01. I'll miss her.
“Ehi! Sta’ un po’ attento!”
“Scusi!”
Sono in ritardo. In
ritardo, in ritardo, in ritardo.
Il volo parte fra un quarto d’ora – e io ho appena
fatto il check-in. Al Carthage, per giunta. L’aeroporto di
Tunisi, il più trafficato di tutti.
Corro seguendo le indicazioni sui cartelli appesi. Mio padre e Karima
mi corrono appresso, mettendomi fretta.
E io ho appena spintonato l’ultima persona che mi sono
trovata fra i piedi, per passare.
“Pazzesco! Come accidenti hai fatto ad addormentarti sulla
lavatrice?! E a dormire così tanto poi!”
La voce roca di mio padre mi arriva distintamente alle orecchie, mentre
continuiamo a correre. Karima porta un borsone sulla schiena
–il mio bagaglio a mano-, mentre io trascino la valigia
più piccola. Quella con gli attrezzi da medico.
Ci serviva aiuto per portare tutto. E Mohamed ha avuto la brillante
idea di ingaggiare Karima.
Che butta imprecazioni da quando siamo arrivati.
Raggiungiamo il metal detector. Spero che si sbrighino, questi qua.
Prima di lasciarmi andare, mio padre mi blocca.
“Aspetta un attimo.”mi ferma, sicuro.
“Devo darti una cosa.”
Inarco un sopracciglio.
Cacchio, non adesso! Ho
fretta!
Esce qualcosa dalla tasca. Un piccolo tubetto, con un simbolo
‘infiammabile’ grosso così.
Lo prendo fra le mani.
Lo osservo.
“E’ spray al peperoncino.” Afferma,
sicuro di sé.
Lo guardo strano.
“Per fare che?” domando, perplesso.
“Per difenderti, genio.” Interviene Karima,
scocciata. “Ma non era meglio un bel coltello lungo? O un
revolver?”
“Li sequestrano al metal detector.” Le fa notare
mio padre, paziente.
Porto il tubetto in tasca.
Sospiro.
E’ preoccupato per me. Si vede.
“Fai attenzione, figliolo.” Mi dice, mettendomi una
mano sulla spalla. “Mi raccomando.”
“Mi rivedrete ancora vivo.” Lo rassicuro,
abbracciandolo.
Mi stacco.
Lancio uno sguardo a Karima. Guarda dall’altra parte.
“Ciao.” Mi saluta semplicemente, con la freddezza
di un ice-berg.
Mi mordo il labbro inferiore.
Avrei voluto salutarla diversamente, dato che non la vedrò
più per molto tempo.
Sondes e Fatma, a casa, hanno pianto come fontane.
C’è voluto mio padre, per farle smettere a modo
suo.
Lei sembra quasi fregarsene.
“Buona fortuna.” Le auguro, con la stessa freddezza.
Non mi guarda.
Sospiro.
E mi allontano, una volta per tutte.
Verso il metal detector.
…
…
Sono al cancello.
Fuori la navetta aspetta tutti i passeggeri, per portarli alla pista
aerea.
Esco fuori, godendo di quell’alito di vento che tira, in
mezzo al caldo soffocante.
Mi metto in fila, per entrare nella navetta.
“Chadi!”
Una voce femminile, giovane, mi giunge alle orecchie come un soffio di
vento.
Mi volto indietro.
E resto a bocca aperta.
Karima.
Sta sorpassando tutti i passeggeri messi in fila, per raggiungermi.
Ma che diavolo …!
Che succede? E’ successo qualcosa?
“Chadi!” mi chiama di nuovo, raggiungendomi.
“Karima! Ma che …!”
Stop.
Il tempo si ferma, il mondo sembra bloccarsi di colpo.
Mi abbraccia.
“Non te ne andare.” Mi supplica.
Ha la voce tremante. Le sue lacrime bagnano la camicia scura che
indosso.
Mi sta abbracciando.
Le sue braccia incollate a me. Il viso nascosto sul mio petto.
La sento singhiozzare.
Qualcuno della sicurezza, dietro, protesta. Dev’essere
passata a forza attraverso il metal detector per raggiungermi
– conoscendola.
La guardo.
Mi stringe forte. Come non aveva mai fatto prima.
Non mi sento
più le gambe, per lo stupore.
La gente che era messa in fila ci sorpassa, infastidita, entrando nella
navetta.
Io non li seguo. Non ora.
“Karima.” Sussurro. Semplicemente.
Singhiozza ancora. La stringo forte a me. Le bacio la testa.
“Ti prego.” Biascico. “Non fare
così.”
Non sta recitando.
Lo capisco, quando Karima recita. Non sa fingere.
Neanch’io so fingere – nessuno in famiglia
è bravo a farlo.
Alza lo sguardo su di me.
Ha gli occhi gonfi. E colmi di lacrime, che scendono giù
rapidamente.
“Io non voglio che tu vada via.” Mi dice, a voce
bassa.
Certo.
Quanto sono stato stupido. Ed infantile.
“Tornerò presto.” La rassicuro, anche se
poco convinto. Strizzo gli occhi, per evitare di piangere a mia volta.
Per lo meno, non davanti a lei. “Tu pensa solo ad avere cura
di te. E a non fare stupidaggini. Altrimenti papà
…”
“… deve raccogliermi col cucchiaino. Lo
so.” Completa la mia frase.
Sorrido.
La stringo di nuovo.
“Ehi! Si sbrighi! Non posso stare qui tutto il
giorno!” brontola l’autista della navetta. Lo
capisco, che è rivolto a me, anche se in questo momento gli
do le spalle. E’ ovvio. “Saluti la sua fidanzata e
si muova!”
Scoppio inevitabilmente a ridere. E Karima con me.
“Non sarei la tua fidanzata neanche se mi mettessero sotto
tortura.” Mi confessa mia sorella, facendomi ridere ancora di
più.
Ecco la solita Karima.
Quasi mi mancava. Un attimo di sarcasmo, in un momento triste.
“Neanch’io.” Rispondo, tenendola ancora
stretta.
Ci separiamo a forza.
Ha gli occhi ancora lucidi. E gonfi di pianto.
“Addio …” mi dice Karima, mentre le
lacrime minacciano ancora di venir giù.
Scuoto il capo.
“No.” La correggo.
“Arrivederci.”
Mi sorride.
Indietreggio.
Mi dirigo verso la navetta, camminando all’indietro come i
gamberi.
Salgo su, forzatamente.
L’autista non perde tempo. Chiude le bussole, e parte,
diretto verso il nostro aereo.
Guardo dal finestrino.
E mia sorella e ancora lì, a seguirci con lo sguardo. La sua
figura, man mano che la navetta avanza, va diventando sempre
più piccola, fino a scomparire del tutto, alla mia vista.
Lascio che alcune lacrime cadano giù. Dopo averle trattenute
per tutta una mattina. Mi tolgo gli occhiali, per asciugarmi gli occhi
umidi.
Mi mancherà. Mi mancherà Karima. Più di tutti.
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Cammino lentamente, ancora per strada.
Lo stradario di Cuiabá nella mano destra, mentre con la
sinistra trascino il trolley e la valigetta degli attrezzi. Sulle
spalle porto il borsone.
Sembro un beduino. Mi mancano solo il turbante e un cammello che mi
sbava addosso.
Qui a Cuiabá, in questo momento, sono le otto e un quarto di
sera.
Quando sono arrivato al Marechal Rondon, l’aeroporto di
Cuiabá, erano le sei e mezza del pomeriggio. Ho viaggiato
circa dodici ore – in questo istante, a Tunisi saranno
… hmm … l’una e mezza del mattino,
all’incirca. Credo.
Sono quasi due ore che giro a vuoto – non riesco a
raccapezzarmi. Non si capisce niente, in questo stradario –
queste stradine minuscole.
Sbuffo.
Per ora credo di essere in periferia, vicino al bosco. So solo questo.
Mah … forse se vado di qua …
Uhm, no, meglio se vado dall’altra parte.
Santo cielo, che confusione.
Sono sempre stato una frana, ad orientarmi. Karima è molto
più brava di me.
Ognuno ha le sue qualità. Il mio senso
dell’orientamento non è tra i migliori.
Provo ad imboccare una stradina stretta – che teoricamente
dovrebbe portarmi alla stazione di polizia. Lì magari mi
daranno qualche dritta.
…
Ma chi lo parla, lo
spagnolo?!
Posso parlargli in francese, se a loro va bene. O in inglese.
Ma no, non in spagnolo. Assolutamente.
...
Sussulto.
Lo stradario e la valigetta mi cadono dalle mani.
Mi immobilizzo di colpo – una fitta alla spalla mi costringe
a fermarmi. E a emettere un suono strano – un rantolo,
probabilmente.
Stringo i denti. Mi porto una mano dietro la schiena.
Tocco qualcosa. Qualcosa di sottile, piumato come un volano di
badminton – e
appuntito.
Lo afferro. Prendo un respiro, e lo tiro dalla spalla con un colpo
secco. Emetto un gemito rauco.
Porto la mano davanti agli occhi. E osservo attentamente ciò
che sto stringendo.
Un dardo.
Di quelli soporiferi. Che servono a stordire.
La punta è appena sporca di sangue – segno che la
sostanza che c’è stata messa, qualunque essa sia,
è entrata in circolo.
Sgrano gli occhi. Mi guardo freneticamente intorno.
Eppure non c’è nessuno nei paraggi. Da dove cavolo
viene?!
…
Non ho il tempo di riflettere.
Un colpo ben calibrato, alla schiena. Come il calcio di un mulo.
Piombo a terra, sbattendo il mento. Gli occhiali mi volano via.
Stringo i denti, il sapore metallico del sangue sotto la lingua. Con la
mano destra, immediatamente, cerco gli occhiali.
Non vedo niente. Non
vedo niente, senza.
Non li trovo, devono essere atterrati lontano.
Come se non bastasse, mi sento confuso. La sostanza sta cominciando a
fare effetto.
Spero solo che sia sonnifero. E non qualcosa di peggio.
Una voce maschile spezza il silenzio. A me sconosciuta.
“Esto es el
médico que Ulises ha llamado para su caballería.
Tenemos que ocultarlo.”
Oddio, no. Non lo capisco, lo spagnolo …!
Mi sento così spossato. Anche se fosse tunisino, inglese o
qualunque altra lingua, sento che non lo capirei lo stesso.
Provo a rialzarmi. Qualcuno mi blocca, tenendomi giù.
Istintivamente, la mia mano va a cercare, in tasca, il tubetto di spray
al peperoncino.
Lo trovo. Lo stringo in mano.
Approfitto di un attimo di distrazione dello sconosciuto. Rotolo sul
posto, girandomi a pancia all’aria.
Ho la vista offuscata. Ma la sagoma, di fronte a me, è
ancora visibile.
Spruzzo. Un
urlo rauco, simile ad un ringhio, mi indica che l’ho preso in
pieno.
Provo di nuovo a rimettermi in piedi. Un’altra presenza mi
tiene per le spalle, facendomi restare seduto.
Mi arriva un ceffone in pieno viso. Rantolo, barcollando col busto.
“No te
levantes. O te mato.”
Ancora non capisco. Ma il tono minaccioso mi avverte che sono tipi
pericolosi.
Mi tolgono il tubetto dalle mani. Le loro voci sembrano allontanarsi
sempre di più.
E’ finita.
…
Un rumore sordo mi giunge alle orecchie.
Come il rombo di un motore – o di un’auto molto
pesante.
Un urlo.
Diverso dagli altri – più lontano. E femminile.
“Son los
terroristas, Rafaèl! Están atacando al
médico! Tenemos que detenerlos!”
Le figure davanti a me sembrano essersi distratti. Li sento alzarsi in
piedi, e dirigersi da un’altra parte.
La stessa voce roca e maschile di prima farsi più cupa e
più furiosa.
“La guerrilla
de Ulises! Dispara!!”
Spari.
Strizzo gli occhi.
Giurerei su mia madre che c’è una battaglia in
corso – fra due gruppi di persone. Di gente che non conosco.
Proprio ora. In questo istante.
Io sono in mezzo. A terra, mezzo cieco –non ho ancora trovato
gli occhiali-, e spossato.
Era sonnifero … o droga di qualche genere. Ne sono sicuro
…
“Inténtelo
de nuevo, y te rompo el culo!”
Una voce maschile. Molto
arrabbiata.
Non è come quelle che ho sentito prima – credo che
sia dall’altra parte.
Rumori di macchine. Altri spari.
E poi il silenzio.
Porto il busto all’indietro, mentre le sagome pian piano
vanno diventando solo macchie scolorite.
Vedo solo una figura.
Si piazza davanti a me. Non ne distinguo i tratti – soltanto
una grande massa nera con lei.
Devono essere capelli.
“Rafa! Miguel!
Ayúdame con esto!”
La stessa voce femminile di prima.
Non ho più la forza di riflettere – porto la testa
all’indietro, chiudendo gli occhi.
E poi il nulla.
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Rafaèl Luz
è un OC appartenente a Chandrajak, che mi ha
concesso di farne uso in questa originale. Grazie ancora!
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