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Portatore di luce
Dal suo castello di rovina,
portatore di luce, in notti spente.
Ma il gelo, il gelo aveva spento ogni luce e si era
infiltrato nelle ossa ed ora – solo ora – il portatore di luce con gelidi occhi
mirava il cielo, che sopra di lui ora scorreva, ora cadeva.
I suoi pezzi, li riempivano le mani.
Gli coprivano l’orizzonte e l’orizzonte stesso, miserabile,
si lasciava dipingere e modellare, da stracci d’eternità.
Era solo e stanco il portatore di luce, sebbene ogni notte
un tocco diverso gli percorresse il corpo, e ricordi di calore gli facessero
tremare l’animo gelato.
Ogni movimento, moriva.
Ombre gli scolpivano il volto e le labbra gli tremavano.
I suoi compagni, li aveva abbandonati da tempo. Li aveva
lasciati in un grembo più caldo e sicuro di quelle rovine, in un luogo dove
l’eternità si incolla alla pelle e da essa trasuda, in rivoli di fango e
polvere. In grembo alla madre i suoi ex-compagni ancora lo aspettavano, d’ansie
seviziati, poiché lui aveva tolto loro persino ogni promessa.
Ingannato, ed ingannatore – la pietra in rovina, altro non
era testimone che di maldicenza; eppure non avrebbe parlato. Non a che di morte
faceva empio sfoggio, e magnifici costumi.
Così, solo e senza parole il corpo pian piano acquisiva la
rovina e la pietra, il freddo.
Stava morendo.
Pensare che il mondo di male va parlando: il mondo non
sente, il mondo pronuncia lettere vuote.
I canti del Cielo, gli riempivano le orecchie. Invero,
durante questi momenti le sue mani a scatti, creavano solchi nella polvere; e
altro non creavano che disegni, immagini del suo cuore impazzito, stretto
nell’agonia.
Spesso il Cielo, durante questa parabola di notti, giungeva
alle rovine senza pretendere altro, che tener compagnia al portatore di luce, con
la sua presenza e i suoi vuoti canti: ma lui, che era avaro di cuore e di
orgoglio vestito, lo ignorava di sovente, preferendo continuare ad esser luce
spenta nel buio della notte; oltretutto, era piuttosto certo che il Cielo, così
espansivo e sporco, con la sua vicinanza l’avrebbe tutto insozzato. Si
scostava, sdegnoso.
Col passare del tempo, le sue labbra si stavano spaccando.
Passava le ore della notte immobile, fissando il gelo che
gli copriva gli occhi, pregando che il Sole non sorgesse più: così, non avrebbe
più dovuto sfuggire al suo sguardo.
Dopo lunghe ore passate ad intonare canzoni d’infanzia il
Cielo lo lasciava, infine, dicendo: “Lungi, lontano, lontano. Buonanotte.” Ma
il portatore di luce non avrebbe dormito, anche il Cielo infondo lo sapeva:
invero, era piuttosto sicuro che avesse paura dei sogni. Inoltre, temeva che il
portatore muto non fosse neppure più capace di chiuderli, i suoi occhi; con
ogni probabilità solo il Sole sarebbe riuscito a scioglierli. Ma anche questa
era solo una supposizione: infatti, ad ogni alba dall’alto lo vedeva, a
tentoni, barcollante e cieco sottrarsi allo sguardo dell’astro fratello: se ne
andava. Nell’ombra, tra le ragnatele. Vergognoso.
Una sola volta, interrogato sul perché rifuggisse il Sole,
che pure avrebbe potuto riscaldarlo e portargli del bene, il portatore di luce
gli aveva risposto, con voce raschiante e piena di sdegno: “È nient’altro che
ladro di miseria altrui, quell’infausto essere; ogni qualvolta che ti empie di
sè, che con la sua luce non ti rivela nulla, ma piuttosto nasconde. Secca il
marciume sulla pelle degli uomini per poi trasformarlo in polvere, polvere che
mi opprime i polmoni. Ogni volta che sento tutto ciò ripetersi, vorrei
rivolgergli tutte le maledizioni e gli improperi, perché anch’esso cada;
purtroppo però, questo essere, mio nemico, non lo mostra neppure, il suo volto:
la sua natura è troppo alta per rivolgersi alla terra! Così, lascia che gli
altri si affannino a cercare nel suo riflesso sembianze umane e un’anima –
invano, perché è la sua essenza stessa che esso mostra – essenza volgare,
stupida. Anche quando ero bambino, e tutto era giovane ciò mi accecava, e mi
faceva schiavo. Ora lo capisci il perché, non ne voglio essere toccato? Eppure
tu, che mi visiti di continuo, spesso te lo poni nel grembo.”
Il Cielo, allora chinò il capo. Una muta vergogna fece il
suo nido nel bassoventre, mentre la colpa, liquida, gli cadeva dagli occhi: era
stato abbandonato.
Muto e vinto, struggendosi, se ne andò salendo nelle sue
sale, dove chiamò a gran voce le nuvole, affinché si ponessero tra lui e la
terra.
Dopodiché, si sdraiò sul suo giaciglio, e il Sole e la Luna
giacquero e se abbandonarono il suo letto più volte: lui però, nemmeno li
percepì al suo fianco. Lui, che sognava la terra, si rigirava tra le coperte
senza pace, tormentato dagli incubi e dalle veglie dolorose; pure quando non
sentì più il bisogno di dormire, preferì continuare a giacere nel letto, a
fissare il suo sguardo su tutto, tranne che il mondo sottostante. Anche il suo
cuore, a sua immagine, ogni tanto si dimenticava di battere.
Era scesa la notte, e nel suo castello di rovina, il
portatore di luce non era più solo.
Anime, corpi dalla terra erano saliti come vermi, e
strisciando veloci, accerchiandolo – ai suoi piedi, si erano gettati – e ora, percorrevano il suo corpo ritrovato,
con mani bollenti.
Gemendo, il portatore di luce abbassò il capo, tra i vermi.
Questi, li si appesero al collo, lo strattonarono: infatti, col tempo anche la
luce che gli aveva sempre rischiarato gli occhi si era abbassata, la stessa
luce che li aveva sempre permesso di intravedere il suo cammino; ora, questa li cingeva il collo stretta,
facendoli mancare il respiro.
Costretto, gemeva, contorcendosi.
A scatti cercava di scacciare quegli incubi fatti di terra,
con l’angoscia nel cuore, con le cinghie strette ai polmoni, cieco,
dimenandosi: ma il peso dei corpi lo schiacciava alla pietra, dove per tutto
quel trambusto la sua pelle si riempì di ferite ed abrasioni, che con il loro
bruciore ancor di più, aumentavano l’agonia della massa brulicante di corpi.
Volgeva il capo in cerca di vie di fuga, frenetico, cercando di sfuggire alle
numerose membra che lo afferravano, lo graffiavano, facendolo sanguinare; ma
gli stracci di cielo che aveva a lungo raccolto e i vermi, le anime facevano cadere
misero il suo orizzonte.
Il sangue, colava.
Lento, umido, sulla pietra oramai scivolosa.
Intanto, il portatore di luce aveva perso persino il suo
corpo, e il ghiaccio dei suoi occhi si era sciolto, imbrattandogli il viso.
L’umido, bruciante umore che gocciolava dalle labbra dei suoi compagni li
annebbiava la vista e li cementava il cuore, che avvolto dalla melma
rallentava, perdeva il suo battere stremato.
Giaceva scomposto sul cemento.
Così, quando il giorno sorse e il Sole lo sorprese, attorno
a lui il freddo si era sciolto, lasciando il suo corpo immerso in una
pozzanghera pietosa, misera e sudicia come l’inferno da cui proveniva. Lo
conobbe così il Sole, nudo e putrido, dalle membra e dall’anima disfatte:
inorridì l’astro, alla vista del fratello.
Che, ahimè, era caduto a terra.
Passò un giorno intero, il portatore di luce tra le rovine
ritirate del castello, la sua collezione di pietre; e delirava, delirava col
senno suo sciolto sotto di sé.
Ma infine, infine con il sollievo della notte scese anche il
suo amico Cielo, al suo fianco: il Sole, li aveva raccontato tutto. Pietoso,
con la carità bruciante nel cuore che stava oramai decadendo, lo colse da terra
e posò il capo del portatore di luce nel suo grembo. Non poteva lasciarlo,
perché anche lui stava cadendo a pezzi.
Il Cielo, stava cadendo.
Pioveva, e la pioggia lavò il corpo sfinito ed ustionato
dell’astro caduto.
Con le dita, il Cielo intanto gli pettinava i capelli,
scioglieva i nodi per riscoprire dolci boccoli, che intrecciava nelle
voluminose acconciature delle nuvole. Attorno al viso incavato creava cornici
di sogni, che fossero magnifici, questa volta: al suo fianco, chiamò le aurore
e gli arcobaleni, le albe e i crepuscoli, la pioggia d’estate e i venti di
primavera.
Altresì quando si svegliò, il portatore di luce scoprì gioia
e stupore che mai aveva conosciuto. Per un attimo, sorrise alla morte; disse
allora il Cielo, piangendo: “ Lucifero, Lucifero, astro del mattino: conosci
ora il mondo, che prima ti apparteneva e che mai mirasti, se non con occhi
severi? Quale desiderio puoi avere, ora?” “ Le labbra, le tue labbra sono il
mio più grande desiderio: labbra morbide, non bagnate d’umore come quelle che
mi hanno percorso il corpo, di sovente. Piuttosto che il loro umido, marcio
contatto preferisco che i miei occhi gelino e le mie labbra si spacchino.
Cielo, Cielo, io solo ora ti amo. Amo la tua freddezza e la tua lontananza,
dalle meraviglie che ti percorrono. Come la lontane stelle, che più non sono
mie compagne. I miei compagni ora, marciscono sottoterra.”
E fu così, per l’amore di un momento, che il Cielo si
allontanò dal calore e dal Sole, divenendo sempre più freddo, fino a congelare.
Ghiacciò il Cielo, e mentre così immobile restava, il suo
cuore, smise di battere.
Di lui, rimase solamente la sua immagine, riflessa dal mare,
e il suo ricordo, sulle labbra d’altri.
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