CAPITOLO
CINQUE
Daisy
li scrutò a lungo, programmando la sua mente
per ciò che aveva promesso. Ognuno aveva alcune piccole buste di
carta con dei
nomi impressi a specificare la natura del loro contenuto: erano semi,
dovevano
essere piantati per permettere loro di attecchire nel terreno caldo di
luglio e
crescere durante l’inverno dentro la serra. Non sapeva
spiegarselo, ma Meg si
sentiva contenta: avrebbe avuto delle piante personali da
coltivare e
curare in proprio, senza l’interferenza di nessuno. Le era
capitato spesso di
lavorare dei fiori in una determinata maniera per poi scoprire che, il
giorno
dopo, Daisy aveva ritoccato il suo operato. Lo trovava piuttosto
frustrante, un
tentativo di dimostrarle quanto la riteneva incapace di imparare i
concetti
fondamentali del lavoro.
Osservò la bustina tra le
sue dita, leggendovi
‘viola del pensiero’.
Quella pianta produceva fiori molto grandi e dai colori sgargianti
che andavano dal bianco al nero puro, ma erano privi di profumo, a
cinque
petali, con il centro scuro oppure giallo, in contrasto con il resto
del fiore.
Le piaceva, per quello l’aveva scelta.
“Allora, avete capito
cosa dovete fare?”, chiese Daisy al gruppo, che rispose con un
lamentoso sì.
Si armarono di vasi, di
terriccio e di pazienza.
“Letto il libro?”, le
chiese Carlos, sistematosi accanto a lei.
“Certamente!”, rispose,
“L'ho finito il giorno stesso.”
“E cosa ne dici?”
Meg affondò le dita nel
suo sacco. La sensazione intensa le tolse le parole per qualche attimo.
La
terra era scura, morbidissima e l'odore era forte ma inaspettatamente
gradevole. Le sembrò di trovarsi nel mezzo di un bosco vergine,
dove la pioggia
aveva bagnato il terreno sotto ai suoi piedi e le piante le
restituivano il
loro vero profumo.
Intanto il
chiacchiericcio degli altri detenuti si levò attorno ai due.
“Beh... Non lo so.”,
disse, una volta ripresa, “Interessante come tematica, ma non
l'ho
gradita.”
“Dici sul serio?”, fece
l'altro stupito.
“Sì... Gli animali, il
fattore, la rivoluzione e la dittatura...”, elencò
monotona, “E poi?”
“E' il significato
politico che deve farti riflettere!”
“Ho riflettuto
abbastanza da capire che non mi è piaciuto.”,
ripeté, “In se stessa la storia
è... Retorica!”
Afferrò con decisione
una buona manciata di terriccio e la sistemò nel suo vaso.
Carlos la imitò.
“La politica è sempre
retorica. Forse sarebbe più corretto da parte tua dire che
è la politica a non
piacerti, invece del romanzo.”
“Può darsi... Ma di
Orwell preferisco '1984'.”
“In sostanza, ci sono
molti punti in comune tra i due libri.”, ribatté Carlos,
“'1984' parla del
controllo sulle masse, della manipolazione dell'uomo e del suo pensiero
attraverso la selezione dell'informazione. Il Grande Fratello non
è altro che
una struttura centralizzata e mistificata che ha la capacità di
incutere timore
ed evitare che l'idea possa svilupparsi apertamente. I maiali della
fattoria si
comportano in una maniera analoga. Sottomettono gli animali con
l'idealizzazione del lavoro...”
La sensazione di essere
osservata punse la nuca di Meg ma non vi prestò molta
attenzione. Si accorse di
aver riempito il vaso a sufficienza.
“Sono pienamente
d'accordo con te.”, disse ancora, “E' solo che trovo 'La
fattoria degli
animali' una novella quasi fine a se stessa, mentre '1984' ha
colto
totalmente il mio interesse. Non sono stata a riflettere sul vero
significato
dei simboli, ma l'ho davvero gradito.”
“Per anni sono stato
appassionato del filone fantapolitico, ho esplorato tutta la
letteratura in
merito. Forse è il mito che è stato costruito attorno
allo scritto, ma non
posso negare che '1984' non perda mai il suo fascino. Vedi,
diventa ogni
giorno sempre più attuale.”, Carlos si prese una pausa,
anche il livello della
terra nel suo vaso era soddisfacente, “Se ci pensi bene, in un
modo o
nell'altro l'informazione è costantemente manipolata.”
Meg ebbe modo di
soppesare le parole. Nel frattempo inserì tre dita nel terriccio
compattato in
punti egualmente distanti tra loro.
“In che senso?”,
chiese,
incuriosita.
“Riportare un fatto è
manipolarlo. Io ti racconto cosa ho fatto oggi e tu passi il messaggio
ad un
altro. Lo riduci, non userai mai le stesse parole che ho detto e
inevitabilmente lo manipoli, anche se non lo fai con cattive
intenzioni. Io
stesso, parlandone a te, do una mia interpretazione del fatto...”
Gli occhi di Meg si
fecero due fessure.
“Dare una brutta notizia
in veste buona, raccontare una bugia bianca, ovviare sul fatto che il
nostro
stile di vita stia distruggendo il mondo... E' manipolazione.”,
continuò
Carlos.
“Intendi dire che, alla
luce di ciò che ha scritto Orwell sul controllo della massa
attraverso la
manipolazione dell'informazione... Si può distorcere la
verità e avere il
potere sul mondo?”
Carlos venne interrotto
da una voce estranea.
“Hai scoperto l'acqua
calda!”
I due si voltarono alla
loro destra.
L'agente Jones sorrideva
con soddisfazione.
Meg lanciò un'occhiata
stranita al suo compagno di discussione letteraria.
E' scemo?
Volle ignorarlo ma
riprese a parlare.
“Intendevo dire...”,
aggiunse
ancora Jones, “E' logico che l'informazione veicoli il potere da
una parte
all'altra della politica. Regolandone il flusso, puoi scatenare le
folle oppure
ammansirle.”
E' scemo.
Meg ne ebbe l'infinita
certezza. Doveva starsene fuori dalla loro conversazione, non era
saggio che
partecipasse.
“Vedi, questa è quella
che chiamo coscienza politica!”, esclamò Carlos ridendo.
Meg scosse la testa,
inserì due semi per ognuno dei buchi e li ricoprì.
Improvvisamente non aveva
più alcun interesse per la conversazione. Certamente
quell'individuo li aveva
ascoltati da cima a fondo, spiando le loro parole come se fossero state
pericolose. Era ovvio che dentro le mura del carcere la privacy era il
bene più
prezioso di cui nessuno poteva disporre
a piacimento, ma lei e Carlos non avevano niente da nascondere.
Stavano semplicemente
scambiandosi opinioni.
Era straziante non avere il
beneficio del dubbio.
“Agente Jones.”, lo
chiamò Carlos, “Lei dovrebbe
starsene dietro ad una cattedra!”
“Preoccupatevi di fare bene
il vostro lavoro.”, li
riprese Daisy, apparsa dal niente nelle loro vicinanze, “E
parlate con la
bocca, non con le mani!”
Li guardò con aria
infastidita per un lunghissimo
attimo, per poi tornarsene dalle sue preferite.
“Non ho capito cosa ci ha
detto.”, fece Carlos.
“Lavorate, è
meglio.”, aggiunse l'agente Jones.
“Ok.”, borbottò
Meg, innervosita fino all'ennesima
potenza.
Prima o poi avrebbe avuto
l'occasione per dirgli
qualcosa di così acido da farlo zittire, e se fosse uscita senza
averlo fatto
non se lo sarebbe mai perdonata. Non era quello il momento, le sue
violette del
pensiero avevano bisogno di tutta la cura possibile.
“Hey, una domanda.”, la
interruppe Carlos, “Se non
erro, prima di mettere il terriccio dentro al vaso è necessario
utilizzare
dell'argilla espansa... E sarebbe addirittura meglio se mescolassimo i
due componenti.”
Un fulmine a ciel sereno la
sconvolse. Era vero,
Carlos aveva ragione, e lei si era dimenticata uno dei primi
insegnamenti di
Daisy. Si doveva permettere alla pianta di crescere in un terreno ben
areato,
era quello lo scopo di mescolarlo con le palline di argilla espansa. Il
suo
lavoro era tutto da rifare.
“Cazzo...”,
sibilò, “E adesso? Ho già piantato i
semi!”
Il suo compagno di corso assunse
una strana
espressione intellettuale, si grattò i capelli neri e lunghi e
scrollò le
spalle.
“Prendi un altro vaso e inizi
da capo.”, disse
ridendo, “Semplice, non credi?”
Nient'affatto, aveva sprecato un
sacco di semi e
nella sua bustina non ne rimanevano molti altri. Non poteva sprecare
quelli che
aveva già piantato ma non sarebbe stato facile recuperarli. Dio,
quanto voleva
sapere che cosa aveva nel cervello da renderla così idiota.
Avrebbe voluto
gettare tutto a terra e imprecare contro tutto e tutti finché
non l'avrebbero
rinchiusa in isolamento per una settimana.
“Dai, non avercela con te
stessa.”, le fece Carlos,
“Anch'io devo rifare tutto.”
“Perché?”, gli
chiese sbuffando, senza alcun
interesse.
“Medesimo errore.
Sbrighiamoci, prima che Daisy se
ne accorga e ce ne faccia vergognare.”
Meg non ebbe idea di cosa Carlos
aveva in mente
quando mosse rapidamente la mano, ma vedere
entrambi i loro vasi cadere a terra e frantumarsi le chiarificò
ogni dubbio. Tutti gli studenti si voltarono, spaventati dal rumore
stridente
dei cocci rotti. Daisy accorse da loro piena di preoccupazione.
“Cosa avete
combinato!”, sbraitò con voce stridula,
“Siete i peggiori del gruppo!”
Memore della sua prima
disavventura, Meg non si
chinò a raccogliere i frammenti di vaso rotto e, non appena si
accorse che
Carlos stava per farlo, gli fece capire di starsene immobile con un
rapido
cenno della testa. Non seppe spiegarselo, né fu capace di
impedirlo, ma i suoi
occhi caddero sull'agente venuto dal freddo del Nord. Era un sorriso
quello
sulle sue labbra? Sì, lo era. Li aveva tenuti d'occhio, sapeva
che cosa avevano
fatto, era a pochi passi da loro, ma non mosse un dito per fermarli,
né per
aiutare Daisy nel ripulire il pavimento.
“Siete dei
disgraziati!”, si lamentò la donna, “Non
metterò una buona parola su di te, quando il direttore mi
convocherà a fine
corso!”
“Beh, non credo di uscire da
qui molto presto!”,
rise Carlos.
“Mi riferivo alla signorina
Megan!”, tagliò subito
Daisy,
Non poteva dichiarare l'odio per
lei in un modo
migliore, pensò Meg, che scosse la testa e si limitò a
sbuffare, come al suo
solito.
“Vado a prendere dei nuovi
vasi.”, disse.
“Saggia decisione!”,
ribatté subito Daisy, “L'unica
nella tua vita!”
Il silenzio divenne tombale,
neanche Carlos ebbe il
coraggio di fiatare. Quel commento cadde nel vuoto per Meg, le
rimbalzò addosso
e si dissolse senza scalfirla minimamente. Daisy doveva avere sempre
l'ultima
parola, era sfiancante starle accanto. Sotto gli occhi di tutti, si
allontanò
dal luogo dell'incidente; pochi attimi dopo il gruppo accorse a dare
una mano
all'insegnante, rendendosi utile nel portare via i cocci, il terriccio
caduto e
ripristinando la situazione al tranquillo status quo. Nessuno dei due
agenti si
preoccupò di controllarli o di perquisirli, come invece era
successo a lei, ma
non ci fece troppo caso. Molto probabilmente quello zoticone avrebbe
avuto
qualcosa da ridire, ma doveva essere stata la sua collega a fargli
cambiare
idea.
Oppure se n'era fregato.
I vasi nuovi se ne stavano al loro
solito posto,
dentro ad un armadietto stracolmo di materiale di ogni genere. Non
appena lo
aprì, si rese conto che avrebbe dovuto spostare almeno un paio
di sacchi di
terra, tre o quattro palette e due dozzine di guanti da lavoro. Ne
aveva
voglia? Assolutamente no. Valutò la situazione, la posizione
degli oggetti e il
loro peso, poteva farcela a prendersi i vasi senza dover perdere tempo
a
togliere il fastidio e poi riporlo.
Si inginocchiò ed
afferrò i vasi per il bordo
esterno, tentando di tirarli a sé e farli uscire. Se ne rimasero
perfettamente
al loro posto, senza spostarsi di un solo millimetro. Convinta di
potercela
fare, Meg non demorse, testarda fino in fondo. Forse doveva prendergli
meglio.
Allungò le mani, nascondendole nel buio dell'armadietto.
Un dolore acuto e profondo, pieno e
caldo.
Meg gridò, ritrasse la mano
in un attimo e la
sensazione si fece ancora più intensa.
Guardò la sua mano,
ricoperta di rosso cupo, di
sangue.
Chiuse gli occhi e si
accasciò a terra.
Il grido della ragazza aveva
risvegliato
l'attenzione di tutti, catturata dalle operazioni di pulitura del
piccolo danno
causato da lei stessa e dal suo compagno di giochi preferito. Danny per
primo
accorse da lei, era il più vicino, e vide subito la macchia
rossa che si
espandeva sul pavimento. Meg era svenuta.
Afferrò subito la sua
ricetrasmittente.
“Centrale, è l'agente
Jones. Una detenuta si è
ferita alla mano, non so quanto è grave ma dobbiamo portarla in
infermeria al
più presto. E' svenuta. Passo.”
Uno sfrigolio.
“Rimani in attesa, agente.”
Gli altri accorsero, chiudendosi
attorno a loro.
Anche Daisy ebbe un mancamento, la sentì iperventilare alle sue
spalle e la sua
collega Morris dovette soccorrerla, aiutata dalle pupille
dell'insegnante.
“Sì è
tagliata.”, disse Carlos accucciandosi, e le
prese la mano, “E non sembra affatto una sciocchezza. Trovate
degli stracci
puliti! E anche l'acqua!”
“Non credo che sia saggio
medicarla.”, si oppose
Danny, “C'è il rischio che si infetti. Ho chiamato la
centrale, devono darci
l'autorizzazione per uscire da qui, arriverà a momenti.”
Il detenuto lo ignorò
completamente. Le altre
donne, alla ricerca frenetica di qualcosa di pulito, portarono un
asciugamano
raccolto nei pressi del lavabo della serra, tutt'altro che fresco di
lavanderia, mentre una di loro offrì una bacinella d'acqua, che
certamente non
aveva mai visitato gli ingranaggi dell'impianto di depurazione.
Carlos tamponò la ferita e
sciacquò via il sangue.
“Fermati!”, Danny lo
bloccò di nuovo, “Ti ho detto
che dobbiamo attendere il via per uscire di qua! Non medicarla!”
Il detenuto si innervosì.
“Mi ascoltami.”,
rispose, “Finora i suoi amici
della centrale non si sono fatti sentire e il taglio è
così profondo che può
vedere le ossa della sua mano... Che cosa vuole fare? Mettersi a
fischiare
l'inno nazionale o aiutarla?”
Avrebbe potuto alzarsi, intimargli
di allontanarsi
e, se si fosse opposto, estrarre la pistola dalla fondina e
minacciarlo, non
aveva alcuna paura di lui. Ma non lo fece. Se ne rimase a guardarlo
mentre si
prendeva cura della mano di Meg con una delicatezza che non sembrava
appartenergli.
“Annelise, portami altra
acqua.”
“Subito.”
Non appena ebbe finito di lavare
via il sangue in
eccesso, fasciò l'arto con la stoffa, stringendo più che
poté.
“Questo dovrebbe servire a
fermare temporaneamente
l'emorragia.”, disse Carlos, “E quest'altro dovrebbe anche
farla risvegliare.”
Prese una manciata d'acqua pulita e
gliela versò
sul viso. Gli occhi di Meg si aprirono, sbattendo velocemente per
un'infinità
di volte.
La ricetrasmittente si mise a
parlare.
“Agente Jones, portate la
detenuta in
infermeria. Il dottore sta arrivando. Passo e chiudo.”
Finalmente, si disse Danny tirando
un sospiro di
sollievo.
“Avanti, mettiti
seduta...”, le disse Carlos,
invitandola ad alzarsi.
Era stordita, sembrava non
comprendere cosa le
fosse successo. Non appena tentò di drizzare la schiena,
aiutandosi con la mano
ferita, il ricordo dovette guizzarle in testa e, senza alcun preavviso,
svenne
di nuovo.
“Mi aiuti.”, gli
ordinò ancora il detenuto, “Non ce
la farà mai a portarla in infermeria da solo.”
Le palpebre scattarono, si aprirono
e la inondarono
di luce bianca. Sapeva di trovarsi su uno dei lettini dell'infermeria,
lo aveva
sospettato fin dal primo momento di conoscenza, e guardò di
sbieco la mano per
controllarne lo stato. Era pronta a svenire di nuovo. La fasciatura era
spessa
ed ampia, così stretta da non permetterle di muovere le dita,
né di percepire
il calore del sangue dentro di esse. Se doveva essere sincera il suo
intero
braccio destro aveva perso ogni collegamento con il resto del suo
corpo, non
soltanto la mano, e sembrava essere morto.
E' l'anestesia, idiota.
Si era tagliata e non sapeva come
era successo. Si
ricordava di Carlos, dei cocci rotti a terra, del tentativo di estrarre
i vasi
dall'armadietto, e poi era venuto il dolore, il rosso cupo ed aveva
perso
conoscenza. E pensare che fino ai diciotto
anni era stata in grado di guardarsi le scene più truculente
dell'ultimi film di paura in circolazione.
Ma tutti cambiano.
Puntò l'unico gomito sano
sul materasso del lettino
e si fece forza, voleva sedersi e uscire da lì al più
presto. Non fu facile, si
sentiva debole e l'anestesia non la aiutava; stava lentamente
dissolvendo il suo
effetto e il dolore iniziava a farsi sentire. Le altre dita andarono a
esplorare la superficie grezza della benda.
“Hey, come stai?”
Scattò sull'attenti e
fissò davanti a sé.
L'agente Jones se ne stava al di
là di una
scrivania bianca ed attendeva una risposta.
“Bene...”, disse
incerta.
“Non ti sforzare
troppo.”, le consigliò, prima di
chinare il capo.
Meg lo osservò scrivere, era
concentrato sul suo
lavoro. Le venne una curiosità impossibile da ignorare.
“Posso sapere cosa sta
facendo?”, gli domandò.
La risposta giusta di una qualsiasi
altra guardia
sarebbe stata 'i cazzi miei',
“Devo stilare un rapporto su
ciò che è accaduto
nella serra.”, spiegò l'agente, “E consegnarlo ai
miei superiori.”
“Non parlerà male di
me, spero.”, ricambiò subito,
un attimo prima che un giramento di testa la costringesse a sdraiarsi
di nuovo.
La schiena cadde con un tonfo sul
materasso, senza
alcuna grazia, e Meg emise un gridolino di dolore soffocato. La testa
era un
vortice, immersa in un turbinio di pessime sensazioni che si stavano
velocemente trasferendo verso il suo addome.
In uno schiocco di dita l'agente
accorse da lei.
“Cos'è stato?”,
le chiese, “Ti senti bene?”
Più che la sua colazione
spingeva sulle pareti
dello stomaco, più che Meg si sforzava di ricacciarla
giù, prendendo profondi
respiri e stringendo i denti.
“Ti chiamo un dottore.”
Afferrò l'agente per un
braccio, stringendolo con
tutta la forza che possedeva. Lo guardò dritto negli occhi,
ignorò la sua
espressione quasi spaventata, non si curò di una sua possibile
reazione
violenta.
“No... Dammi un...”
Un conato più forte di tutti
gli altri, lo
trattenne con le dita sane premute sulla bocca. Libero dalla sua
stretta,
l'agente si guardò intorno, doveva aver capito il pericolo
imminente.
Localizzato il target, corse verso
il cestino della
carta straccia e, appena un attimo prima dell'esplosione, lo dette alla
detenuta. Un secondo di ritardo e uno spettacolo raccapricciante
avrebbe
illuminato la sua giornata. Anzi, l'imminente fine del suo turno. Si
voltò, le dette
la poca privacy di cui poteva disporre, e sopportò i suoi
lamenti.
Con l'aiuto di Carlos, poi di uno
dei suoi
colleghi, l'aveva portata di peso in infermeria, dove l'aveva lasciata
alle
mani del dottore e della sua infermiera. La ragazza era rimasta
incosciente per
tutta la durata della piccola operazione e si era risvegliata circa
un'ora dopo
la conclusione; era stata anestetizzata localmente e, con aghi e filo
chirurgici, la sua ferita era stata chiusa. Non era così grave
come aveva
preannunciato Carlos, nonostante i sei punti che la suturavano da una
parte
all'altra, e il dottore aveva assicurato che, in capo a tre settimane,
sarebbe
rimasta soltanto una piccola cicatrice.
Una in più a segnarla per
sempre.
“Posso andare in bagno o devi
seguirmi fin lì?”
Le tolse le spalle.
La trovò con il cestino in
mano, le labbra coperte
e lo sguardo basso.
“Vai pure.”, le fece.
Tornò a sedersi dietro la
scrivania, aveva il
rapporto da concludere e consegnare nel più breve tempo
possibile. Ne aveva
scritti molti prima di quello, redatti in pochi minuti e recapitati
senza una
minima rilettura, ma mai aveva dovuto fermarsi, prendere
in mano le fila dell'accaduto e riportare tutto in maniera sensata e
reale. Era
stato a lungo a pensare, seduto su quella scomoda sedia con la penna
immobile
tra le dita. Descrivere gli attimi precedenti era stato semplice: dopo
aver
concluso il turno di sorveglianza si era recato alla lezione, insieme
al
detenuto Barreiro. Con l'aiuto dell'agente Morris aveva tenuto sotto
controllo
la serra. Non aveva aggiunto altro, si era fermato al momento di
riportare le
generalità della detenuta ferita. Si chiamava Megan, e poi? Non
ne aveva
idea, non ricordava. E non era quello il
suo problema.
C'era stato qualcosa che non era
andato per il verso
giusto, qualcosa che lo stava facendo riflettere a fondo.
Meg lasciò il bagno e
tornò a sedersi sul letto, le
braccia se ne stavano sistemate sul grembo e la faccia era di un
pallore
preoccupante. La osservò attentamente prima di parlarle.
“Ehm... Potresti dirmi come
ti chiami?”, le chiese.
“Meg...”, rispose
mestamente, “Megan Sarah Howard.”
“Grazie.”
Scrisse le tre parole, Megan
Sarah Howard. E
di nuovo la penna si bloccò. Stropicciò gli occhi, era
stanco e avrebbe voluto
chiudersi nel suo appartamento in compagnia dei suoi pensieri. Aveva
bisogno di
trovare una ragione alle incertezze che si stavano velocemente
solidificando
nella sua testa come mai prima di qualche tempo a quella parte.
“Tutto ok?”, gli chiese
Meg.
Alzò il viso dal foglio.
“Sì.”, le fece.
Doveva terminare quel rapporto e
soltanto allora
avrebbe potuto lasciare il carcere. Era il caso di sbrigarsi.
“Potresti aiutarmi con il
letto?”, domandò ancora
Meg, “Vorrei... Alzare la testata, non riesco a stare
seduta.”
“Certo.”
La aiutò, con quella mano
fasciata non sarebbe
stata in grado di farlo da sola. La accontentò con poco sforzo
e, una volta
accomodati i cuscini, le permise di accomodarsi come meglio voleva,
semi
seduta. La relazione fu di nuovo nelle sue mani di lì a poco.
Rilesse l'ultima frase,
o meglio, il troncone incompiuto.
La detenuta Megan Sarah Howard
“Grazie,
agente.”
“Come sta la mano?”
“Credo che presto avrò
bisogno di un
antidolorifico. Sta iniziando a farmi molto male.”
“Ne hai bisogno adesso?”
La ragazza si fece titubante.
“No... Tra un po'.”
Le abbozzò un sorriso e le
parole del suo rapporto
tornarono davanti ai suoi occhi.
“Non scherzavo prima quando
le ho chiesto se
avrebbe parlato male di me.”, lo interruppe di nuovo.
Danny si vide costretto ad
accantonare
momentaneamente le sue speranze di fare presto un buon ritorno a casa.
“Non ti preoccupare. Sto
soltanto scrivendo cosa
è successo nella serra.”, la
rassicurò.
“Ok...”, e
tentennò, “Ometterà che... Lo abbiamo
fatto di proposito?”
Aggrottò la fronte e
cercò la risposta giusta. Non
poteva dirle che lui stesso aveva coscientemente evitato di riportare
che i due
detenuti avevano tenuto un comportamento poco consono allo svolgersi
delle
lezioni, chiacchierando di politica e letteratura e gettando a a terra
i loro
vasi, per rifare un lavoro partito male sin dall'inizio.
“Vedremo.”, le fece.
“La prego, agente, non lo
scriva...”, insistette
Meg.
“A che scopo?”, ebbe la
curiosità di domandarle.
“Perché... Non
vogliamo fare una... Brutta figura
con la signorina Daisy.”
Era la scusa più rattoppata
e piena di falle del
mondo, Meg se ne accorse di lì a poco. Lo stava pregando
perché voleva evitare
provvedimenti disciplinari, per non macchiare la condotta degli ultimi
mesi di
condanna. Era necessario spenderli senza compiere cazzate, o il
direttore non
avrebbe mai scritto la sua lettera di raccomandazioni, se così
si poteva
chiamare il foglio di buona uscita che veniva dato in mano al detenuto,
prima
di lasciarsi le sbarre alle spalle.
“Ok, non lo
scriverò.”, le disse, “Ma in cambio
devi raccontarmi come hai fatto a ridurti la mano in quello
stato.”
Meg sospirò.
“Non lo so... E' successo e
basta.”, spiegò,
“Prendevo i vasi e mi sono tagliata.”
Era la verità, ma c'era
qualcosa che spuntava tra i
pensieri di Danny. Un dubbio insensato e fuori luogo, ma doveva
sfatarlo.
“Non hai cercato... Di farlo
di proposito?”
“Certo che no!”,
esplose subito Megan, “Non sono
così... Così idiota.”
Lo strano movimento dei suoi occhi,
l'esitazione,
il marcare poco convincente della sua voce. Danny ebbe qualcosa in
più su cui
fermarsi e pensare a lungo.
“Ok.”, si
accontentò.
Ma le parole arrivarono.
La detenuta Megan Sarah Howard si
è accidentalmente procurata una
ferita da
taglio sulla mano destra nell'atto di prelevare dei nuovi vasi
dall'armadietto,
situato nella zona sinistra (rispetto all'entrata) della serra. Ha
perso
conoscenza in seguito alla vista del suo stesso sangue. L'atto non
è stato
intenzionale.
Danny mordicchiò la penna.
Sottolineò la frase.
L'atto non è stato
intenzionale.
Non ne era certo, ma sentiva di
farlo.
E c'era comunque qualcosa di
sbagliato anche in
quello, così come nel non aver dichiarato il falso incidente
inscenato dai due.
“Sei sicuro di star
bene?”, domandò di nuovo Meg.
“Sì... Sì, sto
bene.”, le fece, distrattamente.
“So che non sono fatti
miei...”, la sua voce era
scocciata, “Ma...”
Danny sbuffò sonoramente.
Appoggiò la penna, scostò
i fogli, si tolse il capello e passò le dita tra i capelli.
“E lo sai piuttosto
bene.”, le rispose altrettanto
alterato, “Ti sto facendo un grosso favore, quindi per cortesia
lasciami finire
questa relazione!”
Meg lo fissava con occhi spalancati
ed era
spaventata. Danny non sapeva cosa fare.
Aveva alzato la voce, quasi
gridato, ed era
arrabbiato, fottutamente incazzato per colpa di tutta quella fottuta
situazione, di quella giornata che non avrebbe mai e poi mai dovuto
vivere.
Afferrò di nuovo la sua
biro, firmò la relazione e
si alzò.
La sedia stridette sul pavimento,
la porta sbatté.
Quindici minuti dopo era sulla via
di casa.
Guidava e non sapeva dove stava
andando, la strada
non gli era mai sembrata così sconosciuta. I suoi gesti erano
meccanici, le
marce si ingranavano da sole e i piedi sapevano esattamente quando
premere la
frizione, poi l'acceleratore. I suoi pensieri, invece, erano del tutto
impulsivi, si inseguivano l'uno con l'altro senza sosta, senza alcun
freno. Non
venivano gestiti, selezionati o catalogati tra sensati e non, erano una
pioggia
insistente che lo offuscavano.
Aveva sbagliato tutto, o forse
niente. Non avrebbe
mai dovuto fare quel lavoro, oppure era giusto per lui.
Tutto per uno stupido incidente,
per un taglio
sulla mano di una detenuta, una giovane ragazza rinchiusa lì
dentro per aver
tolto la vita ad un'altra o ad un altro, Danny non sapeva. Tutto per
aver
permesso ad un carcerato come lei di aiutarla, mentre lui, attenendosi
alle
regole, non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione. Quel
taglio non
era mai stato mortale, né avrebbe avuto ripercussioni troppo
gravi, ma era il principio
a disturbarlo.
Il principio derivato dal fatto che
lui, una
guardia, aveva saputo cosa e come farlo, e Carlos, il detenuto, aveva
ignorato
il suo ordine e si era comportato come una qualsiasi altra persona
avrebbe
fatto.
Ma non come l'agente Jones.
Si rese conto che, allo stesso
modo, l'agente Jones
rompeva a suo piacere le regole imposte al suo corpo di polizia. Si
teneva
ligio al dovere quando la situazione glielo imponeva ma se voleva era
capace di
fregarsene, di voltarsi dall'altra parte e far finta di non aver visto.
Avrebbe
potuto segnalare il comportamento scorretto dei detenuti posti sotto la
sua
sorveglianza, ma il rapporto consegnato al suo superiore non menzionava
l'accaduto.
E senza accorgersene in un attimo
quella divisa si
fece soffocante.
Gli piaceva il suo lavoro, credeva
in ciò che
faceva ed era soddisfazione ciò che provava quando andava a
letto ogni sera.
Cosa stava realmente accadendo? Perché? Perché si era
piegato davanti ad un
detenuto? Perché si sentiva in colpa con Megan per essersi
rivolto a lei con
rabbia ingiustificata? Perché a volte riusciva ad essere gentile
con chi
aveva fatto del male agli altri e non si meritava nient'altro che il
suo
disprezzo?
Non si era mai posto quegli
interrogativi.
Adesso sì.
Parcheggiò la sua auto ma le
mani non lasciarono il
volante. Vi appoggiò la testa. Era la stanchezza a causargli
tutti quei
problemi. Era chiaro che il giorno seguente avrebbe cancellato il
ricordo e le
sensazioni negative. I colleghi avevano i suoi stessi atteggiamenti,
misti tra
l'essere permissivo e fortemente severo, ma non avevano alcune
conseguenze
sulla vita privata. Doveva esserci stato qualcosa, un frammento
dell'accaduto a
disturbarlo nel profondo, ed essendo appunto un particolare
infinitamente
piccolo, sarebbe svanito presto.
Scese dall'auto e la chiuse, pronto
ad entrare nel
suo condominio. Salì i piani, infilò le chiavi nella
toppa della serratura.
Aprì la porta.
“Sorpresa!”
Trasalì per lo spavento.
Sophie lo attendeva con un
paio di birre in mano.
Come aveva fatto ad entrare?
“Come... Come hai...”
“La tua vicina di
casa.”, spiegò lei,
interrompendolo, “Mi ha riconosciuto e si è fidata di me.
Le ho detto che avevo
dimenticato le chiavi!”
Il piccolo mistero venne
prontamente svelato ma la
confusione creata dalla sorpresa era difficile da smaltire.
“Perché hai
ritardato?”, chiese Sophie, “Hai
trovato traffico? Ti hanno trattenuto al lavoro?”
Una serie di note mentali gli
misero in bocca la
risposta giusta da darle.
“Sì, sono rimasto...
Imbottigliato a qualche
isolato da qui.”, le disse.
La sua ragazza gli si
avvicinò e, prima di dargli
la birra, lo salutò con un bacio.
“Perché sei entrata
senza aspettarmi?”, le domandò.
Non poteva negarle il fastidio.
Avrebbe preferito
trovarla seduta sugli scalini, come spesso era accaduto. Sophie era una
gran
curiosa, qualità che non riusciva ad apprezzare a pieno,
nonostante fosse stato
l'ingrediente fondamentale del suo lavoro di sociologa ricercatrice.
L'avrebbe
portata lontano, non era da tutti passare ore ed ore in una biblioteca,
in un
archivio, oppure sommersa da dati statistici e demografici per
spolverare un
vecchio indizio utile per il suo progetto universitario. Ma Danny, che
poteva
amare altrettanto la lettura, non era allo stesso modo felice di vedere
il naso
d'altri infilarsi tra i suoi fatti.
Fermo nell'ingresso, poteva
già notare un paio di
stupidi soprammobili posizionati diversamente da come se li ricordava.
Era la
sua mente a ingannarlo, ne era certo, ma dopo quella giornata
così complicata,
l'apparizione felice di Sophie sarebbe
degenerata in un litigio.
Lo sapeva.
“Perché... Ho un
regalo per te! Anzi, due!”,
cinguettò la ragazza dopo aver bevuto un sorso dalla bottiglia,
“Ora chiudi gli
occhi.”
“Ti prego, So-...”
“Chiudi gli occhi!”,
esclamò lei.
“Ho avuto una
giornataccia...”
“Chiudi gli occhi!!!”,
insistette con forza.
Contraddirla non era saggio e Danny
si adeguò.
Abbassò le palpebre.
“Allora?”, le fece.
Sophie lo prese per mano e lo
accompagnò in
soggiorno, preoccupandosi di non farlo sbattere contro gli stipiti
della porta.
Danny avrebbe potuto percorrere quel tragitto nella medesima maniera
ogni santo
giorno della sua vita, non avrebbe avuto bisogno delle sue istruzioni,
ma volle
accontentarla fino in fondo.
“Ora apri...”, disse
Sophie, emozionata, “Ta-dah!”
Le sue mani piccole indicavano un
portatile bianco
con lo schermo illuminato. Se ne stava al posto del suo vecchio
computer fisso,
quel macinatore di kilobite a cui si era affezionato come un cucciolo
di cane.
Ebbe paura.
“Ho pensato che fosse stata
davvero l'ora di
rottamare quel coso.”, disse.
Quel coso.
“Questo è un vero
computer!”, aggiunse sorridendo,
“Ultima generazione, processore nuovo di pacca, il massimo della
memoria fissa
e temporanea... Ne capisco poco di dettagli tecnici, ma questo è
il meglio che
puoi trovare sul mercato!”
E' il meglio.
“Un mio amico mi ha aiutato a
prendere il
vecchietto, ha detto che non si può riutilizzare in alcun
modo.”
Danny fissava quel minuscolo affare
bianco senza
distogliere lo sguardo o sbattere le palpebre.
“Ho fatto un back up di tutti
i tuoi files, li ho
trasferiti nell'altro.”, continuò Sophie.
Sentì le sue guance perdere
tutto il loro colore.
“E mi sono messa a
curiosare... Volevo trovare
qualcosa di compromettente con cui ricattarti!”, e scoppiò
a ridere.
Dannyh stava perdendo la pazienza.
“Sai che alcune delle cose
che ho trovato sono
davvero interessanti?”
Volle sedersi sul suo divano ma non
ebbe la forza
di raggiungerlo. Era troppo lontano.
“Se avessi saputo che ti
piaceva leggere racconti e
libri scaricati dalla rete, ti avrei comprato anche una
stampante.”, notò
intelligentemente, “Alcuni dei testi sono incompiuti, come riesci
a leggerli?
Io non avrei la pazienza di aspettare la conclusione dell'autore!”
Sophie aveva visto. Sophie aveva
letto.
Il divano sembrò
improvvisamente più vicino che mai
e lo accolse in silenzio. Danny osservò l'espressione della sua
ragazza mutare
troppo velocemente.
“Non dici niente?”, gli
chiese Sophie.“Non ti
piace?”
“E' il miglior regalo che
potevi farmi.”, le
rispose in automatico, “Ti ringrazio di cuore.”
Gli occhi di Sophie si illuminarono
e le se labbra
lo baciarono più volte.
“Dillo che sono la ragazza
migliore del mondo!”
Lo ripeté senza alcun
entusiasmo, tentando
disperatamente di essere convincente. La sorpresa non gli
permetteva di
essere se stesso.
“Ho un'altra bellissima
notizia per te.”
La seduta del divano scomparve, si
aprì un varco
ultradimensionale tra la vita reale e quella parallela, un artefatto
costruito
ad arte dalla sua magnifica ragazza americana.
“L'unica cosa che devi fare
è prenderti qualche
giorno di ferie...”
“Mi vuoi portare in
vacanza?”, le domandò.
Ogni atomo di sé
pregò che la risposta sarebbe
stata un sì.
“No, scemo!”,
esclamò.
Gli dette una pacca sul braccio.
“La società
finanziaria creata da mio nonno sta per
aprire una filiale proprio qui, in Inghilterra. In questi giorni stanno
portando a termine gli ultimi accordi contrattuali, nonostante gli
uffici siano
già stati popolati da gran parte degli impiegati, neoassunti o
importati
direttamente dagli States.”
Danny sapeva già quale
sarebbe stata la conclusione
di tutta quella gran bella introduzione. Sophie lo conosceva, aveva
imparato a
farcire di mille parole tutte le notizie più o meno spiacevoli,
certa che
avrebbe ottenuto tutto quello che voleva. Era così che l'avevano
cresciuta i
suoi genitori: una famiglia tanto benestante come la sua era stata in
grado di
darle tutto quello che voleva, accontentandola ogni qual volta era
stato
necessario. I loro insegnamenti avevano creato una persona
intelligente,
generosa e altruista, insieme ad una ben lunga lista di pregi.
A quella si aggiungevano
l'ambizione, la
testardaggine, l'incapacità di incassare un no, grazie.
“Stanno cercando il personale
per il servizio di
sorveglianza, ma ancora non hanno assunto il responsabile. Qualcuno che
abbia
le capacità giuste.”
E, si dava il caso, quella persona
sembrava essere
proprio lui.
“Ti ricordi la cena a casa di
mia sorella? Beh, in
parte è servita anche a questo, a dare una buona immagine di
te... Per
facilitarti le cose. Sei stato ben raccomandato a mio zio, che è
il direttore
della filiale.”
Bene, una semplice cena dai parenti
era stata
trasformata in un colloquio lavorativo.
A sua insaputa.
“Te la sentiresti di fare
questo salto?”, chiese
infine Sophie.
Danny non rispose, rimase a fissare
il posto vuoto
lasciato dal suo vecchio computer, rimpiazzato da un minuscolo aggeggio
biancastro, il cui desktop era completamente diverso dall'altro. La
scrivania
era sgombra, il vecchio schermo catodico e l'unità centrale non
la occupavano
più.
Uno schiocco di dita e il custode
dei suoi segreti
se n'era andato. I suoi scritti erano stati violati, il solo pensiero
lo faceva
rabbrividire. Un altro schiocco di dita e il suo lavoro poteva essere
sostituito senza alcun problema. Il messaggio era chiaro, Sophie si
sentiva
sicura abbastanza da poterlo manipolare. Un nuovo computer, un nuovo
impiego,
li aveva trovati entrambi perché gli voleva bene e si voleva
prendere cura di
lui. Sicuramente quel posto di responsabile del servizio di sicurezza
gli
avrebbe fruttato un sacco di soldi al mese, oltre che ad una carriera
in
rapidissima crescita. Da poliziotto a guardia giurata, un salto nel
vuoto che
sarebbe terminato con una comoda caduta, secondo i piani prestabiliti
di
Sophie.
“Nessun contatto con
detenuti, soltanto un facile
lavoro di coordinamento.”, aggiunse la sua ragazza, “Non
dovrai fare altro che
occuparti di gestire i tuoi uomini... Tutto qui.”
Tutto qui.
Nessun turno, nessun superiore,
nessuna gerarchia
esplicita o implicita.
Nessun detenuto, nessuna pena,
nessuna colpa.
Nessuna attenzione, nessun
guardarsi le spalle,
nessun parlare-non-parlare con gli altri.
Nessuna sezione maschile o
femminile, nessuna
riabilitazione, nessuna serra.
Nessun Carlos, nessuna Megan.
Nessuna disobbedienza agli ordini
da lui impartiti,
nessuna ferita, nessun rapporto da scrivere.
Nessuna riflessione.
Il suo nuovo lavoro avrebbe
cancellato facilmente
tutte le complicazioni e le conseguenze, regalandogli un impiego
“semplice”. Un
posto che, in quel particolare momento, gli faceva salire l'acquolina
in bocca.
Danny si disse che avrebbe potuto provare, congedarsi per un paio di
settimane
e sperimentare. Solo un assaggio, un tentativo che non gli avrebbe
nuociuto, ma
non era certo della risposta.
Mentre i suoi pensieri continuavano
ad
aggrovigliarsi, inciampare su se stessi, morire e rinascere, Sophie
parlava e
parlava. La sua voce melodica gli faceva notare tutti gli aspetti
positivi di
un suo sì. Era ipnotizzante come soltanto lei sapeva esserlo.
“Ok.”, le fece,
stremato, “Mi congederò per tre
settimane.”
Sophie tentennò.
“Vediamo come si metteranno
le cose.”, Danny
continuò “E prenderò una decisione
definitiva.”
La contentezza esplose sul viso
abbronzato della
sua fidanzata.
“Non tornerai dentro la tua
vecchia divisa.”,
disse, “Non la indosserai mai più.”
***
Le gambe di Rachel
penzolavano fuori dal lettino,
la loro padrona ignorava lo scricchiolio odioso delle vecchie giunture
metalliche. Se ne stava ad osservarla senza distogliere gli occhi dalla
sua figura:
era un'altra delle sue mille tattiche utili a farla impazzire, e poi
parlare.
Se Meg aveva un problema era solita
nasconderlo in
se stessa, trattenendo le brutte sensazioni e metabolizzandole
lentamente. La
spiacevole conseguenza del suo comportamento, come Rachel ben sapeva,
era un
sostanziale mutismo, rotto raramente da qualche monosillabo ripetitivo.
In
cambio, la sua compagna di cella si impegnava a disturbarla per tirare
fuori, o
letteralmente estrarre, dalla sua bocca tutto ciò che Meg
nascondeva. Non era
capace di resisterle, né di ritorcerle contro le sue tattiche.
“Rachel, per
cortesia.”, le fece, “Lasciami in
pace.”
L'altra non rispose.
Meg aveva speso tutto il suo fine
settimana nel
pensare alla brutta razione dell'agente Jones. Non era in grado di
affermare
con certezza se fosse risentita, addirittura incazzata nera, oppure se
fosse
impaurita. L'agente era, per appunto, un agente e, in linea di
principio, si
era comportato esattamente come ci si aspettava, ma Meg no lo digeriva.
Lo odiava, ma c'era qualcosa di
diverso.
Meg, per un solo attimo, si era
sentita al suo
stesso pari. In quella dannata infermeria lo aveva visto chino sulla
sua
relazione, immerso in quelli che sembravano tutt'altro che pensieri
piacevoli.
Le era venuto naturale e spontaneo chiedergli come si fosse sentito.
Meg, la
detenuta, aveva chiesto a Jones, l'agente, cosa avesse avuto, come si
fosse
sentito, se bene o male. Da persona a persona, da donna a uomo, da
esseri umani
del tutto uguali.
Lo recitava Orwell, nella fattoria
tutti gli
animali erano uguali agli altri animali, ma qualcuno era sempre
più uguale
degli altri.
E loro non sarebbero mai stati uguali,
Meg
lo sapeva benissimo.
“Credo che con questa mano non mi
sarà semplice
seguire il corso.”, disse.
“Cosa ti ha detto il
dottore?”, domandò allora
Rachel, lasciando il letto.
“Dovrò tenere le bende
per un po', poi toglieranno
i punti e vedranno se sarà il caso di fare riabilitazione.”
“Addirittura?”,
esclamò l'altra, “Non pensavo che
fosse così grave.”
Meg scrollò le spalle.
Forse era il caso di sdraiarsi sul
suo lettino,
chiudere gli occhi ed attendere che l'orologio scoccasse la mezzanotte,
trasformando la domenica in un lunedì. Il weekend era scorso in
modo pessimo,
sperò che la nuova settimana davanti a lei sarebbe stata
lievemente migliore di
quella in conclusione. Soprattutto sperò di avere la giusta
occasione per
prendere quell'idiota di un agente da una parte e riempirlo di calci.
Si trovò di nuovo nel mondo
dell'utopia.
***
Il lunedì arrivò con
tutto il suo carico di
malumore. La ferita le doleva, le bende le rendevano impossibile
utilizzare le
dita e, essendo tutt'altro che mancina, Meg fu costretta a sforzarsi in
ogni
piccola azione quotidiana. Spazzolarsi i capelli, lavarsi i denti,
vestirsi,
fare colazione, tutto con la mano sinistra, goffa e inutile. Le gengive
presero
a sanguinarle, i bottoni non entravano dentro alle asole, il cibo
slittava via
dalle posate. Aveva bisogno di un aiuto e Rachel fu estremamente
contenta di
darglielo. Più che altro, fu estremamente divertita, lei
come tutte le
altre detenute.
La presero in giro, la chiamarono
con migliaia di
soprannomi.
Per la prima volta fu contenta di
andarsene al
corso, lasciandosi alle spalle un pollaio in piena attività.
Meg entrò nella serra in
compagnia di Annelise e
delle altre detenute, nonché dell'agente Morris. Tutte
sembravano preoccuparsi
per lei, per la sua mano, e vollero sapere tutto ciò che il
dottore le aveva
consigliato per una pronta guarigione.
“Niente di che, devo soltanto
tenere le bende.”,
rispose.
“E poi?”,
domandò Annelise.
“E poi mi toglieranno i
punti.”
“Come farai con le
lezioni?”, insistette la donna,
“Non puoi lavorare, infetterai la ferita.”
“Potrei stare ad ascoltare. Prometto che sarò una studentessa
migliore.”,
disse, ponendo la mano infortunata al cuore e alzando la sinistra in
aria,
“E che starò più attenta.”
Annelise alzò le
sopracciglia e sorrise.
Falso.
L'agente Morris intervenne.
“Potrei aiutarti
nell'impresa.”
Meg ebbe un attimo di smarrimento.
“No... Grazie.”, le
rispose, quasi intimorita.
Anche l'agente notò la
strana inflessione della sua
voce. Morris la conosceva, sapeva che, quando Meg voleva, era una
detenuta
dalla lingua lunga, e si era aspettata una controbattuta sarcastica. Le
due si
guardarono, come se il vuoto creatosi dovesse essere riempito in
qualsiasi
modo, da una parola o da una risata, da un gesto.
La stasi del momento venne
interrotta dall'entrata
di Daisy, seguita da Carlos.
Meg prese un profondo respiro e
abbassò gli occhi
al pavimento, pronta a ignorare totalmente l'agente Jones. Non che le dovesse delle scuse per ciò che
aveva
fatto, era fuori dal mondo che accadesse. Lo faceva per principio.
La porta della serra venne chiusa
con un tonfo, i
presenti sussultarono in gruppo.
“Cominciate pure.”
La voce non era quella dell'agente
Jones, era bensì
totalmente diversa, di una tonalità più alta ed aveva un
accento completamente
diverso. Perfetto, si disse Meg: tolto il dente, tolto il dolore. Prese
un
profondo respiro e si liberò della tensione.
“Megan, come va la
mano?”, le domandò Daisy,
avvicinatasi.
“Beh, fa un po' male.”,
le rispose, “Posso seguire
senza problemi, ma non mi è possibile lavorare.”
“Perfetto, starai in coppia
con chi vuoi.”, propose
l'insegnante, “Scegli.”
Senza spendere troppo tempo, Megan
puntò subito il
suo dito su Carlos. Le lezioni sarebbero passate molto più
velocemente in sua
compagnia, ne era certa. Daisy non ne fu contenta.
“Ok.”, disse, roteando
gli occhi, “Stai con
Carlos.”
“E' meglio farle scegliere
un'altra persona.”
Meg si voltò e fissò
gli occhi in quelli del nuovo
agente. Mai visto prima di quella volta. E aveva un'emerita faccia da
stronzo.
“Barreiro non dovrebbe avere
contatti con le
detenute.”, continuò la guardia.
“Andiamo, Penn.”, lo
riprese la sua collega Morris,
“Non ha mai dato fastidio durante le precedenti lezioni.”
“Ci sono delle regole.
Perché non rispettarle?”,
ribatté l'altro.
“Non è saggio creare
tensione in queste
situazioni.”
“Non è saggio creare rapporti
in queste
situazioni.”
Morris si vide costretta a lasciare
la corda e
dargli la vittoria. L'agente Penn si sistemò nelle vicinanze di
Carlos, che per
tutta la lezione dovette starsene ad almeno un metro dalle altre, in
solitario.
Meg ripiegò su Annelise, che era ben contenta di averla con
sé.
__________________
Note dell'autrice.
Vi ringrazio per l'attenzione e per le recensioni :) Spero che continuerete a seguire questa storia!
Tutte le citazioni di questo capitolo, di qualsiasi tipo, non sono state riportate a scopo di lucro.
.
|