Storie originali > Azione
Segui la storia  |       
Autore: Diffy    29/07/2010    3 recensioni
Chadi Hayet, medico ventiseienne di Tunisi, appena dopo la laurea decide di partire alla volta del Brasile (precisamente nel Mato Grosso), per dare una mano alla popolazione di Cuiabà, che frequentemente, viene coinvolta nelle sanguinose guerriglie attualmente in corso.
Ma una volta giunto in città, dovrà tenere testa ad una banda di guerriglieri alquanto singolari, che, loro malgrado, hanno bisogno di lui...
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
01. I'll miss her.


“Ehi! Sta’ un po’ attento!”

“Scusi!”

Sono in ritardo. In ritardo, in ritardo, in ritardo.
Il volo parte fra un quarto d’ora – e io ho appena fatto il check-in. Al Carthage, per giunta. L’aeroporto di Tunisi, il più trafficato di tutti.
Corro seguendo le indicazioni sui cartelli appesi. Mio padre e Karima mi corrono appresso, mettendomi fretta.
E io ho appena spintonato l’ultima persona che mi sono trovata fra i piedi, per passare.

“Pazzesco! Come accidenti hai fatto ad addormentarti sulla lavatrice?! E a dormire così tanto poi!”
La voce roca di mio padre mi arriva distintamente alle orecchie, mentre continuiamo a correre. Karima porta un borsone sulla schiena –il mio bagaglio a mano-, mentre io trascino la valigia più piccola. Quella con gli attrezzi da medico.

Ci serviva aiuto per portare tutto. E Mohamed ha avuto la brillante idea di ingaggiare Karima.
Che butta imprecazioni da quando siamo arrivati.

Raggiungiamo il metal detector. Spero che si sbrighino, questi qua.
Prima di lasciarmi andare, mio padre mi blocca.
“Aspetta un attimo.”mi ferma, sicuro. “Devo darti una cosa.”
Inarco un sopracciglio.

Cacchio, non adesso! Ho fretta!
Esce qualcosa dalla tasca. Un piccolo tubetto, con un simbolo ‘infiammabile’ grosso così.
Lo prendo fra le mani.
Lo osservo.
“E’ spray al peperoncino.” Afferma, sicuro di sé.
Lo guardo strano.
“Per fare che?” domando, perplesso.
“Per difenderti, genio.” Interviene Karima, scocciata. “Ma non era meglio un bel coltello lungo? O un revolver?”
“Li sequestrano al metal detector.” Le fa notare mio padre, paziente.

Porto il tubetto in tasca.
Sospiro.
E’ preoccupato per me. Si vede.
“Fai attenzione, figliolo.” Mi dice, mettendomi una mano sulla spalla. “Mi raccomando.”
“Mi rivedrete ancora vivo.” Lo rassicuro, abbracciandolo.

Mi stacco.
Lancio uno sguardo a Karima. Guarda dall’altra parte.
“Ciao.” Mi saluta semplicemente, con la freddezza di un ice-berg.
Mi mordo il labbro inferiore.

Avrei voluto salutarla diversamente, dato che non la vedrò più per molto tempo.
Sondes e Fatma, a casa, hanno pianto come fontane. C’è voluto mio padre, per farle smettere a modo suo.
Lei sembra quasi fregarsene.
“Buona fortuna.” Le auguro, con la stessa freddezza.

Non mi guarda.

Sospiro.

E mi allontano, una volta per tutte.
Verso il metal detector.





Sono al cancello.
Fuori la navetta aspetta tutti i passeggeri, per portarli alla pista aerea.
Esco fuori, godendo di quell’alito di vento che tira, in mezzo al caldo soffocante.
Mi metto in fila, per entrare nella navetta.

“Chadi!”

Una voce femminile, giovane, mi giunge alle orecchie come un soffio di vento.
Mi volto indietro.
E resto a bocca aperta.

Karima.
Sta sorpassando tutti i passeggeri messi in fila, per raggiungermi.

Ma che diavolo …!
Che succede? E’ successo qualcosa?

“Chadi!” mi chiama di nuovo, raggiungendomi.
“Karima! Ma che …!”

Stop.
Il tempo si ferma, il mondo sembra bloccarsi di colpo.

Mi abbraccia.

“Non te ne andare.” Mi supplica.
Ha la voce tremante. Le sue lacrime bagnano la camicia scura che indosso.

Mi sta abbracciando.
Le sue braccia incollate a me. Il viso nascosto sul mio petto.
La sento singhiozzare.

Qualcuno della sicurezza, dietro, protesta. Dev’essere passata a forza attraverso il metal detector per raggiungermi – conoscendola.
La guardo.
Mi stringe forte. Come non aveva mai fatto prima.

Non mi sento più le gambe, per lo stupore.
La gente che era messa in fila ci sorpassa, infastidita, entrando nella navetta.
Io non li seguo. Non ora.
“Karima.” Sussurro. Semplicemente.
Singhiozza ancora. La stringo forte a me. Le bacio la testa.
“Ti prego.” Biascico. “Non fare così.”

Non sta recitando.
Lo capisco, quando Karima recita. Non sa fingere.
Neanch’io so fingere – nessuno in famiglia è bravo a farlo.

Alza lo sguardo su di me.
Ha gli occhi gonfi. E colmi di lacrime, che scendono giù rapidamente.
“Io non voglio che tu vada via.” Mi dice, a voce bassa.

Certo.
Quanto sono stato stupido. Ed infantile.
“Tornerò presto.” La rassicuro, anche se poco convinto. Strizzo gli occhi, per evitare di piangere a mia volta. Per lo meno, non davanti a lei. “Tu pensa solo ad avere cura di te. E a non fare stupidaggini. Altrimenti papà …”
“… deve raccogliermi col cucchiaino. Lo so.” Completa la mia frase.

Sorrido.
La stringo di nuovo.

“Ehi! Si sbrighi! Non posso stare qui tutto il giorno!” brontola l’autista della navetta. Lo capisco, che è rivolto a me, anche se in questo momento gli do le spalle. E’ ovvio. “Saluti la sua fidanzata e si muova!”

Scoppio inevitabilmente a ridere. E Karima con me.
“Non sarei la tua fidanzata neanche se mi mettessero sotto tortura.” Mi confessa mia sorella, facendomi ridere ancora di più.
Ecco la solita Karima.
Quasi mi mancava. Un attimo di sarcasmo, in un momento triste.
“Neanch’io.” Rispondo, tenendola ancora stretta.

Ci separiamo a forza.

Ha gli occhi ancora lucidi. E gonfi di pianto.
“Addio …” mi dice Karima, mentre le lacrime minacciano ancora di venir giù.
Scuoto il capo.
“No.” La correggo. “Arrivederci.”

Mi sorride.
Indietreggio.
Mi dirigo verso la navetta, camminando all’indietro come i gamberi.
Salgo su, forzatamente.

L’autista non perde tempo. Chiude le bussole, e parte, diretto verso il nostro aereo.

Guardo dal finestrino.

E mia sorella e ancora lì, a seguirci con lo sguardo. La sua figura, man mano che la navetta avanza, va diventando sempre più piccola, fino a scomparire del tutto, alla mia vista.

Lascio che alcune lacrime cadano giù. Dopo averle trattenute per tutta una mattina. Mi tolgo gli occhiali, per asciugarmi gli occhi umidi.
Mi mancherà. Mi mancherà Karima. Più di tutti.

___________________________________________________________________________________________

Cammino lentamente, ancora per strada.

Lo stradario di Cuiabá nella mano destra, mentre con la sinistra trascino il trolley e la valigetta degli attrezzi. Sulle spalle porto il borsone.
Sembro un beduino. Mi mancano solo il turbante e un cammello che mi sbava addosso.

Qui a Cuiabá, in questo momento, sono le otto e un quarto di sera.
Quando sono arrivato al Marechal Rondon, l’aeroporto di Cuiabá, erano le sei e mezza del pomeriggio. Ho viaggiato circa dodici ore – in questo istante, a Tunisi saranno … hmm … l’una e mezza del mattino, all’incirca. Credo.

Sono quasi due ore che giro a vuoto – non riesco a raccapezzarmi. Non si capisce niente, in questo stradario – queste stradine minuscole.
Sbuffo.
Per ora credo di essere in periferia, vicino al bosco. So solo questo.

Mah … forse se vado di qua …
Uhm, no, meglio se vado dall’altra parte.

Santo cielo, che confusione.

Sono sempre stato una frana, ad orientarmi. Karima è molto più brava di me.
Ognuno ha le sue qualità. Il mio senso dell’orientamento non è tra i migliori.

Provo ad imboccare una stradina stretta – che teoricamente dovrebbe portarmi alla stazione di polizia. Lì magari mi daranno qualche dritta.

Ma chi lo parla, lo spagnolo?!

Posso parlargli in francese, se a loro va bene. O in inglese.
Ma no, non in spagnolo. Assolutamente.

...

Sussulto.

Lo stradario e la valigetta mi cadono dalle mani.

Mi immobilizzo di colpo – una fitta alla spalla mi costringe a fermarmi. E a emettere un suono strano – un rantolo, probabilmente.
Stringo i denti. Mi porto una mano dietro la schiena.

Tocco qualcosa. Qualcosa di sottile, piumato come un volano di badminton – e appuntito.
Lo afferro. Prendo un respiro, e lo tiro dalla spalla con un colpo secco. Emetto un gemito rauco.
Porto la mano davanti agli occhi. E osservo attentamente ciò che sto stringendo.

Un dardo.
Di quelli soporiferi. Che servono a stordire.
La punta è appena sporca di sangue – segno che la sostanza che c’è stata messa, qualunque essa sia, è entrata in circolo.

Sgrano gli occhi. Mi guardo freneticamente intorno.
Eppure non c’è nessuno nei paraggi. Da dove cavolo viene?!



Non ho il tempo di riflettere.

Un colpo ben calibrato, alla schiena. Come il calcio di un mulo.
Piombo a terra, sbattendo il mento. Gli occhiali mi volano via.
Stringo i denti, il sapore metallico del sangue sotto la lingua. Con la mano destra, immediatamente, cerco gli occhiali.

Non vedo niente. Non vedo niente, senza.

Non li trovo, devono essere atterrati lontano.
Come se non bastasse, mi sento confuso. La sostanza sta cominciando a fare effetto.

Spero solo che sia sonnifero. E non qualcosa di peggio.
Una voce maschile spezza il silenzio. A me sconosciuta.
“Esto es el médico que Ulises ha llamado para su caballería. Tenemos que ocultarlo.”
Oddio, no. Non lo capisco, lo spagnolo …!
Mi sento così spossato. Anche se fosse tunisino, inglese o qualunque altra lingua, sento che non lo capirei lo stesso.

Provo a rialzarmi. Qualcuno mi blocca, tenendomi giù.
Istintivamente, la mia mano va a cercare, in tasca, il tubetto di spray al peperoncino.

Lo trovo. Lo stringo in mano.
Approfitto di un attimo di distrazione dello sconosciuto. Rotolo sul posto, girandomi a pancia all’aria.

Ho la vista offuscata. Ma la sagoma, di fronte a me, è ancora visibile.
Spruzzo. Un urlo rauco, simile ad un ringhio, mi indica che l’ho preso in pieno.

Provo di nuovo a rimettermi in piedi. Un’altra presenza mi tiene per le spalle, facendomi restare seduto.

Mi arriva un ceffone in pieno viso. Rantolo, barcollando col busto.

“No te levantes. O te mato.”

Ancora non capisco. Ma il tono minaccioso mi avverte che sono tipi pericolosi.
Mi tolgono il tubetto dalle mani. Le loro voci sembrano allontanarsi sempre di più.

E’ finita.



Un rumore sordo mi giunge alle orecchie.
Come il rombo di un motore – o di un’auto molto pesante.

Un urlo.
Diverso dagli altri – più lontano. E femminile.

“Son los terroristas, Rafaèl! Están atacando al médico! Tenemos que detenerlos!”

Le figure davanti a me sembrano essersi distratti. Li sento alzarsi in piedi, e dirigersi da un’altra parte.

La stessa voce roca e maschile di prima farsi più cupa e più furiosa.

“La guerrilla de Ulises! Dispara!!”

Spari.
Strizzo gli occhi.
Giurerei su mia madre che c’è una battaglia in corso – fra due gruppi di persone. Di gente che non conosco.
Proprio ora. In questo istante.

Io sono in mezzo. A terra, mezzo cieco –non ho ancora trovato gli occhiali-, e spossato.

Era sonnifero … o droga di qualche genere. Ne sono sicuro …

“Inténtelo de nuevo, y te rompo el culo!”

Una voce maschile. Molto arrabbiata.
Non è come quelle che ho sentito prima – credo che sia dall’altra parte.

Rumori di macchine. Altri spari.

E poi il silenzio.

Porto il busto all’indietro, mentre le sagome pian piano vanno diventando solo macchie scolorite.
Vedo solo una figura.
Si piazza davanti a me. Non ne distinguo i tratti – soltanto una grande massa nera con lei.

Devono essere capelli.

“Rafa! Miguel! Ayúdame con esto!”

La stessa voce femminile di prima.

Non ho più la forza di riflettere – porto la testa all’indietro, chiudendo gli occhi.

E poi il nulla.

-




Rafaèl Luz è un OC appartenente a Chandrajak, che mi ha concesso di farne uso in questa originale. Grazie ancora!
  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Azione / Vai alla pagina dell'autore: Diffy