Leaves Time
8. Finalmente libera
Holly gemette quando urtò il palo con la spalla,
poi l’impeto che si era dato lo fece precipitare nella porta,
tra le maglie della rete subito dietro la palla. Se la trovò
premuta contro lo stomaco, riconobbe la sua forma e la sua consistenza
ma non ebbe il coraggio di aprire gli occhi. Non finché
l’arbitro non avesse fischiato per validare il goal. Poi lo
udì, il fischio lungo e protratto della vittoria.
Spalancò gli occhi e si volse. Dario Belli era in ginocchio
tra i pali e lo fissava incredulo.
«Goooooooooaaaaaaaaal!»
Lo stadio venne scosso da un fremito, poi gli spettatori si lasciarono
andare all’entusiasmo con un rombo di fischi e di urla.
Mark raggiunse Holly e gli tese la mano. Il capitano non lo vide. Non
lo guardava, teneva gli occhi sul tabellone, aspettando che quel due si
trasformasse in un tre e salvasse la vita di Patty.
-Holly…-
Il ragazzo si riscosse si aggrappò alla mano del compagno,
mettendosi faticosamente in piedi. Era sudato, sporco, esausto e
dolorante e mentre i compagni di squadra lo circondavano per
sommergerlo con il loro entusiasmo, si sentì così
confuso e incredulo da non riuscire a capire niente di ciò
che gli dicevano. Patty… solo Patty gli interessava. Aveva
vinto. Era salva. Il triplice fischio dell’arbitro
segnò la fine dell’incontro.
-Holly! Holly!- Bruce gli saltò al collo -Hai visto? Ce
l’hai fatta! Lo sapevo!-
Frastornato lui non riuscì neppure a sorridere. Non era
finito un bel niente. Se Patty non ricompariva sana e salva non
c’era niente di finito. Non c’era niente di cui
essere contenti. Tornò a guardare il tabellone. Il tre era
comparso. Tom gli circondò le spalle con un braccio e lo
sospinse a bordo campo verso le panchine, prima che arrivassero i
giornalisti con le loro macchinette fotografiche, le telecamere e le
immancabili interviste condite di domande insensate.
-Tom, non è finita…- la sua voce
risuonò bassa, intrisa di preoccupazione -Finché
non vedo Patty sana e salva non è finita…- la
stanchezza era tanta, era stremato. Non riuscì ad esultare
dietro ai compagni, a Gamo e ai tifosi. Si era illuso che appena
avessero segnato il goal della vittoria, Patty sarebbe rispuntata tra
loro. La cercò disperato, doveva essere da qualche parte,
doveva essere libera, e viva. Eppure non la vide e lo stomaco gli si
contorse per l’ansia.
Tom cercò di rassicurarlo.
-Holly, ci vuole tempo. Chissà dove la tiene, forse la
riporterà a casa o comunque a Fujisawa…-
Schneider si avvicinò per congratularsi, la mano tesa. Holly
faticò a ricambiare il sorriso, a ringrazialo. Strinse le
dita sudate del tedesco.
-Hai giocato molto bene, Hutton. Hai meritato di vincere.-
L’altro annuì.
“Se solo sapessi cosa sarebbe successo se non
l’avessi fatto…” spostò lo
sguardo sul corridoio in cui i giocatori dell’All Star si
stavano riversando. Chissà se una volta uscito dal campo
quell’incubo sarebbe finito. Forse non sarebbe bastato. Forse
Patty non sarebbe tornata subito da lui. Forse non sarebbe ricomparsa
per niente. Forse era stata uccisa lo stesso… Forse non
l’avrebbe più rivista…
Quando Patty riprese conoscenza le sembrò di aver dormito
per ore. Era piombata in un limbo in cui non era penetrato neppure il
frastuono della folla nello stadio. Socchiuse gli occhi. Accecata dalla
luce dei riflettori, se li riparò con una mano. Si
tirò su seduta gemendo, poi si guardò intorno.
Era sola, ma soprattutto era viva.
Spostò gli occhi sull’orologio del tabellone. Dal
gol della vittoria erano passati sì e no cinque minuti. Il
coraggio e la forza che l’avevano sostenuta finora le
scivolarono via di dosso e scoppiò a piangere. I singhiozzi
la scossero violenti, le lacrime le inondarono il viso, le sue spalle
sussultarono. Si accoccolò a terra, nascose il volto tra le
braccia e rimase così, a piangere di paura e di sollievo.
Poi, mentre i singhiozzi si placavano, alzò la testa e
attraverso le lacrime lo vide. A terra, davanti al montacarichi,
c’era il suo cellulare. Si trascinò a fatica fin
lì, lo prese tra le mani, le sfuggì dalle dita
tremanti e finì a terra. Lo riprese. Smise di piangere e si
asciugò il volto con le maniche della maglietta. Era stanca,
esausta, il pianto liberatorio aveva risucchiato le sue ultime energie.
Non le rimaneva un filo di forza e si chiese come avrebbe fatto a
scendere da lì. Lo stomaco le brontolò, si
ricordò del bambino e si sforzò di tirarsi su in
piedi. Raggiunse le porte del montacarichi barcollando e
schiacciò il bottone con il palmo della mano, chiedendosi
cosa avrebbe fatto se non avesse funzionato. Non ebbe bisogno di
trovare una risposta. Il pulsante si accese di rosso e la cabina
metallica emise un sordo ronzio. Era libera. Chiuse gli occhi con un
sospiro di sollievo e appoggiò la fronte contro porte di
metallo.
Il cellulare le vibrò in mano spaventandola, quasi le
finì a terra, poi cominciò a squillare. Sul
display lampeggiava il nome del fidanzato. Lo shock fu tale che non
riuscì a reagire. Poi si riscosse e rispose.
-Holly?- la voce le uscì roca, fu appena un sussurro.
“Patty? Patty?” non era lui. Era Evelyn che gridava
il suo nome.
Cercò di risponderle, non le uscì nulla. Le
parole le si bloccarono in gola quando le porte del montacarichi si
spalancarono davanti a lei. Le fissò sgomenta, terrorizzata,
sollevata. La cabina era vuota, ma cosa avrebbe fatto se
quell’uomo fosse stato lì dentro?
Evelyn gridava ancora, la voce rotta dal pianto.
“Dove sei? Rispondimi ti prego… Patty! Patty? Sei
tu?”
-Sì, Eve. Sono io.- riuscì a dire con un filo di
voce. La gola le bruciava, parlare era una tortura.
“Patty… Stai bene? Dove sei?”
L’ascoltò in silenzio, stordita.
-Eve, non gridare…-
Le porte del montacarichi si mossero, ricominciando a chiudersi.
Riuscì a bloccarle con un piede e
s’infilò dentro.
-Ha risposto?!- Jenny la raggiunse di corsa l’amica.
Evelyn annuì, gli occhi colmi di lacrime di sollievo.
Accanto alla panchina erano rimaste solo loro tre. Gli altri, le
riserve, il mister, lo staff avevano invaso il campo per esultare
insieme ai giocatori.
-Eve, chiedile dov’è…-
Quella allontanò il cellulare dal viso e scosse la testa
disperata.
-Non posso…- agitò il telefonino di Holly
nell’aria, pestando i piedi sull’erba -Si
è scaricata la batteria! Lo sapevo che non avrebbe retto! Lo
sapevo!-
Amy la fissò.
-E allora? Chiamala con il tuo, no? Se ha risposto vuol dire che
può farlo!-
Evelyn annuì, riesumò il proprio cellulare,
compose il numero e restò in attesa. Jenny e Amy la
fissavano col fiato sospeso, fino a che, un minuto dopo, lei esplose.
-No… Non c’è linea… Il suo
telefono non ha linea… Non è possibile! Non
c’è più linea! Perché
proprio adesso?- la sua voce si ruppe, stava per mettersi a piangere.
Jenny tentò di tranquillizzarla come meglio poté.
-Vedrai che grazie alla telefonata, la polizia ora riuscirà
finalmente a rintracciarla!-
-Credi davvero?-
Jenny annuì.
-Continua a provare.-
Quando cadde la linea Patty non si preoccupò. Ciò
che le premeva di più era andare via al più
presto da quel posto. Stringendo il telefonino in una mano
osservò i cinque pulsanti dei piani. Non c’era una
scritta, un numero, niente. Erano tutti uguali. Esitò,
chiedendosi quale fosse il caso di pigiare, poi si decise per quello
più in basso. Voleva scendere, e il più
possibile. Il montacarichi si mosse e Patty si portò davanti
agli occhi il cellulare, con l’idea di richiamare
Holly… o Eve… chiunque insomma. Fece partire la
chiamata ma non successe niente. Il telefono era isolato, in quella
gabbia di metallo non c’era linea. Alzò gli occhi
sopra le porte chiuse, dove i numeri dei piani si accendevano e
spegnevano uno dopo l’altro, indicando che il montacarichi
continuava la sua discesa. Poi si portò una mano al viso e
ficcò le dita tra i capelli. S’intricarono nei
nodi, dovevano essere in uno stato pietoso. Cercò di
sistemarsi i vestiti e specchiarsi sulla parete di metallo ma la
superficie opaca non le rimandò che un’ombra
vagamente colorata. Lasciò perdere e attese impaziente che
la discesa terminasse. Non sapeva a che piano si trovassero gli
spogliatoi, chissà se il montacarichi portava anche
lì…
Quando le porte si aprirono capì subito che aveva sbagliato.
Era finita nel parcheggio sotterraneo. Si guardò intorno
nervosa. Non c’era nessuno, era deserto.
L’inquietudine l’assalì ma quando le
porte fecero per richiudersi, uscì dal montacarichi. Da
lì conosceva la strada per raggiungere gli spogliatoi, tanto
valeva provare. S’infilò tra le macchine. La Patty
che scorse riflessa sui finestrini delle auto che costeggiò
per raggiungere l’ingresso era irriconoscibile. La maglietta
che indossava era macchiata di sporco e di sangue.
Evitò di fermarsi per specchiarsi. Da quel poco che aveva
scorto, il suo viso, la sua espressione, non erano in condizioni
migliori. Smise di compatirsi e proseguì. Accompagnata ad
ogni passo da dolorose fitte, si affrettò a varcare la porta
a vetri che conduceva ai piani superiori. Era stanchissima ma
preferì le scale d’emergenza
all’ascensore. Ne aveva abbastanza di sentirsi richiusa.
Salì un paio di piani affrontando i gradini più
in fretta che poté, poi fu costretta a rallentare ansimando,
il cuore in gola, la milza che le pulsava. Le mancò il
fiato. Aggrappata al corrimano proseguì imperterrita, la
testa che le girava. Inciampò e quasi cadde. Si
fermò di nuovo per riprendere fiato. Era sola, completamente
sola. Se fosse svenuta nessuno l’avrebbe soccorsa. Quella
consapevolezza la costrinse, nonostante tutto, a riprendere a salire e
ad accelerare il passo. Col fiato corto arrivò finalmente al
pianerottolo che cercava, si appoggiò contro il muro, la
fronte premuta alla parete, e si fermò esausta. Non aveva
più forze, non capiva neppure come avesse fatto ad arrivare
fin lì. Era il desiderio di vedere Holly, di sentirsi al
sicuro con lui e tra i compagni a darle la forza di andare avanti.
Mancava poco, veramente pochissimo. Tirò un profondo
respiro, si raddrizzò, scostò i capelli dal viso
e, raccogliendo le ultime forze che le restavano, aprì il
pesante maniglione antipanico che immetteva nei corridoi interni dello
stadio.
-Non hanno classe, non hanno stile! Come possono aver vinto!- furioso
con Pierre per il risultato della partita Napoleon non la vide e la
urtò. E quando si volse imbestialito per assalire
l’idiota che gli era finito addosso, magari spiaccicarlo al
muro e affibbiargli un cazzotto, si ritrovò davanti il volto
imbrattato di sangue mal ripulito di una ragazza che si
scusò chinando la testa. La fissò scioccato,
ammutolito mentre lei gli voltava le spalle e proseguiva.
L’urto con il francese le aveva tolto il fiato.
Proseguì rasente il muro, facendosi piccola piccola per non
farsi notare, o quanto meno per non farsi travolgere ancora. Le faceva
male ovunque, camminare era un martirio. Desiderava più di
tutto, persino più di vedere Holly, infilarsi a letto,
chiudere gli occhi e non pensare più a nulla.
-Quella tizia l’ho già vista…- Pierre
seguì con gli occhi le esili spalle della giovane che si
allontanava da loro a testa china -Sembrerebbe quasi…-
cercò di ricordare un nome, ma non ci riuscì
-Sembrerebbe la ragazza di Hutton.-
-Starà andando a cercarlo…- Napoleon
scrollò le spalle e proseguì.
Appoggiandosi con una mano al muro Patty, strinse i denti e
affrontò i gradini che immettevano al campo. Erano una
decina, forse una dozzina, ma a metà le sembrarono infiniti.
Barcollò stremata e sarebbe caduta se qualcuno non
l’avesse afferrata per le spalle tirandola su.
-Tutto bene?- domandò in inglese una voce sconosciuta.
Patty si volse, alzò il viso e incontrò un paio
di occhi azzurri che la scrutavano preoccupati. Era il biondissimo e
bellissimo Stefan Levin, il capitano della nazionale svedese. Un ciuffo
di capelli dorati e sudati gli ricadeva su parte del viso, rendendo il
suo volto ancor più seducente.
-Questa ragazza sta male…- il ragazzo si guardò
intorno e si accorse di essere rimasto solo. Era l’ultimo
della fila, i compagni erano già rientrati negli spogliatoi.
Osservò preoccupato il suo viso insanguinato, per un attimo
non seppe cosa fare. Poi capì che doveva essere curata. La
spinse verso il muro e lei vi si appoggiò.
-Aspetta qui, vado a chiamare un medico…-
Si girò per allontanarsi e Patty gli afferrò
svelta la divisa sulla schiena, arricciando la stoffa sul numero
dodici. Andava bene il dottore, ma dopo. Prima doveva assolutamente
raggiungere Holly.
Glielo disse in giapponese, lui non capì e Patty si morse la
lingua. Era distrutta, in inglese non riusciva a pensare neppure una
parola. Le si riempirono gli occhi di lacrime, le venne da piangere.
Ormai era ad un passo da Holly ma non riusciva a raggiungerlo.
Incrociò lo sguardo di Levin, il biondo straniero aspettava.
Allora gli indicò l’uscita del campo con il
braccio teso, scandendo bene due parole soltanto: “Oliver
Hutton”. Poi si accasciò. Levin non la
lasciò cadere. Si chinò davanti a lei e la
sollevò facilmente, un braccio dietro la schiena, uno sotto
le ginocchia. Annuì con un sorriso.
-Ok…- quella ragazza malridotta voleva incontrare Hutton?
Benissimo, ce l’avrebbe portata.
La luce dei riflettori l’accecò, le grida degli
spettatori e la confusione sugli spalti la frastornarono. I suoi occhi
corsero rapidi sull’erba tra le maglie blu dei calciatori
giapponesi. I ragazzi si stavano radunando davanti agli obiettivi, i
giornalisti avevano invaso il terreno di gioco subito dopo il triplo
fischio finale dell’arbitro.
Levin si fermò lì, sulla linea bianca lateriale
con la giovane tra le braccia, in cerca anche lui del capitano della
squadra avversaria. Insieme offrivano un bizzarro spettacolo. Lui,
alto, biondo, con la divisa bianca dell’All Star e quella
ragazzina malridotta, minuta al suo confronto, i vestiti laceri e
sporchi, spaesata e rannicchiata tra le sue braccia. Alcuni fotografi
li notarono e scattarono un paio di volte. Poi la loro attenzione
tornò alla squadra giapponese.
Holly era in piedi più o meno al centro del campo, allineato
con i compagni davanti agli obiettivi con la solita, pacchiana coppa in
mano. Sul suo viso traspariva la stanchezza, lo sfinimento, la
preoccupazione. L’ansia di sapere cosa ne fosse di Patty
scuoteva ogni nervo del suo corpo e se una mano di Benji non gli avesse
serrato più forte la spalla ad ogni cambio di posizione,
affondandogli le dita nei muscoli dell’omero per ricordargli
che quello non era il momento di andarsene, se la sarebbe filata senza
pensarci due volte. Non riusciva e non poteva sorridere agli obiettivi
neanche costringendosi a farlo. La caviglia stava tornando a fargli
male, se possibile addirittura più di prima. Era evidente
che non soltanto le medicine di Benji avevano finito il loro effetto,
ma che la stanchezza e la tensione gli stavano cadendo addosso tutte
insieme, concentrandosi in quella parte del corpo già debole
e dolorante.
Suo malgrado Patty sorrise. Chissà se, nonostante quella
faccia, Holly aveva ancora la forza di rilasciare
l’intervista che tutti aspettavano con impazienza. Si
passò una mano sul viso, sentì sotto le dita il
sangue raggrumato sulla tempia e tra i capelli e si ricordò
di quanto fosse impresentabile. Perché non aveva pensato a
passare in bagno a darsi una ripulita? Si rispose subito da sola:
perché voleva rivedere Holly, rassicurarlo che stava bene,
lasciarsi abbracciare e coccolare all’infinito.
Sentiva il calore di Levin scaldarla, il suo petto alzarsi e abbassarsi
al ritmo del respiro. Aveva appoggiato la testa contro il suo torace e
percepiva i battiti rallentati del suo cuore. Era evidente che non
provava alcuno sforzo a tenerla tra le braccia. Sollevò gli
occhi sul viso del ragazzo, lui se ne accorse e la guardò.
Accennò un sorriso e lei sorrise d’imbarazzo.
-Patty!- il grido di Evelyn la fece sussultare. Si volse e la vide
correre verso di loro -Patty! Come stai?-
Amy e Jenny arrivarono un istante dopo. La guardarono, la esaminarono.
Evelyn le scostò i capelli sporchi di sangue dal viso,
facendola sussultare.
-Piano…- protestò.
Jenny alzò su Levin un paio d’occhi increduli.
-Dove l’hai trovata?- domandò in inglese.
Lui fece un gesto alle sue spalle.
-Nel corridoio…-
-Grazie…- lo fissò riconoscente e lui le sorrise.
-Sei la ragazza di Callaghan, vero?-
Jenny annuì, senza capire né il motivo
né il significato di quella bizzarra domanda.
Holly udì le grida di Evelyn e sobbalzò. Si
volse, la cercò e la vide. Spalancò gli occhi
alla scena che si trovò davanti. Mise a fuoco Levin che la
teneva tra le braccia, poi fissò la fidanzata e i loro
sguardi si incontrarono. Si liberò brusco della mano di
Benji, poi gli mollò la coppa. Travolse chi aveva davanti,
lasciò il suo posto senza curarsi dei flash che scattavano,
oltrepassò le macchinette fotografiche e corse. Quando fu ad
un passo da lei la caviglia cedette. Inciampò e quasi si
schiantò a terra. Riprese al volo l’equilibrio e
fece gli ultimi due metri che lo separavano dalla fidanzata.
Levin lasciò che i piedi di Patty toccassero
l’erba. Poi indietreggiò, permettendo al capitano
giapponese di prenderla tra le braccia. Lui la strinse a sé
senza dire una parola, il cuore che gli scoppiava di
sollievo.
-Patty…- gemette. Gli occhi gli bruciavano per le lacrime
che premevano per uscire -Patty…-
-Bravo, hai vinto la partita…- mormorò lei con
voce rotta.
Holly la scostò piano da sé e la
fissò, per assicurarsi coi propri occhi che fosse davvero
sana e salva. Notò con orrore il sangue, la ferita sulla
tempia, i vestiti sporchi e laceri. Era malridotta, ma ancora viva.
-Patty, stai bene?- la strinse di nuovo contro di sé mentre
la caviglia continuava a pulsare. Non resse più e
scivolò in ginocchio davanti a lei, il viso sprofondato
contro il suo stomaco morbido e caldo. Poi lo sentì
brontolare e sollevò il viso a guardarla. Le guance di Patty
si colorarono d’imbarazzo.
-Ho fame…-
Jenny si passò una mano sul viso per ricacciare indietro le
lacrime che premevano per uscire. Levin le era rimasto accanto e quando
si volse incrociò il suo sguardo insistente che la fissava,
le mani ficcate nelle tasche dei pantaloncini. Patty stava bene, Holly
era distrutto ma fuori di sé dalla felicità e lei
era curiosa da morire.
-Perché sai chi sono?-
-Lui lo sa.- lo svedese indicò con un cenno del
capo Philip che accorreva insieme agli altri -Te lo
spiegherà.- accennò un sorriso triste e
tornò negli spogliatoi.
-Patty, come stai?-
Lei si volse verso Tom e si scostò un poco da Holly mentre
quello si tirava faticosamente in piedi. Philip lo aiutò
sostenendolo per un braccio.
-Tutta intera…- si guardò -Credo…-
-Devi assolutamente fare un salto all’ospedale…-
Amy fissò critica la ferita sulla fronte. Aveva smesso di
sanguinare ma sembrava piuttosto profonda.
Holly annuì, gli occhi fissi sul sangue, sui lividi e i
graffi… Come l’aveva ridotta quel bastardo!
-Andiamo subito…-
-E la tua intervista?- Julian indicò la stampa radunata da
una parte, in attesa.
Il capitano scosse la testa. Patty aveva urgente bisogno di cure e
avevano perso già troppo tempo. Le circondò le
spalle con un braccio e la strinse a sé.
-Ne faranno a meno.-
Lei lo trattenne.
-No, Holly! Quell’uomo voleva farmi la pelle
perché vincessi una stupida partita… Non voglio
rischiare che ci provi qualcun altro solo perché ti sei
rifiutato di rilasciare un’intervista. Posso aspettare, se
fai in fretta.-
La sua voleva essere solo una specie di battuta ma
un’eventualità del genere spaventò a
tal punto Holly che affidò Patty alle ragazze e
tornò zoppicando verso le telecamere.
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