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Autore: Yoshiko    25/07/2010    11 recensioni
Come può, una semplice partita di calcio, un incontro amichevole fra la nazionale giapponese e i migliori giocatori provenienti da tutte le squadre del mondo, trasformarsi in una questione di vita o di morte? Con un capitano infortunato e la minaccia di un folle, la nazionale nipponica sarà in grado di uscire vittoriosa anche questa volta?
Genere: Azione, Drammatico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Genzo Wakabayashi/Benji, Karl Heinz Schneider, Sanae Nakazawa/Patty Gatsby, Taro Misaki/Tom, Tsubasa Ozora/Holly
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Leaves Time
8. Finalmente libera
 

Holly gemette quando urtò il palo con la spalla, poi l’impeto che si era dato lo fece precipitare nella porta, tra le maglie della rete subito dietro la palla. Se la trovò premuta contro lo stomaco, riconobbe la sua forma e la sua consistenza ma non ebbe il coraggio di aprire gli occhi. Non finché l’arbitro non avesse fischiato per validare il goal. Poi lo udì, il fischio lungo e protratto della vittoria. Spalancò gli occhi e si volse. Dario Belli era in ginocchio tra i pali e lo fissava incredulo.
«Goooooooooaaaaaaaaal!»
Lo stadio venne scosso da un fremito, poi gli spettatori si lasciarono andare all’entusiasmo con un rombo di fischi e di urla.
Mark raggiunse Holly e gli tese la mano. Il capitano non lo vide. Non lo guardava, teneva gli occhi sul tabellone, aspettando che quel due si trasformasse in un tre e salvasse la vita di Patty.
-Holly…-
Il ragazzo si riscosse si aggrappò alla mano del compagno, mettendosi faticosamente in piedi. Era sudato, sporco, esausto e dolorante e mentre i compagni di squadra lo circondavano per sommergerlo con il loro entusiasmo, si sentì così confuso e incredulo da non riuscire a capire niente di ciò che gli dicevano. Patty… solo Patty gli interessava. Aveva vinto. Era salva. Il triplice fischio dell’arbitro segnò la fine dell’incontro.
-Holly! Holly!- Bruce gli saltò al collo -Hai visto? Ce l’hai fatta! Lo sapevo!-
Frastornato lui non riuscì neppure a sorridere. Non era finito un bel niente. Se Patty non ricompariva sana e salva non c’era niente di finito. Non c’era niente di cui essere contenti. Tornò a guardare il tabellone. Il tre era comparso. Tom gli circondò le spalle con un braccio e lo sospinse a bordo campo verso le panchine, prima che arrivassero i giornalisti con le loro macchinette fotografiche, le telecamere e le immancabili interviste condite di domande insensate.
-Tom, non è finita…- la sua voce risuonò bassa, intrisa di preoccupazione -Finché non vedo Patty sana e salva non è finita…- la stanchezza era tanta, era stremato. Non riuscì ad esultare dietro ai compagni, a Gamo e ai tifosi. Si era illuso che appena avessero segnato il goal della vittoria, Patty sarebbe rispuntata tra loro. La cercò disperato, doveva essere da qualche parte, doveva essere libera, e viva. Eppure non la vide e lo stomaco gli si contorse per l’ansia.
Tom cercò di rassicurarlo.
-Holly, ci vuole tempo. Chissà dove la tiene, forse la riporterà a casa o comunque a Fujisawa…-
Schneider si avvicinò per congratularsi, la mano tesa. Holly faticò a ricambiare il sorriso, a ringrazialo. Strinse le dita sudate del tedesco.
-Hai giocato molto bene, Hutton. Hai meritato di vincere.-
L’altro annuì.
“Se solo sapessi cosa sarebbe successo se non l’avessi fatto…” spostò lo sguardo sul corridoio in cui i giocatori dell’All Star si stavano riversando. Chissà se una volta uscito dal campo quell’incubo sarebbe finito. Forse non sarebbe bastato. Forse Patty non sarebbe tornata subito da lui. Forse non sarebbe ricomparsa per niente. Forse era stata uccisa lo stesso… Forse non l’avrebbe più rivista…

Quando Patty riprese conoscenza le sembrò di aver dormito per ore. Era piombata in un limbo in cui non era penetrato neppure il frastuono della folla nello stadio. Socchiuse gli occhi. Accecata dalla luce dei riflettori, se li riparò con una mano. Si tirò su seduta gemendo, poi si guardò intorno. Era sola, ma soprattutto era viva.
Spostò gli occhi sull’orologio del tabellone. Dal gol della vittoria erano passati sì e no cinque minuti. Il coraggio e la forza che l’avevano sostenuta finora le scivolarono via di dosso e scoppiò a piangere. I singhiozzi la scossero violenti, le lacrime le inondarono il viso, le sue spalle sussultarono. Si accoccolò a terra, nascose il volto tra le braccia e rimase così, a piangere di paura e di sollievo. Poi, mentre i singhiozzi si placavano, alzò la testa e attraverso le lacrime lo vide. A terra, davanti al montacarichi, c’era il suo cellulare. Si trascinò a fatica fin lì, lo prese tra le mani, le sfuggì dalle dita tremanti e finì a terra. Lo riprese. Smise di piangere e si asciugò il volto con le maniche della maglietta. Era stanca, esausta, il pianto liberatorio aveva risucchiato le sue ultime energie. Non le rimaneva un filo di forza e si chiese come avrebbe fatto a scendere da lì. Lo stomaco le brontolò, si ricordò del bambino e si sforzò di tirarsi su in piedi. Raggiunse le porte del montacarichi barcollando e schiacciò il bottone con il palmo della mano, chiedendosi cosa avrebbe fatto se non avesse funzionato. Non ebbe bisogno di trovare una risposta. Il pulsante si accese di rosso e la cabina metallica emise un sordo ronzio. Era libera. Chiuse gli occhi con un sospiro di sollievo e appoggiò la fronte contro porte di metallo.
Il cellulare le vibrò in mano spaventandola, quasi le finì a terra, poi cominciò a squillare. Sul display lampeggiava il nome del fidanzato. Lo shock fu tale che non riuscì a reagire. Poi si riscosse e rispose.
-Holly?- la voce le uscì roca, fu appena un sussurro.
“Patty? Patty?” non era lui. Era Evelyn che gridava il suo nome.
Cercò di risponderle, non le uscì nulla. Le parole le si bloccarono in gola quando le porte del montacarichi si spalancarono davanti a lei. Le fissò sgomenta, terrorizzata, sollevata. La cabina era vuota, ma cosa avrebbe fatto se quell’uomo fosse stato lì dentro?
Evelyn gridava ancora, la voce rotta dal pianto.
“Dove sei? Rispondimi ti prego… Patty! Patty? Sei tu?”
-Sì, Eve. Sono io.- riuscì a dire con un filo di voce. La gola le bruciava, parlare era una tortura.
“Patty… Stai bene? Dove sei?”
L’ascoltò in silenzio, stordita.
-Eve, non gridare…-
Le porte del montacarichi si mossero, ricominciando a chiudersi. Riuscì a bloccarle con un piede e s’infilò dentro. 

-Ha risposto?!- Jenny la raggiunse di corsa l’amica.
Evelyn annuì, gli occhi colmi di lacrime di sollievo. Accanto alla panchina erano rimaste solo loro tre. Gli altri, le riserve, il mister, lo staff avevano invaso il campo per esultare insieme ai giocatori.
-Eve, chiedile dov’è…-
Quella allontanò il cellulare dal viso e scosse la testa disperata.
-Non posso…- agitò il telefonino di Holly nell’aria, pestando i piedi sull’erba -Si è scaricata la batteria! Lo sapevo che non avrebbe retto! Lo sapevo!-
Amy la fissò.
-E allora? Chiamala con il tuo, no? Se ha risposto vuol dire che può farlo!-
Evelyn annuì, riesumò il proprio cellulare, compose il numero e restò in attesa. Jenny e Amy la fissavano col fiato sospeso, fino a che, un minuto dopo, lei esplose.
-No… Non c’è linea… Il suo telefono non ha linea… Non è possibile! Non c’è più linea! Perché proprio adesso?- la sua voce si ruppe, stava per mettersi a piangere.
Jenny tentò di tranquillizzarla come meglio poté.
-Vedrai che grazie alla telefonata, la polizia ora riuscirà finalmente a rintracciarla!-
-Credi davvero?-
Jenny annuì.
-Continua a provare.-

Quando cadde la linea Patty non si preoccupò. Ciò che le premeva di più era andare via al più presto da quel posto. Stringendo il telefonino in una mano osservò i cinque pulsanti dei piani. Non c’era una scritta, un numero, niente. Erano tutti uguali. Esitò, chiedendosi quale fosse il caso di pigiare, poi si decise per quello più in basso. Voleva scendere, e il più possibile. Il montacarichi si mosse e Patty si portò davanti agli occhi il cellulare, con l’idea di richiamare Holly… o Eve… chiunque insomma. Fece partire la chiamata ma non successe niente. Il telefono era isolato, in quella gabbia di metallo non c’era linea. Alzò gli occhi sopra le porte chiuse, dove i numeri dei piani si accendevano e spegnevano uno dopo l’altro, indicando che il montacarichi continuava la sua discesa. Poi si portò una mano al viso e ficcò le dita tra i capelli. S’intricarono nei nodi, dovevano essere in uno stato pietoso. Cercò di sistemarsi i vestiti e specchiarsi sulla parete di metallo ma la superficie opaca non le rimandò che un’ombra vagamente colorata. Lasciò perdere e attese impaziente che la discesa terminasse. Non sapeva a che piano si trovassero gli spogliatoi, chissà se il montacarichi portava anche lì…
Quando le porte si aprirono capì subito che aveva sbagliato. Era finita nel parcheggio sotterraneo. Si guardò intorno nervosa. Non c’era nessuno, era deserto. L’inquietudine l’assalì ma quando le porte fecero per richiudersi, uscì dal montacarichi. Da lì conosceva la strada per raggiungere gli spogliatoi, tanto valeva provare. S’infilò tra le macchine. La Patty che scorse riflessa sui finestrini delle auto che costeggiò per raggiungere l’ingresso era irriconoscibile. La maglietta che indossava era macchiata di sporco e di sangue.  Evitò di fermarsi per specchiarsi. Da quel poco che aveva scorto, il suo viso, la sua espressione, non erano in condizioni migliori. Smise di compatirsi e proseguì. Accompagnata ad ogni passo da dolorose fitte, si affrettò a varcare la porta a vetri che conduceva ai piani superiori. Era stanchissima ma preferì le scale d’emergenza all’ascensore. Ne aveva abbastanza di sentirsi richiusa. Salì un paio di piani affrontando i gradini più in fretta che poté, poi fu costretta a rallentare ansimando, il cuore in gola, la milza che le pulsava. Le mancò il fiato. Aggrappata al corrimano proseguì imperterrita, la testa che le girava. Inciampò e quasi cadde. Si fermò di nuovo per riprendere fiato. Era sola, completamente sola. Se fosse svenuta nessuno l’avrebbe soccorsa. Quella consapevolezza la costrinse, nonostante tutto, a riprendere a salire e ad accelerare il passo. Col fiato corto arrivò finalmente al pianerottolo che cercava, si appoggiò contro il muro, la fronte premuta alla parete, e si fermò esausta. Non aveva più forze, non capiva neppure come avesse fatto ad arrivare fin lì. Era il desiderio di vedere Holly, di sentirsi al sicuro con lui e tra i compagni a darle la forza di andare avanti. Mancava poco, veramente pochissimo. Tirò un profondo respiro, si raddrizzò, scostò i capelli dal viso e, raccogliendo le ultime forze che le restavano, aprì il pesante maniglione antipanico che immetteva nei corridoi interni dello stadio. 

-Non hanno classe, non hanno stile! Come possono aver vinto!- furioso con Pierre per il risultato della partita Napoleon non la vide e la urtò. E quando si volse imbestialito per assalire l’idiota che gli era finito addosso, magari spiaccicarlo al muro e affibbiargli un cazzotto, si ritrovò davanti il volto imbrattato di sangue mal ripulito di una ragazza che si scusò chinando la testa. La fissò scioccato, ammutolito mentre lei gli voltava le spalle e proseguiva.
L’urto con il francese le aveva tolto il fiato. Proseguì rasente il muro, facendosi piccola piccola per non farsi notare, o quanto meno per non farsi travolgere ancora. Le faceva male ovunque, camminare era un martirio. Desiderava più di tutto, persino più di vedere Holly, infilarsi a letto, chiudere gli occhi e non pensare più a nulla.
-Quella tizia l’ho già vista…- Pierre seguì con gli occhi le esili spalle della giovane che si allontanava da loro a testa china -Sembrerebbe quasi…- cercò di ricordare un nome, ma non ci riuscì -Sembrerebbe la ragazza di Hutton.-
-Starà andando a cercarlo…- Napoleon scrollò le spalle e proseguì.
Appoggiandosi con una mano al muro Patty, strinse i denti e affrontò i gradini che immettevano al campo. Erano una decina, forse una dozzina, ma a metà le sembrarono infiniti. Barcollò stremata e sarebbe caduta se qualcuno non l’avesse afferrata per le spalle tirandola su.
-Tutto bene?- domandò in inglese una voce sconosciuta.
Patty si volse, alzò il viso e incontrò un paio di occhi azzurri che la scrutavano preoccupati. Era il biondissimo e bellissimo Stefan Levin, il capitano della nazionale svedese. Un ciuffo di capelli dorati e sudati gli ricadeva su parte del viso, rendendo il suo volto ancor più seducente.
-Questa ragazza sta male…- il ragazzo si guardò intorno e si accorse di essere rimasto solo. Era l’ultimo della fila, i compagni erano già rientrati negli spogliatoi. Osservò preoccupato il suo viso insanguinato, per un attimo non seppe cosa fare. Poi capì che doveva essere curata. La spinse verso il muro e lei vi si appoggiò.
-Aspetta qui, vado a chiamare un medico…-
Si girò per allontanarsi e Patty gli afferrò svelta la divisa sulla schiena, arricciando la stoffa sul numero dodici. Andava bene il dottore, ma dopo. Prima doveva assolutamente raggiungere Holly.
Glielo disse in giapponese, lui non capì e Patty si morse la lingua. Era distrutta, in inglese non riusciva a pensare neppure una parola. Le si riempirono gli occhi di lacrime, le venne da piangere. Ormai era ad un passo da Holly ma non riusciva a raggiungerlo. Incrociò lo sguardo di Levin, il biondo straniero aspettava. Allora gli indicò l’uscita del campo con il braccio teso, scandendo bene due parole soltanto: “Oliver Hutton”. Poi si accasciò. Levin non la lasciò cadere. Si chinò davanti a lei e la sollevò facilmente, un braccio dietro la schiena, uno sotto le ginocchia. Annuì con un sorriso.
-Ok…- quella ragazza malridotta voleva incontrare Hutton? Benissimo, ce l’avrebbe portata.
La luce dei riflettori l’accecò, le grida degli spettatori e la confusione sugli spalti la frastornarono. I suoi occhi corsero rapidi sull’erba tra le maglie blu dei calciatori giapponesi. I ragazzi si stavano radunando davanti agli obiettivi, i giornalisti avevano invaso il terreno di gioco subito dopo il triplo fischio finale dell’arbitro.
Levin si fermò lì, sulla linea bianca lateriale con la giovane tra le braccia, in cerca anche lui del capitano della squadra avversaria. Insieme offrivano un bizzarro spettacolo. Lui, alto, biondo, con la divisa bianca dell’All Star e quella ragazzina malridotta, minuta al suo confronto, i vestiti laceri e sporchi, spaesata e rannicchiata tra le sue braccia. Alcuni fotografi li notarono e scattarono un paio di volte. Poi la loro attenzione tornò alla squadra giapponese.

Holly era in piedi più o meno al centro del campo, allineato con i compagni davanti agli obiettivi con la solita, pacchiana coppa in mano. Sul suo viso traspariva la stanchezza, lo sfinimento, la preoccupazione. L’ansia di sapere cosa ne fosse di Patty scuoteva ogni nervo del suo corpo e se una mano di Benji non gli avesse serrato più forte la spalla ad ogni cambio di posizione, affondandogli le dita nei muscoli dell’omero per ricordargli che quello non era il momento di andarsene, se la sarebbe filata senza pensarci due volte. Non riusciva e non poteva sorridere agli obiettivi neanche costringendosi a farlo. La caviglia stava tornando a fargli male, se possibile addirittura più di prima. Era evidente che non soltanto le medicine di Benji avevano finito il loro effetto, ma che la stanchezza e la tensione gli stavano cadendo addosso tutte insieme, concentrandosi in quella parte del corpo già debole e dolorante.
Suo malgrado Patty sorrise. Chissà se, nonostante quella faccia, Holly aveva ancora la forza di rilasciare l’intervista che tutti aspettavano con impazienza. Si passò una mano sul viso, sentì sotto le dita il sangue raggrumato sulla tempia e tra i capelli e si ricordò di quanto fosse impresentabile. Perché non aveva pensato a passare in bagno a darsi una ripulita? Si rispose subito da sola: perché voleva rivedere Holly, rassicurarlo che stava bene, lasciarsi abbracciare e coccolare all’infinito.
Sentiva il calore di Levin scaldarla, il suo petto alzarsi e abbassarsi al ritmo del respiro. Aveva appoggiato la testa contro il suo torace e percepiva i battiti rallentati del suo cuore. Era evidente che non provava alcuno sforzo a tenerla tra le braccia. Sollevò gli occhi sul viso del ragazzo, lui se ne accorse e la guardò. Accennò un sorriso e lei sorrise d’imbarazzo.
-Patty!- il grido di Evelyn la fece sussultare. Si volse e la vide correre verso di loro -Patty! Come stai?-
Amy e Jenny arrivarono un istante dopo. La guardarono, la esaminarono. Evelyn le scostò i capelli sporchi di sangue dal viso, facendola sussultare.
-Piano…- protestò.
Jenny alzò su Levin un paio d’occhi increduli.
-Dove l’hai trovata?- domandò in inglese.
Lui fece un gesto alle sue spalle.
-Nel corridoio…-
-Grazie…- lo fissò riconoscente e lui le sorrise.
-Sei la ragazza di Callaghan, vero?-
Jenny annuì, senza capire né il motivo né il significato di quella bizzarra domanda.
Holly udì le grida di Evelyn e sobbalzò. Si volse, la cercò e la vide. Spalancò gli occhi alla scena che si trovò davanti. Mise a fuoco Levin che la teneva tra le braccia, poi fissò la fidanzata e i loro sguardi si incontrarono. Si liberò brusco della mano di Benji, poi gli mollò la coppa. Travolse chi aveva davanti, lasciò il suo posto senza curarsi dei flash che scattavano, oltrepassò le macchinette fotografiche e corse. Quando fu ad un passo da lei la caviglia cedette. Inciampò e quasi si schiantò a terra. Riprese al volo l’equilibrio e fece gli ultimi due metri che lo separavano dalla fidanzata.
Levin lasciò che i piedi di Patty toccassero l’erba. Poi indietreggiò, permettendo al capitano giapponese di prenderla tra le braccia. Lui la strinse a sé senza dire una parola, il cuore che gli scoppiava di sollievo. 
-Patty…- gemette. Gli occhi gli bruciavano per le lacrime che premevano per uscire -Patty…-
-Bravo, hai vinto la partita…- mormorò lei con voce rotta.
Holly la scostò piano da sé e la fissò, per assicurarsi coi propri occhi che fosse davvero sana e salva. Notò con orrore il sangue, la ferita sulla tempia, i vestiti sporchi e laceri. Era malridotta, ma ancora viva.
-Patty, stai bene?- la strinse di nuovo contro di sé mentre la caviglia continuava a pulsare. Non resse più e scivolò in ginocchio davanti a lei, il viso sprofondato contro il suo stomaco morbido e caldo. Poi lo sentì brontolare e sollevò il viso a guardarla. Le guance di Patty si colorarono d’imbarazzo.
-Ho fame…-
Jenny si passò una mano sul viso per ricacciare indietro le lacrime che premevano per uscire. Levin le era rimasto accanto e quando si volse incrociò il suo sguardo insistente che la fissava, le mani ficcate nelle tasche dei pantaloncini. Patty stava bene, Holly era distrutto ma fuori di sé dalla felicità e lei era curiosa da morire.
-Perché sai chi sono?-
-Lui lo sa.- lo svedese indicò  con un cenno del capo Philip che accorreva insieme agli altri -Te lo spiegherà.- accennò un sorriso triste e tornò negli spogliatoi.
-Patty, come stai?-
Lei si volse verso Tom e si scostò un poco da Holly mentre quello si tirava faticosamente in piedi. Philip lo aiutò sostenendolo per un braccio.
-Tutta intera…- si guardò -Credo…-
-Devi assolutamente fare un salto all’ospedale…- Amy fissò critica la ferita sulla fronte. Aveva smesso di sanguinare ma sembrava piuttosto profonda.
Holly annuì, gli occhi fissi sul sangue, sui lividi e i graffi… Come l’aveva ridotta quel bastardo!
-Andiamo subito…-
-E la tua intervista?- Julian indicò la stampa radunata da una parte, in attesa.
Il capitano scosse la testa. Patty aveva urgente bisogno di cure e avevano perso già troppo tempo. Le circondò le spalle con un braccio e la strinse a sé.
-Ne faranno a meno.-
Lei lo trattenne.
-No, Holly! Quell’uomo voleva farmi la pelle perché vincessi una stupida partita… Non voglio rischiare che ci provi qualcun altro solo perché ti sei rifiutato di rilasciare un’intervista. Posso aspettare, se fai in fretta.-
La sua voleva essere solo una specie di battuta ma un’eventualità del genere spaventò a tal punto Holly che affidò Patty alle ragazze e tornò zoppicando verso le telecamere.
   
 
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