel frattempo farebbe piacere sapere che
ne pensate.
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